sabato 2 marzo 2013

Le viscere del mondo

Horror, 19980 caratteri, versione 1.1


LE VISCERE DEL MONDO
di
Leonardo Boselli


Lo Junkers stava sorvolando la Germania diretto a Berlino. Il tempo era bello per essere novembre e il viaggio confortevole, infatti il trimotore aveva incontrato pochi vuoti d’aria e i passeggeri non avevano di che lamentarsi.
Karl Vogel, un ufficiale della Gestapo, la polizia segreta del Reich, era seduto vicino al finestrino e vedeva scorrere i campi coltivati coperti a sprazzi da basse nuvole. Era stato richiamato con urgenza da Parigi, dove di recente aveva portato a termine alcune decisive operazioni contro la Résistance, per occuparsi di un caso che stava molto a cuore allo stesso Reichsführer Himmler, il capo delle SS.
Accanto a lui era seduto l’obersturmführer Friedrich Stahl, un giovane e ambizioso tenente delle SS, esperto in lingue e culture orientali, che aveva il compito di scortarlo.
In quei giorni di novembre del ‘43, la guerra infuriava su tutti i fronti e per i nazisti era urgente trovare qualche asso da giocare sul tavolo del conflitto al momento opportuno. Perciò si stavano conducendo spasmodiche ricerche in ogni campo scientifico per produrre l’arma finale che potesse dare un consistente vantaggio sugli avversari, ma allo stesso tempo venivano indagati anche i lati più oscuri del soprannaturale e degli antichi miti.
Vogel distolse lo sguardo dal paesaggio e tornò a leggere i documenti che aveva di fronte. Sulla cartella era stampigliato l’emblema dell’Ahnenerbe, l’organizzazione delle SS che si occupava degli studi sulle origini della razza ariana. Anche il tenente Stahl apparteneva a quella sezione, come testimoniava il simbolo cucito sull’avambraccio della divisa, un pugnale intrecciato, sotto la fascia rossa con la svastica nera in campo bianco.
«Non capisco perché abbiate bisogno di me» disse Vogel rivolto al tenente, interrompendo la lettura e togliendosi gli occhiali. «Mi fa piacere rivedere Berlino, ma non credo proprio di potervi essere utile.»
Il tenente sorrise. «Lei è troppo modesto. Il nome del kriminalkommissar Vogel è arrivato alle orecchie di persone molto in alto, accompagnato dai rapporti sulle difficili indagini che ha condotto brillantemente. Non c’è da stupirsi che abbiano pensato a lei.»
«Sono lusingato,» disse Vogel inforcando gli occhiali per riprendere la lettura, «ma temo che questo caso vada al di là delle mie capacità.»
«Sono certo che non ci deluderà» rispose convinto Stahl, che aveva avuto modo, durante il viaggio, di parlare a lungo con il commissario e ne aveva apprezzato la cultura, l’affabilità e, soprattutto, la determinazione.
Al contrario del tenente, Vogel era vestito in borghese, come erano soliti fare i membri della Gestapo quando operavano nei territori occupati; ma in realtà il suo abbigliamento costituiva una sorta di divisa che lo rendeva facilmente riconoscibile come appartenente alla polizia segreta. Indossava, infatti, un elegante impermeabile di pelle nera a doppio petto, un borsalino e una cravatta rossa su cui spiccava la spilla del partito nazista, mentre un paio di occhiali di tartaruga e dei baffi sottili rendevano il suo aspetto piacevole e rassicurante, per quanto tutto il resto non facesse che incutere timore.
Spesso il commissario Vogel si affidava a questa sua ambiguità per mettere a disagio i propri interlocutori. Si presentava come un uomo raffinato ed elegante, aperto e disponibile, ma subito dopo poteva sfoderare un’insospettata crudeltà, che pure era già evidente nella fredda eleganza che ostentava.
Il profilo affilato del commissario tornò a osservare per qualche momento i campi coltivati, poi si concentrò di nuovo nella lettura.
Il documento che stava esaminando era un libretto sgualcito, un diario che risaliva al 1939, quattro anni prima. Era stato redatto da un capitano delle SS, l’hauptsturmführer Konrad Jürgens, durante una missione in Tibet.
