sabato 2 marzo 2013

Ogni dieci secondi

Thriller, 19993 caratteri, versione 1.0


OGNI DIECI SECONDI
di
Leonardo Boselli


Mike Wilson era seduto al tavolo della cucina e stava pulendo la sua pistola d’ordinanza, una Beretta 90two. Dopo averla smontata, lubrificò con cura le guide di scorrimento e le sedi delle parti mobili del carrello; poi versò qualche goccia di solvente e passò più volte uno scovolo nell’anima della canna.
«Sembri mamma quando lava le orecchie a Tommy» disse Jennifer ridendo.
Mike si voltò e vide sua figlia che lo stava osservando. «Jenny, credevo che fossi in camera tua».
«È quasi ora di cena e devo preparare».
«Allora tolgo subito il disturbo» disse, e rimontò in fretta l’arma: sua moglie non voleva che maneggiasse la pistola quando c’erano i figli in giro. Terminato l’assemblaggio, inserì i proiettili nel caricatore.
Jennifer, che aveva osservato con attenzione tutti i pezzi sparsi sul tavolo, chiese: «Papà, perché quella pallottola ha la punta rossa?»
«Questa? Perché è a salve; vuol dire che fa solo tanto rumore».
«So cosa significa, ma se non è pericolosa, a che ti serve?» chiese ancora più incuriosita.
«A fare tanto rumore» ripeté Mike sorridendo, e inserì quell’ultimo proiettile nel caricatore. «Dai, prepara la tavola. Tra poco la mamma sarà qui», e le scompigliò la frangetta bionda con una mano.
Lei si ritrasse e protestò: «Papà, smettila! Non trattarmi come una bambina, non la sono più da un pezzo», ma per lui era inconcepibile che la sua Jenny avesse già quindici anni.

* * *
Jim Daniels era seduto a gambe incrociate sul suo letto. Stava tentando di studiare storia da un’ora, ma capì che non avrebbe mai superato il test fissato per il giorno dopo, così scagliò il libro sul pavimento; quindi prese un fagotto che aveva nascosto nel cassetto del comodino e lo aprì. Di fronte a lui, sul fazzoletto disteso, era appoggiata una pistola, una Beretta 92, con due caricatori da dieci colpi. Era bellissima, a parte l’abrasione del numero di serie.
Passò le dita sul calcio, poi lo impugnò, inserì con decisione uno dei caricatori e fece scorrere il carrello, come gli aveva mostrato il tizio che gliel’aveva venduta.
In quell’acquisto aveva investito il computer che gli era costato le mance di un’estate.
Si alzò dal letto e si guardò allo specchio. Si vide in calzoncini e t-shirt; un ragazzo come tanti altri di cui notava soltanto i difetti: le gambe lunghe e secche, e quella testa di capelli sopra le spalle strette. Quindi iniziò una pantomima che aveva provato tante volte.
«Ehi, tu, stronzo!» si disse.
«Dici a me? No, dico... dici a me? Eh, sì; non ci sono che io qui» si rispose, quindi di scatto tese il braccio e puntò la pistola all’immagine nello specchio. «Vaffanculo figlio di puttana. Che fai? Non parli più? Ti sparo in quella testa del...»
«Jim, stupido incapace! Dove sei? È pronto da mezz’ora!» sentì gridare dal piano di sotto.
