sabato 2 marzo 2013

Tre buoni diavoli / Isabel

Fantaparodia, 39718 caratteri, versione 1.3


TRE BUONI DIAVOLI
ISABEL
(episodio pilota)
di
Leonardo Boselli


L’Inferno, proprio quello con la ‘I’ maiuscola che Dante attraversò più di settecento anni fa, è un pozzo interminabile, immenso, oscuro, scavato nelle profondità della terra. Non si può immaginare un luogo così ricolmo di sofferenza e di dolore, ma allo stesso tempo così vuoto d’amore e di pietà. Le urla dei dannati lo riempiono in ogni sua parte; gridano la loro disperazione, la perdita di ogni speranza.

Malacoda, uno dei diavoli noti come malebranche, ad ali spiegate, ammirava librato nell’aria cupa quello spettacolo terrificante, ne veniva corroborato ed, esaltato da quella visione, affondava ancor più strettamente gli artigli nell’anima sventurata che stava trascinando con sé sempre più in basso. Un sottile gemito usciva da quel dannato, ma il tormento degli uncini non era nulla rispetto all’angoscia di aver sciupato la propria esistenza per ottenere cose senza importanza. Malacoda poteva percepire tutte le sensazioni, i rimorsi, i rimpianti che attanagliavano quella povera anima, che avrebbe avuto l’intera eternità per disperarsi inutilmente, un giorno dopo l’altro, per sempre.

Il demonio alato sorvolò i primi cerchi dell’Inferno. Passò nel turbine dei lussuriosi accompagnandoli per un breve tratto nelle loro evoluzioni, poi giunse alla città di Dite, sulle cui mura infuocate l’orda dei diavoli guardiani lo salutò sguaiatamente cantando: «Alato malebranche, quante fiate / viaggiasti in suso e in giuso portando / sulle spalle...», ma fu un attimo e subito il demone riprese quota. Osservò dall’alto la necropoli di tombe infuocate degli eretici, infine attraversò la pioggia di fuoco che flagella il deserto di sabbia dei bestemmiatori.
Malacoda, che aveva descritto nei minimi particolari quel terrificante paesaggio all’anima dannata che portava artigliata sulle spalle, già sentiva aria di casa. Ammirò ancora una volta l’ordine spietato che regnava nei dieci enormi fossati del cerchio ottavo, attraversati a raggiera da lunghi ponti. In quell’ultimo tratto volò su un canale ricolmo di fetido sterco, per planare infine sulle sponde della quinta Bolgia. Era davvero giunto a casa.

Quella Bolgia non era cambiata molto negli ultimi settecento anni. Alte sponde circondavano un fiume di pece in continua ebollizione. Il puzzo e l’elevata temperatura lo rendevano un luogo aspro e inospitale, ma Malacoda lo considerava dopo tanti secoli come casa sua. Era tutto quello che gli rimaneva dopo che era stato cacciato dai cieli del Paradiso, come gli altri angeli ribelli. Non c’era nulla che potesse eguagliare la vicinanza della sorgente dell’Amore e dissetare per l’eternità come il risplendere della Sua Luce, eppure aveva creduto di poterne fare a meno, accecato dall’orgoglio della propria nullità. Quell’idea divenne subito una certezza e, in quello stesso momento, venne precipitato sulla terra con Lucifero e i suoi seguaci: era stata una scelta che in lui, puro spirito, non poteva che essere irrevocabile, assunta per l’eternità.
Ora conduceva quel suo ufficio a contatto con i dannati con solerzia e una compiaciuta abnegazione, tanto che era tenuto in considerazione tra i malebranche come un capo. Invidiava gli uomini, perché avevano tutta una vita davanti per redimersi, riconoscere la rovina a cui conduce il peccato e rinunziare a esso, mentre per lui era bastato un attimo per perdersi completamente.
Proprio a causa di quell’invidia per l’imperfezione umana, quando si trovava tra gli artigli una di quelle anime sventurate, provava un malsano piacere a saggiarne la consistenza.