Vogel, come molti altri in Germania, ricordava bene un’altra esplorazione sul tetto del mondo compiuta nel ‘38 da Ernst Schäfer, perché ne era stato proiettato un avvincente resoconto nei cinegiornali. Si trattava di una missione tra le più alte vette della terra alla ricerca delle origini del popolo tedesco, sulle tracce dei primogenitori della razza ariana. Vennero svolte ricerche geologiche, etnografiche, zoologiche, addirittura si eseguirono misure craniche delle popolazioni native; il gruppo visitò anche il palazzo del Potala, la sede delle massime autorità di Lhasa, la capitale del Tibet, ed entrò in contatto con le personalità più in vista del luogo. Al loro ritorno vennero accolti in patria trionfalmente e fu dato grande rilievo ai risultati scientifici che avevano ottenuto.
Ma la missione descritta nel diario che Vogel stava leggendo non era quella dei cinegiornali. Si trattava invece di un’esplorazione condotta dal capitano Jürgens e tenuta nella massima segretezza. Secondo i documenti fallì miseramente con la misteriosa scomparsa dell’intera spedizione.
Molte pagine del diario riportavano noiose ripetizioni. Si descrivevano i percorsi tortuosi seguiti per non farsi notare, mentre la missione di Schäfer attirava su di sé l’attenzione con le sue visite di rappresentanza a Lhasa e con le sue colonne di muli stracariche di animali impagliati, collezioni di insetti, campioni geologici e intere collane di testi buddisti.
Invece, il capitano Jürgens, con due soli compagni bene addestrati e poche guide indigene, aveva come obbiettivo il palazzo di Yumbulagang, che Schäfer era riuscito a visitare solo per pochi giorni a causa dei divieti delle autorità britanniche. Si trattava di un’antica residenza delle popolazioni tibetane, ormai abbandonata da secoli.
Perché fosse stata scelta quella meta, o perché la missione fosse condotta in così gran segreto, la documentazione non lo diceva, ma ribadiva che il gruppo giunse sul posto senza clamore, quasi ignorato dalle popolazioni locali.
Il diario cominciava a diventare interessante a quel punto. Veniva descritta la ricerca di una valle tra le montagne che era indicata con il toponimo Grunewald, la verde valle dei progenitori che, a sua volta, doveva condurre alla Terra Cava, un intero mondo sotterraneo dove, secondo alcune credenze fiorite nell’ottocento, si sarebbero trovati tuttora i discendenti di quella razza originaria. Gli ariani attuali avrebbero potuto trarre nuova forza dalla purezza dei loro antenati, per poter affermare la loro superiorità sulle popolazioni inferiori.
Il diario terminava nell’agosto del ‘39. In quell’ultima pagina, con una scrittura molto incerta, veniva annunciato il ritrovamento della presunta Grunewald e la scoperta di un enorme squarcio in una scoscesa parete rocciosa, tra rocce pericolanti minate da potenti terremoti. Le pagine successive erano ingiallite, macchiate dagli agenti atmosferici, e vuote.
Il tenente Stahl aveva atteso con impazienza che il commissario terminasse la lettura. Vogel allora commentò: «Una bella storia; peccato che non ci sia un finale.»
L’ufficiale delle SS replicò: «Non è ancora al corrente di tutto. Il finale lo abbiamo, solo che non riusciamo a leggerlo. Per questo abbiamo bisogno della sua esperienza: quello che è accaduto è scritto nella memoria del capitano Jürgens.»
Il commissario rimase perplesso, perché i documenti sostenevano che la missione era finita in tragedia per qualche oscuro motivo. Ma Stahl rivelò che ciò non corrispondeva del tutto alla verità.
«Più tardi le racconterò quello che non troverà scritto nella carte e che sono autorizzato a comunicarle solo a voce. Questa notte ne approfitti per riposare, perché domani sarà un giorno molto lungo.»

* * *
La Mercedes-Benz stava percorrendo velocemente la strada per giungere alla sede dell’Ahnenerbe a Dahlem. Alle prime luci dell’alba la città si stava animando, dopo aver passato una notte insonne a causa degli allarmi che segnalavano le incursioni aeree nemiche. Pochi giorni prima, un bombardamento su Berlino aveva provocato un centinaio di vittime, ma le batterie antiaeree erano riuscite ad abbattere nove fortezze volanti inglesi.
Durante il tragitto, Stahl raccontò a Vogel il resto della storia, mentre uno spesso vetro li separava dal sottufficiale delle SS che guidava la vettura.