Abbassò il braccio. Lo aspettavano per la cena. Intorno al tavolo poteva immaginare sua madre che taceva in un angolo, la sorellastra che lo avrebbe provocato per tutta la durata del pasto, e il patrigno che, con disprezzo, gli ricordava in ogni momento quanto fosse stupido e debole.
Non aveva mai avuto il coraggio di affrontarli, ma in quel momento non si sentiva né stupido, né debole.
* * *
Quella mattina Mike si stava recando a un sopralluogo. Robert, il detective con cui indagava, era alla guida dell’auto e lo stava ragguagliando sugli ultimi sviluppi del loro caso.
A un certo punto la radio annunciò: “A tutte le unità nei pressi della Jefferson High School. Sparatoria in corso. Un agente ferito. Convergere sull’edificio scolastico”.
«Non è la scuola di tua figlia?» chiese Robert allarmato.
Mike, che aveva già messo il lampeggiante sul tetto, disse: «Presto, torna indietro!»
L’auto, al suono della sirena, fece un’inversione a “U” nel traffico. Erano lontani e non sarebbe stato loro compito intervenire, ma questa volta era diverso. Per tutto il tragitto, Mike tentò più volte di chiamare Jennifer al cellulare, ma non ottenne risposta. Suonava a vuoto.
Quando giunsero alla scuola, la trovarono già circondata e parcheggiarono tra due volanti con i lampeggianti accesi.
Il terreno intorno all’edificio era deserto; si poteva notare solo un corpo disteso sulle scale dell’ingresso, in apparenza senza vita.
Allora Mike chiese ragguagli all’ufficiale di polizia che dirigeva le operazioni.
«C’è stata una sparatoria. Molti studenti sono fuggiti, ma alcuni di loro, forse una decina, sono ancora in ostaggio all’interno. Sembra che il responsabile sia un solo studente. Ora sto aspettando la squadra del negoziatore».
«Le perdite?»
«Uno dei primi agenti accorsi ha provato a entrare, ma è stato colpito non gravemente all’ingresso. Comunque, è riuscito ad accertare che il ragazzo steso sulle scale è morto. Tra gli evacuati c’è un altro ferito leggero, lo trovi laggiù», e indicò un’ambulanza poco lontano.
Mike riconobbe l’insegnante di scienze di sua figlia, al quale un paramedico stava medicando una ferita al braccio, mentre un agente lo interrogava.
«Sono il padre di Jennifer Wilson; mi può spiegare che cosa è successo?»
Il professore, visibilmente scosso, si guardava il braccio e ripeteva: «È stato Jim... l’ha presa male... è colpa mia».
L’agente intervenne: «È in stato di choc, ma la ferita non è grave. Ha riferito di uno studente, Jim Daniels, che si è presentato a scuola con un’arma e ha fatto fuoco più volte. A quanto sembra, non tirava nel mucchio, ma selezionava con cura i suoi bersagli».
L’insegnante continuava a farfugliare: «È colpa mia... quel “D” nel test... l’ha presa male».
«Cosa ne è stato di mia figlia? Ha visto Jennifer Wilson?» gli chiese Mike, mentre continuava a chiamare col cellulare senza ottenere risposta.
«Jennifer Wilson? Jennifer e Jim frequentano entrambi il mio corso... non so dov’è ora».
Il paramedico li interruppe: l’ambulanza doveva partire.

