domenica 3 marzo 2013

L'ultima impronta

Giallo, 3920 caratteri, versione 1.0


L’ULTIMA IMPRONTA
di
Leonardo Boselli


Sherlock Holmes stava esaminando con attenzione il reperto con la sua lente d'ingrandimento quasi ignorando l'ometto che gli stava accanto.
Il professor Jeffrey Wilkes non aveva un aspetto appariscente. Di piccola statura, portava degli occhiali spessi e indossava un abito scuro piuttosto dimesso.
«Quando ha cominciato esattamente?», chiese il dottor Watson.
«Molti anni fa. Non ricordo», rispose con una vocetta stridula.
Watson lo incalzò con un tono disgustato: «E quante sono?»
Wilkes si tolse gli occhiali, scoprendo due piccoli occhi miopi, e annunciò solenne: «Trecentodue».
«Ma, se mi è lecito domandarlo», chiese ancora Watson, «perché ha cominciato?»
«Beh, ho sempre avuto una passione per i labirinti, gli arabeschi, le spirali e...».
«E quando ha scoperto che non ne esistono due uguali, le è sembrata una collezione unica al mondo, non è vero?», concluse Holmes.
Watson ignorò il commento e continuò: «Si rende conto che la sua collezione è piuttosto insolita?»
«Non posso negarlo».
Holmes ripose la falange dell'indice destro che aveva finito di esaminare e iniziò a osservarne un'altra nella teca. L'etichetta riportava un nome: Fryderyk Chopin. «Questa è mummificata perfettamente», constatò ammirato.
«Sì, è uno dei miei pezzi più pregiati, l'orgoglio della mia collezione», replicò l'ometto. «Lo prenda pure, ma lo tratti con attenzione».
«Ne stia certo», rispose Holmes piccato. Quindi strinse con delicatezza la falange tra le dita guantate e si mise a osservare interessato i dermatoglifi del polpastrello. Seguiva le creste e i solchi per trovare i punti caratteristici dell'epidermide. Era uno dei suoi talenti: avrebbe riconosciuto l'impronta di quel dito dopo anni, se avesse avuto modo di rivederla.
Watson, non nascondendo il ribrezzo, sbottò: «Ora che ci ha mostrato questa macabra esposizione, può spiegarci perché ha voluto un nostro consulto? Anche se lei ci è stato raccomandato dall'ispettore Lestrade, ciò non significa che può abusare del nostro tempo».
L'ometto si rimise gli occhiali e fissò Watson con sufficienza.
«Il motivo è proprio nelle mani di mister Holmes: il dito di Chopin. Mi è costato una fortuna e occorreva per completare la mia collezione di pianisti, ma ho sempre nutrito dei seri dubbi sulla sua autenticità. Sono certo che...»
«Di Chopin ho visto una maschera funebre», disse Holmes interrompendo Wilkes. «Dove eravamo Watson?»
«Eravamo a "La Cartuja de Valldemossa". C'era anche un pianoforte del compositore, mai più usato dopo la sua morte», rispose il dottore, ben sapendo che Holmes lo aveva messo alla prova.
«Esatto, Watson. Di Chopin, poi, esistono molti calchi delle mani. Non le sarà difficile fare un confronto», aggiunse rivolto all'ometto.
«L'ho già fatto», rispose Wilkes. «La forma è identica, ma il tarlo del dubbio continua a rodermi».
«È un peccato che un semplice controllo sperimentale non abbia dato esito e che debba sprecare le mie capacità», disse Holmes. «Lei conosce il mio metodo. Che ne pensa dottore?»
Quindi lanciò la falange a Watson che, schifato, la prese al volo, sotto gli occhi miopi e terrorizzati di Wilkes.
«Penso che una volta eliminato l'impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità», rispose parafrasando il suo amico.
«Cosa volete dire?», chiese preoccupato l'ometto.
Watson osservò la falange poi disse: «Vede, Chopin era convinto che la forza delle sue dita fosse distribuita in modo disuguale. Considerava l'indice il perno della mano e dovette sottoporsi a non pochi esercizi per dominare con la sua mano, relativamente piccola, quasi un terzo della tastiera. Chopin, come Schumann, da bambino ha fatto uso di apparecchi, che applicava durante il sonno, per migliorare l'apertura delle dita».
«E quindi?»
«Quindi nulla. Da questo dito non posso capire nulla».
«Errato, Watson», disse Holmes. «Questo dito è un falso. Se lei avesse rilevato le impronte sul pianoforte usato da Chopin a Valldemossa ora lo saprebbe».

F I N E

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