«Il capitano Jürgens è ancora vivo» rivelò. «È stato estremamente difficile farlo rimpatriare perché la guerra era ormai scoppiata e la via dell’India era impedita dalla massiccia presenza inglese. L’operazione di rientro, però, ha avuto successo. Tra poco lo potrà incontrare; ma c’è un problema.»
«Ed è per questo che avete bisogno di me.»
«Esatto, le sue competenze subentrano a questo punto, perché lo stato mentale di Jürgens non ci consente di comunicare con lui se non in modo frammentario.»
L’automobile svoltò bruscamente nei pressi del Reichstag, poi riprese decisa la sua corsa nel traffico mattutino.
Stahl continuò: «Come ha letto nelle ultime pagine del diario, il capitano Jürgens e gli altri due ufficiali SS si addentrarono in una grotta. Pare che un recente terremoto avesse colpito quella parte della montagna e reso agevole l’accesso all’apertura. Il diario termina a quel punto. Le guide rimaste al campo base si aspettavano un’escursione di poche ore, ma hanno dovuto attendere giorni. Quando ormai disperavano, dal baratro riemerse il solo Jürgens. Camminava lentamente, disorientato, con lo sguardo assente; interrogato non rispondeva e nessuna sollecitazione riusciva a smuoverlo da quella sua apatia. Sono addirittura stati costretti a nutrirlo a forza.»
«Come è rientrato in Germania?»
«Non sono al corrente di tutti i particolari, ma l’importante è che ora sia qui. Dal ritrovamento le sue condizioni non sono cambiate. In molti lo hanno esaminato senza successo: medici, psichiatri, medium, spiritisti. Siamo convinti che abbia visto cose che potrebbero essere molto utili alla causa del Reich, ma nessuno finora è riuscito ad andare oltre la cortina del suo sguardo vuoto. Talvolta riesce a formulare parole incomprensibili che, dopo mie lunghe ricerche, sono risultate frasi in un antichissimo dialetto tibetano.»
L’auto si fermò di fronte alla sede dell’Ahnenerbe.
«Siamo arrivati» disse Stahl.

* * *
Vogel e il tenente erano entrati in una cella dalle pareti imbottite nel seminterrato del palazzo. Un medico delle SS in camice bianco li attendeva e salutò battendo i tacchi: «Heil Hitler!»
In un angolo, c’era un uomo rannicchiato, legato da una camicia di forza. Vogel lo osservò con attenzione. Pur con i capelli e la barba rasati, riconobbe i lineamenti del capitano Jürgens; solo lo sguardo non corrispondeva: appariva vuoto e spento, mentre in fotografia quegli stessi occhi fiammeggiavano fieri.
Jürgens, inizialmente immobile, cominciò a emettere un verso ripetitivo e a far oscillare il busto.
Il medico si presentò, disse di chiamarsi Hofstetter e illustrò sommariamente la situazione clinica del paziente, che tenevano immobilizzato perché in certi momenti soffriva di eccessi di autolesionismo.
«Oggi non gli abbiamo somministrato i soliti calmanti perché aspettavamo il suo arrivo,» disse rivolto a Vogel, «ma ora è meglio iniziare, prima che diventi ingestibile.»
Si spostarono nella sala degli interrogatori. Stahl e Hofstetter aiutarono il capitano a camminare, finché giunsero in una stanza semibuia. Al centro c’era una scomoda e pesante sedia in legno, corredata di lacci per immobilizzare le braccia, la testa e le gambe. Una forte luce direzionale illuminava direttamente quella sedia, ma lasciava nella penombra tutto il resto. Da una parte c’era un carrello su cui erano appoggiati vari tipi di strumenti.
«Tutto quello che ci ha chiesto è stato preparato,» disse Stahl rivolto al commissario, «iniziamo subito.»
Vogel si liberò dell’impermeabile di pelle, esibendo un elegante completo scuro, e appese il borsalino a un attaccapanni, quindi chiese: «Nessun altro deve assistere?»
Il tenente Stahl era ambizioso e aveva convinto il dottore a condurre quella seduta preliminare senza la presenza di altri ufficiali: ciò che avrebbero scoperto poteva essere di importanza fondamentale per le loro carriere.
«Solo noi, per ora. Ha bisogno di un camice?»
«Grazie, no.»