Giunto sul ponte che attraversava tutta la quinta Bolgia, ormai diroccato da quasi due millenni, Malacoda si posò leggero e trattenne davanti a sé il dannato, proprio di fronte al baratro.
Gli spiegò compiaciuto: «Osserva il tuo nuovo mondo. Abiterai qui per sempre. Questo fiume di pece bollente e maleodorante ti inghiottirà per l’eternità. Solo una cosa cambierà un giorno: alla fine dei tempi il tuo corpo, ora disfatto, risorgerà e tu soffrirai ancora di più. Guarda tutto con attenzione, perché tra poco non vedrai che il nero della pece.»
Il dannato, di fronte a quella visione, si rivolse al demone piangendo e dibattendosi: «Abbi pietà, ti prego! Non merito tutto questo! Cosa ho fatto di male nella mia vita? Niente più di quello che tanti altri politici e amministratori hanno fatto e continueranno a fare!»
Malacoda ascoltando quelle parole non provava alcuna pietà, ma solo disprezzo per quel pusillanime. Gli rinfacciò: «Tu chiedi pietà a me? Dovevi farlo a suo tempo rivolgendoti a chi te l’avrebbe concessa senza chiederti nulla in cambio, se non questo pentimento. Ora è troppo tardi» e così dicendo lo sollevò oltre il bordo del ponte.
«No! Aspetta! Almeno una cosa concedimela. Avverti la mia famiglia, fai sapere ai miei figli dove mi ha portato la mia condotta, non devono finire così, seguendo il mio esempio. Ti scongiuro! Io sono il senatore...», ma Malacoda lo scaraventò dal ponte giù nella pece; lo guardò girare su se stesso mentre agitava le braccia e precipitava. L’impatto fu rovinoso e la dura pece fagocitò il dannato in un attimo. La superficie viscosa, turbata da quel tuffo, si calmò per qualche istante ma riprese a bollire rapidamente. Intorno a quel punto si radunarono subito in volo alcuni malebranche.
Dall’alto del ponte Malacoda, che in quei momenti si concedeva di essere didascalico, pensava tra sé e sé: “Caro dannato senza nome, questo amore per i tuoi figli dovevi dimostrarglielo in vita, con l’esempio di una condotta retta. È inutile che io mi presenti a loro portandogli i tuoi ammonimenti. Se mi mostrassi, più che spaventati dalle tue parole, sarebbero attratti dalla seduzione della mia potenza e finirebbero per adorarmi!”
Passati lunghi momenti d’attesa, lo sventurato senza nome riemerse dalla pece e spalancò la bocca e gli occhi come se gli mancasse l’aria. I malebranche, che l’aspettavano al varco volando lentamente in cerchio, simili ad avvoltoi sulla carogna di cui vogliono cibarsi, lo uncinarono senza pietà e lo ricacciarono sotto la crosta bollente ridendo e insultandolo. Malacoda compiaciuto osservava dall’alto la scena.
In quel momento gli si avvicinò Barbariccia, anche lui un malebranche, il quale disse: «Eccone un altro. Sembra che non ci sia mai fine a questo scempio. Poco male, per noi il divertimento è assicurato.»
Malacoda rispose: «Più ne scoprono e più ne nascono. C’è stato un periodo, qualche anno fa, in cui questi barattieri venivano smascherati a mazzi. Per un po’ sono rimasti tranquilli, in apparenza, ma poi hanno ricominciato peggio di prima. Sembra che lo facciano apposta: dovrebbero sapere che possono essere colti con le mani nel sacco, ma per loro è come se niente fosse. D’altra parte quei pochi sventurati che per sbaglio finiscono in galera escono subito. Purtroppo per loro, alla fine ci siamo noi! A noi non possono raccontare di essere ladri a loro insaputa» concluse con un ghigno rivolto al compagno.
Barbariccia aggiunse: «Mi hanno detto che ora non si chiamano più barattieri, ma concussori.»
Malacoda si ripeté mentalmente la parola, poi disse: «Suona bene, sembra un appellativo meno lurido, però la sostanza non cambia. Saranno sempre spirito e carne per i nostri artigli.»