Mike cercò di ricordare chi fosse quel Jim di cui parlava l’insegnante. Non conosceva bene i compagni della figlia, ma gli venne in mente, due o tre mesi prima, un ragazzo strano, con problemi negli studi e in famiglia. Jenny aveva cercato di aiutarlo, ma lui in poco tempo aveva maturato un attaccamento eccessivo, e lei aveva preferito ridurre sempre più i contatti. Però le telefonate a casa si erano fatte insistenti e Mike a un certo punto si era intromesso. Non ricordava più con quali argomenti, ma intervenne in modo molto deciso perché quella persecuzione cessasse. Da quel giorno il ragazzo non si era più fatto sentire, e anche a scuola si teneva a distanza.

Intanto, sul posto era arrivato Tom Scalise, il negoziatore del distretto, con la squadra d’assalto. Sembravano tutti ansiosi di risolvere la faccenda in fretta, prima che intervenissero i federali, e la cosa non piaceva per nulla a Mike, perché non aveva ancora scoperto dov’era Jennifer e se stava bene.
«Ancora nulla?» chiese Robert.
«Non risponde. Potrebbe aver perso il cellulare, però non è a casa, mi avrebbero già avvertito».
Il quel momento squillò il telefonino. La suoneria corrispondeva a Jennifer e il display lo confermava.
«Pronto, Jenny! Dove sei?»
Silenzio.
«Jenny? Come stai?»
Ancora silenzio. Poi una voce maschile disse: «Signor Wilson, Jennifer è qui con me e sta bene».
«Chi parla? Sei Jim? Dove siete?»
Ci fu una lunga pausa.
Tom Scalise, che si trovava nei pressi, intuì la situazione e cercò di farsi consegnare il cellulare; diceva che Mike non era qualificato e, se davvero la figlia era in ostaggio, avrebbe potuto causare dei danni.
Poi la voce riprese: «Se sono Jim? Non so più chi è Jim, ma so chi è Mike Wilson: il grande detective, l’idolo di Jenny; inarrivabile, perfetto, nessun uomo è alla sua altezza, tanto meno un ragazzo».
Detto questo, la comunicazione si interruppe.
«Jim, Jim! Fammi parlare con Jenny», ma ottenne come risposta solo il segnale della linea interrotta.
Tom insistette: «Mike, sei troppo coinvolto. Ti devo chiedere il cellulare. Se dovesse richiamare risponderò io. Lo sai, la procedura è questa. È anche per il bene di tua figlia».
«Non so neppure se è davvero viva» disse Mike senza reagire, e Tom gli prese il telefonino.
Il mondo gli crollava addosso: nella migliore delle ipotesi la sua bambina era nelle mani di uno squilibrato armato; nella peggiore... ma scacciò dalla mente quel pensiero.
* * *
Tom Scalise era arrivato a quell’incarico da negoziatore a fine carriera, ma lo sentiva suo da sempre. Metteva a punto con rapidità un profilo sommario dei soggetti con cui aveva a che fare e, costruendo un rapporto basato sulla credibilità che man mano si conquistava, affinava quel profilo. In alcuni casi, era riuscito a ottenere la liberazione degli ostaggi e la resa dei sequestratori dopo aver promesso l’impossibile, ma senza aver concesso nulla di concreto.
Ora osservava la scena su cui si stava consumando quel crimine. L’edificio della Jefferson High School era a forma di “H” e disposto su due piani. Lungo tutto il perimetro si aprivano ampie vetrate, alcune delle quali oscurate da tende. La palestra e i campi da gioco erano sul retro, mentre il terreno di fronte alla facciata era occupato da un prato ben tenuto. Di fianco all’ingresso, in cima a una lunga asta, sventolava la bandiera, mentre sui gradini giaceva ancora il corpo del ragazzo morto.
Intorno all’edificio, a distanza di sicurezza, erano parcheggiate le auto della polizia, al riparo delle quali numerosi poliziotti ad armi spianate stavano attendendo ordini, mentre ancora più indietro l’assedio era sostenuto dalle troupe televisive.
Tom aveva tentato più volte di comunicare con Jim utilizzando il cellulare, ma non c’era riuscito. Neppure le sollecitazioni col megafono avevano suscitato qualche risposta. Questo lo preoccupava, perché doveva assolutamente stabilire un contatto per fare progressi e sperare di migliorare una situazione già molto compromessa.
Il profilo che aveva ottenuto dal preside non faceva presagire nulla di buono; inoltre, aveva saputo che quel ragazzo assassinato all’ingresso era noto per i suoi atteggiamenti da bullo e di certo Jim ne aveva subito i soprusi.
Sembrava che tutte le uccisioni riferite dai testimoni fossero mirate e che si stesse consumando una vendetta che covava da mesi. Sapeva come finivano queste faccende: con un suicidio al termine di una carneficina.
Un agente si avvicinò e disse: «Tenente, aveva chiesto di rintracciare i genitori del...»
«Sì, la madre può esserci d’aiuto».