Il capitano Jürgens venne liberato dalla camicia di forza e assicurato alla sedia con robusti lacci. Era tornato calmo e non reagiva ad alcuno stimolo. I suoi occhi grigi fissavano un punto lontano, indefinito, ma a un tratto indirizzò lo sguardo verso Vogel, come se una parte di lui avesse capito ciò che stava per accadere. Cominciò a ripetere alcune parole, ad alta voce, e poi sempre più forte. Era una frase ossessiva, incomprensibile, sempre la stessa.
Vogel era abituato a sentir gridare. Poteva capire fino a che punto spingersi durante gli interrogatori proprio ascoltando la disperazione di quei suoni inarticolati, conosceva il significato delle urla più disumane e dei gemiti sommessi, ma quella voce non aveva nulla di umano. Erano grida cavernose, le cui vibrazioni sembravano uscire dalle viscere della terra ed entravano nella testa, si facevano largo, si agitavano da una parte all’altra del cervello e impedivano di pensare.
Il commissario era giunto al limite della sopportazione e la siringa che stava preparando era sul punto di cadere; voleva urlare che lo facessero tacere in qualche modo, ma proprio in quell’istante il mento di Jürgens ricadde sul petto e gli occhi tornarono vuoti.
I presenti, raggelati, tirarono un sospiro di sollievo. Stahl disse: «Penso che si rivolgesse a lei. Utilizzava parole arcaiche. Credo dicesse: “Presto, liberami”. È la prima volta che una sua frase sembra avere un senso.»
Vogel, scosso da quella reazione, terminò di aspirare il contenuto di una fialetta con la siringa e si apprestò a iniettarlo nel braccio di Jürgens. La vena era ben definita e il liquido entrò immediatamente in circolazione.
«È scopolamina» spiegò. «Renderà il soggetto più malleabile alle mie sollecitazioni.»
Il medico gli confidò che avevano già tentato quella procedura, ma non era servito a nulla: lo stato di incoscienza era perdurato.
Vogel, ignorando il commento del dottore, continuò: «Di per sé questo allucinogeno possiede solo proprietà depressive, ma ha lo scopo di rendere più semplice la fase successiva.»
Poi si rivolse al capitano: «Konrad, so che puoi sentirmi. Ti senti imprigionato in questo corpo, ma se hai fiducia in me presto sarai libero.»
Quindi, modulando il suo tono di voce, disse: «Ora ti chiedo di rilassarti, chiudi gli occhi, ritorna con la mente alla tua infanzia, torna al tempo in cui vivevi con i tuoi genitori a Düsseldorf. Ricordi tua madre?» e mentre pronunciava quelle parole appoggiava l’indice e il medio alla base del collo, sulle spalle, e in altri punti del corpo del capitano esercitando brevi pressioni. Jürgens non chiuse gli occhi e continuò a fissare il vuoto.
Dopo qualche minuto il dottor Hofstetter, che rivolgeva occhiate scettiche a Stahl, fece per intervenire: voleva manifestare le sue forti perplessità nei confronti dell’ipnosi; ma in quel momento il capitano con un filo di voce disse: «Mamma.»
Tutti rimasero sconcertati, perché ora parlava con una voce infantile.
Ci volle molta pazienza, ma alla fine Vogel riuscì a riportare la mente di Jürgens in Tibet, all’interno di quella spaccatura nella montagna.
«Cosa vedi? Cosa c’è intorno a te?»
Il capitano, con una voce flebile, rispose: «Hans... Hans mi sta precedendo. Siamo in una lunga galleria contorta. La torcia non riesce a illuminarne la fine. Scavalco un ostacolo, striscio attraverso una stretta apertura.»
«Continua. Senza fretta.»
«Fa caldo. Molto caldo. L’atmosfera è opprimente, è come un alito, umida. Heinrich alle mie spalle dice di aver visto qualcosa muoversi... mi volto, ma la fiamma mi abbaglia e non distinguo più nulla.»
Seguì una lunga pausa. Il respiro del capitano divenne irregolare. Vogel gli toccò dolcemente il polso: il ritmo cardiaco era accelerato.
«Cosa sta succedendo?» gli chiese.
Jürgens riprese: «Mi sono girato di nuovo verso Hans, ma non lo vedo più. Corro avanti per raggiungerlo, e lo trovo fermo, di spalle. Lo chiamo, gli dico che dobbiamo restare uniti, ma non risponde; allora lo strattono, lo giro e...» lanciò un urlo agghiacciante, spalancò gli occhi come se di fronte a sé vedesse qualcosa di orribile, al punto da non riuscire a distogliere lo sguardo, e cominciò a dibattersi violentemente. I lacci reggevano a stento la sua furia.