In quell’istante si udì in lontananza un rumore assordante come di trombe e timpani. Un intenso bagliore si stava avvicinando impetuosamente da oriente. I due malebranche si volsero con curiosità verso di esso. Era ancora indistinto ma già non lo si poteva osservare direttamente, perché quella luce accecante squarciava le tenebre, e quel suono rompeva la monotonia di gemiti e lamenti. Il bagliore e il rombo aumentavano sempre più, tanto che i due demoni si coprirono gli occhi con gli artigli e si dovettero accovacciare riparandosi con le ali. Poi tutto cessò all’improvviso.
Malacoda non osava alzare lo sguardo, ma udì una voce che lo chiamava, una voce che non sentiva da secoli. Era talmente soave e dolce che il suo spirito ne fu trafitto dolorosamente da parte a parte e gli fece ricordare un tormento che teneva represso dentro di sé, ma che lo angosciava incessantemente dall’inizio dei tempi. Si sentiva chiamare per nome, il suo vero nome, quello che nessuno aveva più osato o saputo pronunciare da migliaia di anni. E la voce, quella voce! Era così soave che il suo suono lo accarezzava; poteva sentire un brivido sfiorare la sua pelle coriacea. Da quella presenza emanava calore, ma non quel caldo soffocante che la pece bollente sbuffava continuamente ribollendo, era invece quel calore accogliente che ristora nelle fredde sere d’inverno, quando ci si siede di fronte al camino in cui arde un grosso ceppo acceso.
Malacoda sentì pronunciare per la terza volta il suo nome, il suo vero nome, e trovò il coraggio di alzare lo sguardo. Aprì lentamente gli occhi e, abituandosi al bagliore, cominciò a distinguere i lineamenti di chi lo interpellava. Si trovava in piedi, fermo davanti a lui. Quel volto! Non lo vedeva da millenni e ne provava un’immensa nostalgia, ma adesso era come se l’avesse potuto ammirare da sempre, per tutti i giorni della sua esistenza, perché un tempo erano stati una cosa sola.
Si alzò. Gli sembrò d’impiegarci un’eternità, ma quando fu in piedi, era ancora sovrastato in altezza e doveva faticare a tenere gli occhi aperti per l’intensa luminosità. Era uno dei sette Arcangeli, uno dei primi messaggeri di Dio. La sua bellezza era indescrivibile, proprio perché le sue qualità non potevano essere classificate dalle categorie umane. Né maschio né femmina, possedeva nei suoi tratti la bellezza di entrambi i sessi, dolcezza e forza, pazienza e fermezza, fecondità e capacità di fecondare. Eppure, tentando di scrutare in quella presenza, quasi si comprendeva che il suo splendore, la sua essenza, non erano altro che un riflesso del vero Splendore e della vera Essenza.
Malacoda in piedi di fronte all’Arcangelo ne era schiacciato, ma anche sostenuto; lo poteva abbracciare, ma allo stesso tempo ne era avvolto. In quegli istanti, avevano continuato a comunicare, ma non erano parole quelle che il demonio credeva di udire, era invece la sostanza stessa della Volontà che gli veniva trasmessa. Era chiamato a compiere una missione.
Come gli era capitato altre volte nei secoli passati, avrebbe dovuto risalire nel mondo degli uomini, dei vivi, e compiere ciò che gli veniva chiesto, o almeno tentare di farlo. Già, perché Dio lasciava sempre un’ultima possibilità a quegli esseri imperfetti che, per quanto potessero toccare il fondo della loro misera esistenza, conservavano sempre in loro stessi una scintilla del divino.
Quando tutto fu chiaro nell’intelletto del malebranche, l’Arcangelo impercettibilmente iniziò ad allontanarsi da lui, senza mai voltarsi. Stava tornando da dove era venuto. Malacoda cominciò subito a percepire il gelo dell’Inferno che lo attanagliava di nuovo e d’improvviso lo assordò il silenzio fatto di gemiti e lamenti. Si sentì perduto, non poteva tornare già cieco e sordo, dopo aver assaporato per pochi istanti cosa significava vedere e udire. Disperatamente si mise a correre lungo il ponte verso la luce che lo illuminava ancora debolmente, poi si lanciò nel buio. Scuotendo le sue pesanti ali tentò di seguire il più possibile quella stella che gli indicava la direzione; ma presto sparì. L’Inferno sembrava ancora più buio e muto di come lo ricordava.
Sconsolato planò sul ponte e tornò dal compagno che si era appena risollevato.
«Che cosa ti ha detto?» chiese Barbariccia. «Io ho sentito solo un frastuono assordante. Per fortuna è durato poco!»
«Già, per fortuna è durato poco» constatò rattristato Malacoda. «Mi ha assegnato una missione su, nel mondo dei vivi.»
Barbariccia al sentire la notizia si entusiasmò subito: «Non sei contento! A me è capitato un paio di secoli fa. Dovevo prendere il posto di un tizio, di quelli che finiscono nel nono cerchio; aveva tradito la fiducia di non so quante persone, amici e parenti. In quei casi, come sai, prima ancora che sia giunto il momento della morte, se ne rapisce l’anima, perché non abbia la possibilità di pentirsi delle sue azioni. Il corpo rimane lassù, guidato da un demonio, ma l’anima è già quaggiù che paga per la sua condotta. Non mi sono mai divertito tanto in vita mia. Chi devi sostituire?»
«Non si tratta di questo» spiegò Malacoda. «Un’anima doveva presentarsi a Caronte qualche giorno fa, ma non si è fatta vedere. Deve essere successo qualcosa di strano lassù e devo controllare; forse è il solito pasticcio causato dalla medicina moderna: non è facile per gli uomini capire dov’è la linea che separa la vita dalla morte. Comunque vedrò come stanno davvero le cose quando sarò là. Vuoi venire su con me?»
Barbariccia si fregava già le mani per la soddisfazione, perché si divertiva molto a lanciare i tranelli delle tentazioni nel mondo dei vivi, sembrava che gli uomini fossero fatti proprio per caderci dentro, ma improvvisamente si ricordò di un impegno e rispose con un po’ di rammarico: «Non posso! Sai quel dannato che è arrivato la settimana scorsa? Ogni sera ci racconta una parte della sua vita giù al ponte diroccato. Io e qualche amico gli permettiamo di rifiatare e lui ce ne racconta delle belle. Ieri è arrivato al suo terzo matrimonio e mi dispiacerebbe perdermi l’episodio.»
Malacoda disse perplesso: «Ma hai tutta l’eternità per fartelo raccontare!»
«Certo, hai ragione. Ma è più forte di me! Devo scoprire come va a finire e devo saperlo al più presto. È tutto il giorno che ci penso. Se venissi con te, non sarei concentrato e farei dei gran pasticci. Ma ora ti devo salutare, si stanno quasi per riunire. Buon viaggio!» e detto questo si tuffò giù dal ponte planando verso il suo appuntamento.
Malacoda guardò oltre il parapetto, verso la pece bollente, e vide due malebranche che litigavano per ottenere un buon posto da cui arpionare i dannati, allora gridò: «Alichino! Calcabrina! Venite qui!»
A quell’urlo i due diavoli guardarono in su e, mentre erano distratti, un dannato ne approfittò per emergere, prendere fiato e rituffarsi. A quella vista Alichino e Calcabrina cominciarono ad accusarsi a vicenda dell’appostamento fallito e dalle parole passarono rapidamente ai fatti. Mentre si radunavano altri demoni che tifavano per l’uno o per l’altro, piombò Malacoda tra di loro riducendoli entrambi a mal partito: «La prossima volta vi affogo nel canale di sterco, altro che pece bollente!»