«Ho una brutta notizia: a casa del ragazzo hanno trovato tre cadaveri».
Doveva immaginarlo, la vendetta era iniziata molto prima e ora stava giungendo all’epilogo.
In quel momento suonò il cellulare sequestrato a Mike e Tom rispose: «Pronto!»
Silenzio.
«Jim, sono il tenente Scalise della polizia di Los Angeles. Qualunque cosa ti serva puoi chiedere a me».
Ancora silenzio.
«Jim, ascoltami. Io ho l’autorità per trattare. L’importante è che tu non faccia del male ad altre persone. So che hai degli ostaggi. Come stanno? Avete bisogno di...»
«Io voglio parlare con Mike».
«Certo, potrai parlare con Mike. Ti posso concedere tutto quello che desideri, ma tu devi venirmi incontro. Basta un po’ di buona volontà».
«Passami Mike! Passamelo, o ammazzo un ostaggio, uno a caso. Ho già ucciso tante persone, una in più non fa differenza».
Nel frattempo, un tecnico della squadra d’assalto fece capire a Tom che la posizione del cellulare di Jennifer era stata individuata; sulla planimetria della scuola, indicò un’aula che si trovava al secondo piano.
«D’accordo, ti lascio parlare con Mike, però mantieni la calma. Va tutto bene».
Mike prese il cellulare dalle mani di Tom, che si raccomandò con uno sguardo eloquente.
«Jim, sono il padre di Jennifer».
«Signor Wilson, ora voglio che entri nella scuola».
«Tutto quello che chiedi, ma prima libera Jennifer».
Tom si mise le mani sulla testa rasata: era un gesto di disapprovazione nei confronti di Mike, perché avrebbe dovuto chiedere tutti gli ostaggi, per poi trattare.
Il ragazzo rispose: «Credi che io sia stupido, ma ti sbagli di grosso. Se vuoi rivedere Jennifer, devi venire qui».
«Ti prego, fammi prima parlare con lei».
Dopo un lungo silenzio Mike sentì la voce di sua figlia: «Papà, sto bene. Non preoccuparti, Jim non vuole farmi del male».
«Jenny! Stai tranquilla, ti libereremo».
«Non preoccuparti per me. Qui ci sono cinque ragazzini e sono terrorizzati, li minaccia con una pistola, una come la tua...»
Si sentì del trambusto, poi Mike udì nuovamente la voce di Jim: «Vuoi uno scambio? Tu entri e i cinque cacasotto escono, ma se vuoi Jenny devi venire a prendertela».
«Mandali fuori e io entro. Ti do la mia parola».
* * *
Jennifer si trovava seduta sul pavimento dell’aula, con le caviglie e i polsi legati da lacci di plastica. Fino a poco prima, accanto a lei c’erano cinque ragazzini del primo anno che piangevano e frignavano; adesso era sola con Jim. Lui percorreva la stanza a grandi passi e faceva la spola tra la finestra e la porta; all’andata sbirciava tra le lamine orizzontali della tenda, mentre al ritorno guardava il corridoio attraverso il vetro della porta.
«Jim, l’unica via d’uscita è arrendersi».
Disse quella frase con una calma che la sorprese. Credeva di non aver nulla da temere da quel ragazzo; sapeva che le voleva bene, perché le aveva confidato che era l’unica persona che si fosse accorta di lui da quando era nato.
«Jim, hai bisogno d’aiuto. Non eri in te quando hai sparato».
«Sta’ zitta! Tu non sai nulla di me. Ho pianificato tutto e non ho ancora terminato».
Quell’ultima frase gelò il sangue di Jennifer che non osò aggiungere altro. Pensò a suo padre, alla mamma, a Tommy. Pensò a tutte le cose che non aveva ancora fatto, ma sognava di fare. In quel momento le sue certezze crollarono e la vita ora sembrava poter finire; quella fine così evanescente, che prima non esisteva, adesso era talmente reale da potersi toccare.
«Siamo troppo giovani per morire!»
Il ragazzo non rispose, era perso nei suoi pensieri, nel suo piano.
«Jim, mio padre ti può davvero aiutare».
Quella frase fece effetto. La spola tra la finestra e la porta cessò. Il ragazzo la guardò e poi, brandendo la pistola nell’aria, disse: «Tuo padre! Sono tutti uguali, egoisti, pensano solo a loro stessi. Ha temuto che ti portassi via da lui e mi ha minacciato. Allora ho avuto paura e mi sono tirato indietro, ma ora non ho più paura, è sparita, e ti mostrerò chi è davvero tuo padre. Solo io tengo a te veramente».
Jennifer finalmente riuscì a piangere. Si era detta che doveva essere forte, che era necessario mantenere la calma, ma era crollata: pretendeva di essere più grande di quello che era, ma voleva ancora essere una bambina.
Suonò il cellulare. Era Tom Scalise che ringraziava per gli ostaggi rilasciati e chiedeva se lui e Jennifer avevano bisogno di cibo e acqua.
«Non prendermi in giro. Ho un accordo con il signor Wilson». Poi, mentre guardava sconsolato la sua arma, aggiunse: «A proposito, non deve venire disarmato. Voglio che entri con la sua pistola».