«Tenetelo fermo!» gridò Vogel.
Mentre gli immobilizzavano il braccio, iniettò una forte dose di calmante.
«Siamo sicuri di voler continuare? Un’altra crisi come questa potrebbe ucciderlo» disse concitato il dottore, ma Stahl accecato dall’ambizione ordinò che si proseguisse: non erano mai arrivati così vicini alla verità.
Dopo aver aspettato che si calmasse, il commissario domandò: «Dove sei ora?»
«È buio.»
«Le torce sono spente?»
«No, è buio dentro.»
«Dentro a cosa?»
«Quella cosa mi scruta dentro. Sento che cerca, pone domande incomprensibili. È gelida, il suo alito è ghiacciato. Ho freddo» e così dicendo venne scosso da un brivido.
«Dove sono Hans e Heinrich?»
«Sono solo.»
«Chi c’è con te, Konrad?»
«Ha trovato l’ingresso e gli piace quello che vede, lo sento.»
«Per dove? L’ingresso per dove, Konrad?»
«Gli piace ciò che vede. Lo so, resterà finché non si stancherà, finché non morirò; allora cercherà l’uscita. Voglio morire, aiutami!»
Quella fu l’unica frase che ebbe un’apparenza di lucidità.
«Resterà dove? Uscire da cosa? Di cosa parli, Konrad?»
Vogel non ottenne risposta, mentre la testa di Jürgens cadeva di lato, senza vita. Sembrava che il suo desiderio fosse stato esaudito.
Il dottor Hofstetter prese uno stetoscopio e lo appoggiò sul petto di Jürgens. «È morto» confermò.
Ma in quel momento un fremito percorse il cadavere legato alla sedia, che iniziò a contorcersi come se l’anima di Jürgens volesse abbandonare il suo guscio.
Mentre Stahl e il medico osservavano sconcertati la scena, Vogel ripensò a quanto il capitano gli aveva rivelato prima di morire, a quella cosa a cui era piaciuto ciò che aveva visto, ma che si sarebbe presto stancata e avrebbe cercato l’uscita, ed ebbe un’intuizione: lasciò i due compagni intenti a immobilizzare quel corpo apparentemente tornato in vita e uscì con rapidità dalla porta. Senza esitare la richiuse dietro di sé e la bloccò. Poi ruppe il vetro di un pulsante d’allarme e lo premette.
All’interno della stanza si sentì lo schiocco di lacci spezzati, seguito dal trambusto di una lotta e da imprecazioni, poi urla indistinte d’uomini e di bestie; a un tratto, pugni disperati cercarono di scardinare la porta chiusa che, nonostante fosse robusta, resse a stento.
Vogel era lì fuori e udiva quei rumori terrificanti, ma non poteva intervenire, non c’era più nulla da fare, e faceva violenza su se stesso per riuscire a non fuggire.
Dopo interminabili istanti, all’interno della stanza tornò la quiete. Alcune guardie in servizio nel palazzo erano accorse al suono dell’allarme e spalancarono la porta facendo irruzione a mitra spianati.
Trovarono il capitano Jürgens a terra, morto. Accanto a lui il dottor Hofstetter giaceva immobile, sfigurato dai segni di una lotta furibonda e orrendamente mutilato. In un angolo, invece, l’obersturmführer Friedrich Stahl era rannicchiato sulle proprie gambe, con la divisa strappata e lo sguardo perso nel vuoto. In quel momento cominciò a far oscillare il busto e ad emettere un verso ripetitivo.
Mentre le guardie osservavano quella scena inspiegabile, Vogel si avvicinò al tenente e gli bisbigliò: «Caro Stahl, mi dispiace. Evidentemente quella cosa ha trovato l’ingresso e ciò che ha visto gli è piaciuto. Non potevo permettere che capitasse a me.»
Non gli restava che inventarsi una storia plausibile, o con tutta probabilità sarebbe stato internato come il tenente. Quindi raddrizzò l’attaccapanni rovesciato e, dopo aver raccolto l’impermeabile da terra, con precisi colpi lo ripulì dalla polvere. Poi, mentre accorrevano altri soldati, prese il borsalino e l’indossò, si sistemò gli occhiali di tartaruga sul naso e si aggiustò la cravatta: c’era una gran confusione, ma non era un buon motivo per apparire sciatto.

F I N E

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