Ristabilito l’ordine e chiarita la gerarchia, i tre iniziarono il cammino. Era una strana compagnia: il capo si muoveva spedito e aveva ancora in testa l’incontro con l’Arcangelo, che gli avrebbe riscaldato il cuore per i prossimi secoli, mentre i gregari non perdevano occasione per farsi sgambetti e darsi spintoni.
A un tratto Alichino chiese: «Capo, dove stiamo andando?»
«Ecco,» disse Calcabrina, «sei il solito stupido. Non vedi dove stiamo andando?»
Alichino ci pensò, ma non ci arrivava proprio, così chiese: «No, dove?»
«E che ne so io?» rispose Calcabrina. «Chiedilo al capo!»
«Riuscite a stare zitti per qualche minuto? Mi sono già pentito di aver portato voi! Stiamo andando a Roma, perché là abbiamo una missione da compiere.»
Alichino disse soddisfatto: «Mi piacciono le capitali dei grandi imperi. Ci sono stato... quand’era? Boh! Saranno un paio di millenni. Era una città depravata e lussuriosa, vi abitavano milioni di persone provenienti da ogni parte del mondo, una vera bolgia infernale.»
Calcabrina lo derise: «Sei rimasto un po’ indietro, ne è bollita di pece sotto ai ponti da allora!»
I tre malebranche volarono per ore, poi raggiunsero la volta della crosta terrestre. Trovarono un anfratto e cominciarono la dura risalita. Il passaggio era talmente ostruito che fu necessario farsi largo a forza, così richiesero l’intervento dei grossi calibri.
Dopo la potente scossa, Calcabrina disse: «Una bella botta! Pensi che là sopra abbiano sentito qualcosa?»
«Penso proprio di sì» rispose Malacoda.

* * *
Dopo aver strisciato nei meandri delle viscere della terra, non era difficile attraversare quell’ampio tunnel costruito dall’uomo. A intervalli regolari si aprivano pozzetti e caditoie sulla volta di quella fogna da cui filtrava una debole luce. Non che ne avessero bisogno: i malebranche erano abituati a scrutare nel buio grazie all’allenamento di secoli d’oscurità, che preferivano di gran lunga alla luce abbagliante del sole. Neppure il fetido fiume che scorreva in quelle fogne dava loro noia, perché il suo puzzo non era nulla in confronto alle esalazioni arroventate che rilasciava la pece bollente.
«Che galleria ben costruita!» disse Malacoda ammirato, mentre camminava a passo spedito con la melma al ginocchio.
«A quanto pare, in questi ultimi secoli, le tecniche di costruzione sono migliorate notevolmente» aggiunse Alichino, che lo seguiva poco distante.
Calcabrina spense subito l’entusiasmo dei compagni dicendo: «Non mi sorprende che i nostri clienti siano aumentati così tanto negli ultimi tempi, infatti queste opere devono smuovere molto denaro e credo proprio che la maggior parte rimanga appiccicata alle mani degli amministratori comunali.»

Calcabrina chiamava clienti i dannati che ogni giorno, a frotte, venivano precipitati nella pece bollente della quinta bolgia. Quando le anime, ancora inesperte, riemergevano per trovare sollievo dalle temperature estreme che sembravano cuocerne la pelle e le carni, i malebranche si divertivano a ripescarli con i loro uncini e, dopo averli tormentati con graffi e mutilazioni, ascoltavano le loro patetiche storie. I più avevano vissuto arricchendosi senza alcun ritegno approfittando della loro posizione. Erano amministratori di città o stati che vendevano permessi di qualsiasi genere al miglior offerente o pretendevano denaro per servizi che invece erano dovuti. Dante li chiamava barattieri, noi li definiamo più pomposamente concussori. Tanti politici che in vita, quelle poche volte che venivano scoperti, si giustificavano dicendo che, in fondo, tutti erano ladri come loro, non trovavano molto sollievo nel ritrovare nella loro stessa situazione tanti altri ladri, come loro, tuffati nella pece bollente e tormentati dagli artigli di demoni spietati.

Malacoda interruppe le chiacchiere e ordinò la ricerca di una via discreta per salire in superficie. I compagni si arrampicarono lungo le trombe dei pozzetti facilitati nella scalata dagli uncini di cui erano dotati e così ispezionarono meticolosamente numerosi tombini. Era notte e la luce che filtrava dalle grate era prodotta dai lampioni che illuminavano la strada soprastante. A quell’ora i luoghi circostanti non erano molto frequentati, ma sempre troppo per tre malebranche corpulenti che volevano passare inosservati. Si vedevano ai lati della strada lunghe file di vetrine illuminate a giorno. Poi, finalmente, dopo aver perso da tempo il conto dei pozzetti ispezionati, Calcabrina annusò nell’aria l’odore caratteristico della carne inanimata. Era quello che stavano cercando, l’ideale per nascondersi e non dare nell’occhio: prendere possesso di un ordinario corpo umano non occupato.
«Qui intorno ci sono dei cadaveri freschi», annunciò ai compagni. Malacoda aveva pensato di portarsi il fido Cagnazzo per individuare corpi incustoditi, ma il fiuto di Calcabrina si stava dimostrando all’altezza del compito.
Dopo aver rimosso con qualche difficoltà alcune sbarre d’acciaio e una grata di protezione, il gruppo, ripiegate le ali, salì in superficie attraverso la stretta apertura. Nell’oscurità della notte, non si vedeva anima viva. Gli edifici intorno sembravano disabitati e le loro sagome si disegnavano indistinte contro il cielo colorato di un rosso cupo. Si trovavano all’interno di un cortile circondato da basse mura sulla cui sommità, per evitare l’ingresso di eventuali intrusi, erano fissati spuntoni metallici e un robusto reticolato.
«Seguitemi!» disse Calcabrina. Guidò il gruppo verso una delle porte che si aprivano lungo il perimetro. Su una targa c’era scritto ‘Obitorio - Ufficio del Medico Legale’.
I malebranche, approfittando delle sbarre divelte e della loro forza sovrumana, forzarono la porta e penetrarono all’interno dell’edificio. Camminando a passo spedito sul freddo pavimento, si spostavano lungo il corridoio seguendo una traccia disegnata nell’aria che il loro olfatto finissimo riusciva a percepire. Avevano l’aspetto di segugi intenti a seguire la traccia odorosa della loro preda e il ticchettio dei loro artigli sulle mattonelle rafforzava la suggestione di quell’immagine.