* * *
Mike aveva discusso a lungo con Tom. Dopo il rilascio dei ragazzini, doveva consegnarsi al più presto, ma il negoziatore non era d’accordo. Sosteneva che la squadra d’assalto era ormai posizionata e bisognava solo attendere il momento propizio. Infatti, sul tetto dell’edificio, quattro agenti con elmetti e fucili d’assalto stavano fissando le corde per calarsi, mentre altri sei si radunavano nei pressi dell’ingresso.
Allora Mike, piantato in asso Tom, scavalcò le transenne e corse verso la scuola.
Passò accanto ai componenti della squadra d’assalto accovacciati all’ingresso e, senza guardare il corpo steso sulle scale, aprì quel che rimaneva della porta, un telaio dai vetri infranti.
All’interno, lungo il corridoio, c’erano altri due cadaveri e vide cinque bossoli sparsi. Si chiese quanti proiettili fossero rimasti nella pistola del ragazzo. Contò almeno tre colpi a casa di Jim e qui altri cinque sicuri: aveva quasi svuotato un caricatore.
Giunse alle scale e cominciò a salire. La squadra d’assalto lo seguiva discreta come un’ombra; le teste di cuoio strisciavano lungo le pareti e controllavano col fucile spianato ogni aula.
«Jim, dove sei? Sono Mike. Sto salendo!»
Al piano superiore gli si presentò un nuovo corridoio, con altri corpi stesi sul pavimento. Ormai era chiaro che era stato utilizzato un secondo caricatore. Non poteva rischiare, quel ragazzo doveva avere ancora molte munizioni.
Chiamò ancora. «Jim!»
Una porta si socchiuse a metà corridoio, ma non era la stanza che i tiratori scelti stavano tenendo d’occhio. Si doveva essere spostato. Il sergente della squadra si accorse dell’errore e lo comunicò sottovoce, per radio, ai commilitoni sul tetto.
Mike estrasse la sua pistola e la impugnò per la canna, tenendola bene in vista, e giunse di fronte alla porta aperta di una stanza semibuia.
«Finalmente sei arrivato» disse Jim, nascosto all’interno.
Il sergente, la schiena alla parete, si accovacciò di fianco alla porta, seguito a breve distanza dal resto della squadra.
La voce continuò: «Appoggia la pistola per terra e spingila dentro con un calcio, poi togliti il giubbotto antiproiettili e fai un giro su te stesso».
Mike si chiedeva perché volesse la pistola. Forse aveva esaurito i proiettili e se gliel’avesse consegnata l’avrebbe riarmato, ma non vedeva alternative.
«Prima voglio sentire se Jennifer sta bene».
«È qui. Le ho messo del nastro adesivo sulla bocca. Mi dava noia e ora deve solo ascoltare».
Fece quello che gli aveva detto il ragazzo, mentre a gesti il sergente cercava di dissuaderlo, ed entrò nella stanza semibuia. La sua pistola era sparita.
«Inginocchiati, le mani sulla testa», e Mike eseguì. Poi Jim continuò: «Hai una bella pistola, è come la mia. Sai, avevo esaurito i colpi. Non sono molto bravo, avevo calcolato che due caricatori potessero bastare, ma ho dovuto sparare più volte su ogni bersaglio. Purtroppo l’insegnante di scienze mi è sfuggito, ma con un proiettile in più anche lui avrebbe avuto ciò che si meritava».
«Jennifer non c’entra nulla, lasciala andare, ti prego» disse Mike supplicando.
«Ti ricordi cosa mi hai detto al telefono due mesi fa?»
Mike non rispose.
«Che se avessi importunato ancora tua figlia mi avresti sistemato, che tu lavoravi in polizia e conoscevi tanti metodi per togliermi di mezzo. Ma soprattutto mi hai detto che ero un incapace e che tua figlia non doveva perdere tempo con uno come me. Allora ti ho creduto, ma poi ho capito: non volevi che te la portassi via e lei ti vuole troppo bene per contrariarti».
Durante quel discorso, Mike aveva lentamente voltato la testa e poteva vedere, a pochi metri da lui, il ragazzo che gli puntava la pistola. Un po’ più in là c’era Jennifer, stesa sul pavimento e immobilizzata dai lacci, dal nastro adesivo e dalla paura.
Jim riprese fiato, poi continuò: «Vedi, io ti ammiravo. Jenny mi raccontava tutto di te, di quello che sapeva del tuo lavoro, della tua pistola d’ordinanza, tutto. Ma ora dimmi, chi è l’incapace? Chi non ha saputo difendere sua figlia?»
Mike rispose: «Io, Jim. Io».
«Chi ha il potere? Chi può toglierti di mezzo?»
«Tu, Jim. Tu hai il potere».
«Sì, ora ho un caricatore intero, ma nel piano originale mi sarebbero bastati tre colpi: uno per te, uno per Jenny e uno per me».
Seguì un silenzio che sembrò eterno. Mike pensò che, se il sergente aveva intenzione di fare qualcosa, quello era il momento.
In quell’istante una specie di barattolo rotolò sul pavimento verso di lui. Istintivamente chiuse gli occhi e abbassò le mani sulle orecchie.
Jim allarmato fece in tempo a esplodere un colpo e lo sbuffo caldo del proiettile a salve investì la testa di Mike, mentre la granata a stordimento esplodeva con un fragore assordante e un lampo accecante illuminava l’aula. Subito dopo le finestre andarono in frantumi e la squadra fece irruzione nella stanza urlando. Jim, cieco e disorientato, tentò di sparare ancora, ma cadde crivellato da una raffica.

Dopo aver tastato il collo del ragazzo, il sergente disse: «Il locale è sicuro ora. È tutto finito».

Negli Stati Uniti ogni dieci secondi viene prodotta una pistola e ogni
cinque minuti qualcuno viene ferito o ucciso a colpi d’arma da fuoco.


F I N E

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