A un tratto Malacoda si arrestò e fermò al contempo i compagni. Aveva appena provato la netta sensazione che dietro l’angolo del corridoio qualcosa, nella semioscurità delle luci di cortesia, stesse guardando con pazienza il locale deserto. Poteva percepire degli occhi assonnati che distrattamente osservavano la scena immobile, per poi tornare a concentrarsi nella lettura di una rivista.
«Ora!» ordinò all’improvviso Malacoda e svoltò l’angolo di corsa, mentre il resto del gruppo era in attesa del segnale. In alto, sopra la porta, si poteva notare una telecamera di sicurezza, ma in quel momento era cieca perché la guardia di sorveglianza, distratta, non stava guardando i monitor.
I malebranche passarono velocemente sotto la telecamera chiedendosi di cosa si trattasse ed entrarono nel locale attiguo spingendo le maniglie antipanico. La porta si spalancò.
Al centro della stanza semibuia, illuminata da un solo neon che si spegneva a intermittenza, c’era un freddo tavolo autoptico in acciaio. Era pulito, ma i demoni potevano sentire chiaramente che su quel tavolo erano stati sezionati innumerevoli corpi e che, nel canale di scolo che lo circondava interamente, era scorso il sangue ormai indistinto di uomini e donne. Incrostazioni delle loro vite terrene si erano accumulate su quel tavolo, molte gridavano ancora vendetta, mentre altre chiedevano soltanto pace.
Su un lato della stanza, si aprivano numerosi loculi frigoriferi e i malebranche capirono che ciò che stavano cercando era chiuso al loro interno.
Malacoda si avvicinò a uno di essi, senza sapere perché fosse attirato proprio da quello in particolare.
«Questo è mio!» disse perentoriamente e, agendo sulla maniglia, aprì lo sportello. Assieme al carrello, su cui c’era un corpo coperto da un lenzuolo, uscì un zaffata d’aria gelida. Alichino e Calcabrina si disposero intorno, mentre Malacoda rimuoveva il lenzuolo, e si misero a osservare il corpo nudo.
«È un vecchio in condizioni accettabili,» disse Alichino, «ma non vuoi vedere gli altri prima di scegliere?»
Malacoda rispose: «No, è lui che ha già scelto me.»
«Bene, vediamo cosa resta» disse Calcabrina e aprì uno dopo l’altro i loculi, scoprendo i corpi conservati all’interno.
Una prima serie era troppo danneggiata. Erano crivellati di colpi e il medico legale aveva già portato a termine il suo lavoro, infatti una vistosa cicatrice a ‘Y’ percorreva il loro torace. Non era possibile usarli senza dare troppo nell’occhio ed era piuttosto laborioso rimetterli in piena efficienza. Altri invece erano semplicemente troppo vecchi.
Calcabrina, infine, scelse un uomo di colore corpulento. Era attirato dall’aspetto sicuro e fiero che ancora incuteva pur in quella posizione estrema.
«A me piace questo!» disse. «E tu Alichino, hai trovato?»
Alichino era immobile di fronte al corpo di una giovane e rimaneva in silenzio. Calcabrina si avvicinò e disse beffardo: «A te piacciono giovani e belle, merce rara.»
Malacoda interruppe le chiacchiere. Avrebbero occupato quei corpi, li avrebbero rimessi in efficienza e, dopo averli utilizzati per muoversi nel mondo dei vivi senza dare nell’occhio, li avrebbero restituiti al termine della loro missione. Si trattava solo di un prestito, infatti i loro veri proprietari li avrebbero riavuti intatti alla fine dei tempi.

* * *
Il mattino dopo, Marcello Mastroianni, il medico legale, giunse in ufficio un’ora prima del solito. Era stato svegliato all’alba da una telefonata della polizia che lo aveva informato dell’accaduto. Preoccupato, si era vestito in fretta e in moto aveva raggiunto l’Istituto di Medicina Legale. Non si era rasato e la barba ispida gli dava un aspetto vissuto che lo rendeva interessante, ma lo invecchiava parecchio. Lo avresti detto più vicino ai cinquanta che ai quaranta.
Posteggiò la moto tra due volanti con i lampeggianti accesi. Ai poliziotti che volevano allontanarlo si qualificò, così fu invitato a raggiungere il commissario Contini che stava eseguendo un primo sopralluogo. Salì le scale di corsa, attraversò il corridoio ed entrò nella sala delle autopsie.
Vide un uomo e una donna che ispezionavano l’ambiente in cerca di tracce. Si presentò all’uomo e disse: «Commissario? Sono Mastroianni, il...»
«No» lo interruppe l’uomo, «io sono ispettore. Il commissario Cinzia Contini è lei.»
Imbarazzato si volse verso la donna e le strinse la mano. Vide che era veramente bella. Non più alta di lui, elegante, un bel sorriso sincero e uno sguardo diretto. Di solito nelle donne osservava con attenzione ben altro e aveva già notato che c’era molto altro da guardare, ma aveva di fronte un commissario e si sforzò di non abbassare gli occhi al di sotto del mento. Stringendole la mano provò a giustificarsi: «Mi scusi, avevo pensato...»
«Non si preoccupi, mi capita spesso. Tutti si aspettano un uomo.»
«Volevo dire che mi aspettavo qualcuno più vecchio.»
Cercò di farle un complimento, ma era sincero, infatti non dimostrava più di quarant’anni.
«La ringrazio. Come le ha detto il collega, sono il commissario Cinzia Contini. È stato convocato così presto perché dobbiamo porle alcune domande.»
«Sono a sua disposizione» rispose. Le lasciò a malincuore la mano e si passò le dita sulla barba di due giorni.
«So che si chiama Marcello, come l’attore» disse la Contini sorridendo.
«Sì, mia madre era appassionata di cinema. Mio padre invece faceva Mastroianni di cognome» rispose, nel vano tentativo di sembrare un tipo simpatico, dato che la carta del fascino l’aveva già sprecata.
«Non era di questo che volevo parlarle, ovviamente. Abbiamo già effettuato i primi rilievi e consultato il registro; i corpi scomparsi sono tre.»
Allora il medico chiese: «Chi ha scoperto il... rapimento?»
Il commissario spiegò che una delle donne delle pulizie aveva sentito degli strani rumori nel ripostiglio degli armadietti. Insospettita, ma per nulla intimorita, era entrata all’improvviso. Pensava di sorprendere l’autore dei piccoli furti che da qualche tempo venivano commessi ai danni dei dipendenti e, invece, si trovò di fronte tre persone che si stavano vestendo con gli indumenti trovati negli armadietti. Pare che fossero due uomini e una ragazza. Dopo essere stati sorpresi, sono fuggiti.
«Due uomini e una ragazza?» chiese il medico. «Se ieri sera non avessi visto i corpi chiusi nelle celle, avrei pensato che...»
La Contini lo interruppe e gli fece cenno di seguirla. Attraversato a ritroso il corridoio giunsero all’ufficio del custode. L’ispettore, che li aveva preceduti, azionò un videoregistratore e sul monitor centrale della stanza cominciarono a scorrere le immagini della sera precedente. A un tratto si videro passare sullo schermo tre enormi figure scure, indistinte. L’ispettore fece ripetere la scena più volte anche al rallentatore e disse: «Eccoli! Sono tre ed entrano nella sala. È troppo scuro, l’immagine è disturbata e non si distinguono. Comunque l’aspetto è decisamente inquietante.»
«La guardia non si è accorta di nulla?» chiese Mastroianni.
«No,» rispose la Contini, «ma il bello deve ancora venire.»
L’ispettore fece avanzare il nastro ed, ecco, a un certo punto, tre figure nude, un uomo bianco, uno di colore e una ragazza, uscire dalla sala. Camminavano lentamente e la telecamera li riprendeva di spalle, poi all’improvviso, senza fermarsi, la ragazza voltò la testa e li fissò negli occhi. Quello sguardo gelò il sangue a Mastroianni.
«È lei» disse con un filo di voce.
«La riconosce?»
«Sì, è lei. L’hanno portata ieri sera. Strangolata e gettata nel Tevere. A un primo esame era rimasta in acqua dalla notte precedente. Oggi avrei dovuto farle l’autopsia.»
«A quanto pare non ce n’è più bisogno» disse la Contini. «Mi raccomando, finché le indagini saranno in corso, nessuno ne deve sapere nulla. Mi riferisco a chiunque, ma soprattutto ai giornalisti. Io invece diramerò un avviso di ricerca per tre persone scomparse.»
Mastroianni annuì, mentre la ragazza del video lo fissava ancora negli occhi.

* * *
I tre malebranche in incognito si godevano il caldo di quel mezzogiorno di luglio in uno dei parchi cittadini. Dopo aver assunto le loro nuove identità, formavano un trio ancor peggio assortito di prima: un sessantenne brizzolato che dimostrava più dei suoi anni (Malacoda), un trentenne di colore (Calcabrina) e una slava quasi diciottenne (Alichino). Gli indumenti che avevano trovato negli armadietti, t-shirt con scritte di ogni tipo e improbabili bermuda, non sfiguravano al confronto con l’abbigliamento dei turisti che vagavano, nella calura di quella afosa giornata di luglio, alla ricerca del refrigerio di una fontana.
«Queste strane scarpe sono comode» disse Calcabrina alzando una gamba e osservando il sabot bianco che aveva al piede. «Ora che siamo ben mimetizzati per entrare in azione, si può sapere che cosa dobbiamo fare?»
«Prima mangiamo! Io muoio di fame» disse Malacoda e si avviò verso un chiosco in fondo al parco.
Il proprietario di quel chiosco aveva una cattiva abitudine: quando riceveva i pagamenti dei turisti, incassava la banconota e restituiva il resto per un taglio inferiore. Se il malcapitato non se ne accorgeva era un bel guadagno, altrimenti aveva la faccia tosta di fingersi mortificato per l’errore. Con questo sistema aveva imbrogliato già tante nonnine che compravano il gelato ai nipotini, proprio come quella che precedeva Malacoda e diceva al nipote: «Eccoti il gelato, ma stai attento e non ti sporcare», mentre dopo aver dato 50, riceveva il resto di 20.
Malacoda, che nel frattempo si era servito, disse al barista: «Tre hot dog, uno con senape, uno con maionese, uno con ketchup e poi tre diet coke
«Sono 18 euro» disse il proprietario che pensava: “Se mi dà 20 pazienza, ma con 50 ritento il giochetto. A giudicare da come è vestito, questo vecchio non dev’essere molto sveglio... ma cosa aspetta?”
I demoni sanno leggere nella mente dei comuni mortali, soprattutto quando progettano qualche malefatta.
Il barista ripeté: «18 euro!»
«Sì,» disse Malacoda, «te ne ho appena dati 50, li hai in mano.»
«Ehm, no,» rispose sottovoce, «questi me li ha dati la signora.»
La nonnina, che era anziana e svampita, ma non sorda, intervenne: «No, io le ho dato 20, ecco qui il mio resto di 20» e poiché le disgrazie non capitano mai da sole, erano comparsi anche due poliziotti di quartiere che avevano ordinato due caffè al bancone e distrattamente osservavano la scena.
«Hai sentito la signora? Allora dov’è il mio resto?»
Non ci volle molto. Malacoda ricevette i suoi 32 e si porto via lattine e fagotti.

«Chi vuole il ketchup
«Io» disse Calcabrina. «Adesso possiamo sapere perché siamo qui?»
Alichino, che era stato in silenzio fino ad allora, gustando il suo hot dog alla maionese, intervenne: «Prima volevo parlarvi di una cosa che mi sta molto a cuore.»
I due compagni si guardarono stupiti, infatti Alichino tutto poteva avere fuorché un cuore, ma quelle erano cose che potevano capitare, quando prendevi in prestito un corpo come avevano fatto loro. Nel bene o nel male, i ricordi e i sentimenti del loro ospite potevano farsi strada nel loro animo. È incredibile quanto le ultime volontà rimangano appiccicate, restando addosso inespresse: non puoi liberartene se non soddisfandole. Accadeva la stessa cosa a tutti e tre, ma Alichino si stava rivelando il più sensibile. Aveva sbagliato a scegliere il corpo di una ragazza, perché sono le più difficili da gestire.
Malacoda, che aveva capito il problema e sapeva che bisognava risolverlo o avrebbe dovuto fare a meno di Alichino, con rassegnazione e comprensione chiese: «Che cosa ti assilla?»
«Già» disse Calcabrina, «oggi non sei il solito stupido rompiscatole. Così combinato mi sei perfino simpatico, hai un certo sex-appeal che mi smuove dentro sentimenti sopiti da...»
«Zitto! È una cosa seria. Ascoltiamolo!»
Alichino iniziò a raccontare con la voce di una ragazza quasi diciottenne, ma che dimostrava più della sua età: «Mi chiamo Isabel e provengo dalla Romania. I miei mi hanno mandata in Italia per trovare un lavoro e far fronte ai problemi economici della famiglia. Sapete, mio padre è invalido e ho sei fratelli più piccoli. Bene, un lontano parente, una specie di cugino, aveva promesso di trovarmi un lavoro. L’unica cosa che ha fatto è stata quella di picchiarmi e di sfruttarmi facendomi lavorare in strada. Di ciò che guadagno lui si tiene quasi tutto e manda qual poco che rimane a mio padre. Quanta brutta gente ho conosciuto...»
Malacoda intervenne: «È triste, lo so, ma ne abbiamo sentite di peggiori. Vieni al dunque.»
«Due giorni fa, ero con un cliente, una persona distinta, un avvocato. Non era mai stato troppo violento, ma quella notte gli prese un raptus. Forse aveva assunto più droga del solito e quella sera aveva avuto anche una discussione con la moglie, credo. Beh, a un tratto, nella foga del momento, mi ha strangolata. Ho ancora sul collo i segni delle sue mani.»
«È vero!» disse Calcabrina osservandole la gola.
«In realtà non ero ancora morta. Nella sua follia si era fermato appena in tempo, ma avevo perso conoscenza. Quello che segue l’ho saputo dopo: lui era fuori di sé e chiamò quella mia specie di cugino, perché non sapeva come sbrigarsela. Forse avrebbero potuto salvarmi, ma credendomi in fin di vita, insieme decisero che era più conveniente liberarsi del mio corpo e perciò mi gettarono nel Tevere.»
«Che bastardi!» disse Calcabrina e, rivolto a Malacoda, aggiunse: «Non ti fa rivoltare lo stomaco certa gente?»
Malacoda rispose: «No questa schifezza non mi disturba; sparatorie, accoltellate, pestaggi... povere vecchie massacrate e derubate della pensione... insegnanti sbattuti giù dal sesto piano perché bocciano i ragazzi; no tutto questo non mi disturba affatto. Non mi disturba per niente sguazzare nella melma di questa città, travolto dalle ondate sempre più fetide della corruzione, apatia, burocrazia. No tutto questo non mi disturba; sai cosa mi disturba? Sai che cosa mi rivolta veramente lo stomaco? Vederti ingozzare avidamente quel salsicciotto, nessuno, ripeto, nessuno ci mette il ketchup, ci vuole la senape!»
(Citazione dal film “Coraggio... fatti ammazzare” di Clint Eastwood)
Poi aggiunse, rivolto a Isabel: «È davvero una storia triste, ma noi cosa possiamo farci?»
«Non lo so, ma io sento forte dentro di me un impulso irrefrenabile: questa sera a un’ora precisa devo trovarmi al Km 20 dell’Appia Nuova.»
Non c’era nulla da fare, quegli impulsi dovevi soddisfarli o non te ne saresti mai liberato. Avrebbero accontentato Alichino.

* * *
L’avvocato era fuori di sé. Aveva appena letto il giornale del mattino e nella pagina della cronaca locale aveva trovato una foto di Isabel, quella ragazza per la quale aveva perso la testa e che aveva ucciso pochi giorni prima. Nell’articolo c’era scritto che era scomparsa e chiunque avesse avuto informazioni era pregato di contattare la polizia.
In quel momento il telefonino squillò. Era il suo pusher romeno che gli diceva di accendere la TV sul TG regionale. Lo speaker stava ripetendo la stessa notizia.
«Dobbiamo vederci,» disse il pusher, «io ti ho dato una mano, ma non ci ho ancora guadagnato nulla e la famiglia di Isabel ha perso la sua fonte di reddito. Per il momento portami 25 mila euro al solito posto così ne parliamo.»
«Sono troppi! Dove li trovo a quest’ora? Non eravamo d’accordo così.»
«Arrangiati. L’altra sera ho scattato delle foto. Del corpo ce ne siamo liberati, ma le immagini sono sufficienti per farti incriminare. 25 mila stasera e trattiamo sul resto.»

I due si incontrarono nel luogo convenuto. L’avvocato aveva capito che non si sarebbe più liberato di quel ricattatore, ma non aveva idea di come fare per toglierselo di torno. Ci avrebbe pensato un altro giorno.
Ora i due si trovavano sul fuoristrada dell’avvocato di ritorno verso Roma.
«Vai piano,» disse il pusher, «non c’è fretta.»
Aveva sulle ginocchia la valigetta con i 25 mila e la stava soppesando.
«Tutto è bene quel che finisce bene» disse con il suo accento approssimativo. «Gli errori si pagano, ma per fortuna hai trovato un buon amico come me.»
L’avvocato che aveva bevuto parecchio per smaltire la tensione, spinse ancor di più sull’acceleratore.
Era buio e non c’era traffico ma l’asfalto era reso viscido da una leggera pioggerellina. A un certo punto, ad alta velocità, il fuoristrada giunse al Km 20 dell’Appia Nuova. Sembrava ci fosse qualcosa in lontananza al centro della carreggiata e in un istante se la trovarono davanti, troppo tardi per frenare. Gli abbaglianti illuminarono la bianca figura di una ragazza in piedi al centro della corsia, era Isabel. L’avvocato terrorizzato scartò improvvisamente e il fuoristrada si schiantò contro un albero.

* * *
Il commissario Cinzia Contini fu svegliata alle tre di notte. Amava alzarsi presto, ma era decisamente troppo presto. Quando giunse al Km 20 dell’Appia Nuova c’erano ancora un’ambulanza e una volante con i lampeggianti accesi. C’era anche un uomo accanto a una moto, che riconobbe essere il dottor Mastroianni, ma rimaneva lontano, in disparte.
«Che cosa è successo? Perché mi avete fatta chiamare?»
Un agente stava esaminando l’interno dell’abitacolo, mentre un altro rispose: «C’è stato un incidente. Questo fuoristrada ha sbandato. Fortunatamente non ci sono altri veicoli coinvolti. Il conducente è rimasto seriamente ferito e ora è ricoverato nel vicino ospedale. Si tratta di un noto avvocato della città. Ci doveva essere una seconda persona come passeggero. A giudicare dal parabrezza sfondato e dal sangue perso, secondo il dottor Mastroianni, deve essere deceduto, ma il corpo non si trova. Infine, ecco il motivo per cui l’abbiamo chiamata.»
Il poliziotto si spostò sul retro del fuoristrada seguito dalla Contini e aprì, con qualche fatica, il bagagliaio.
Alla luce del lampione, il commissario vide il corpo nudo di una ragazza. La osservò da vicino e, mentre le guardava il volto, notò sul collo anche i segni evidenti di uno strangolamento. Non sarebbe stato difficile fare un raffronto con le impronte di un sospettato. Ma quel viso! Ricordava di averlo già visto.
Il poliziotto disse: «È senza dubbio la ragazza di cui ha segnalato la scomparsa ieri. Tenevo l’avviso che è stato diramato sul cruscotto e l’ho riconosciuta subito.»
«È vero, è lei» confermò la Contini.
A quell’ora non riusciva a collegare bene i fatti. Una ragazza che era già all’obitorio se n’era andata in giro per Roma ed era finita in un portabagagli. E poi anche un secondo corpo mancava all’appello, senza contare gli altri due fuggiti dall’obitorio.
«Dite alla scientifica di rilevare al più presto le impronte sul collo. Chiederò un mandato per confrontarle con le mani del conducente.»
Mentre il poliziotto tornava al suo lavoro, la Contini guardò un’ultima volta il viso della ragazza. Sembrava sereno. Si tolse l’impermeabile e coprì il corpo.
Il dottor Mastroianni nel frattempo si era avvicinato, mise il suo giubbotto sulle spalle della Contini e disse: «È tutto così... incredibile.»
Quella notte piovigginava e faceva freddo per essere luglio. Cinzia Contini rabbrividì e si strinse nel giubbotto di Marcello, il dottor Mastroianni. Poi lo guardò e disse: «È troppo tardi per tornare a dormire, ma non è presto per un caffè. Vieni, offro io!»

FINE EPISODIO

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