domenica 3 marzo 2013

Fegato alla veneziana

Gastrozen, 16688 caratteri, versione 1.0


FEGATO ALLA VENEZIANA
di
Leonardo Boselli


«Maestro, perché non ci racconta di come fu sconfitto da Jean Luc Van Damme?»
Quella domanda era stata formulata da una voce alle mie spalle. L'aveva posta una ragazza al primo anno d'apprendistato. All'udirla gli altri allievi ammutolirono e nella sala calò il silenzio.
Posai con delicatezza la mannaia che stavo impugnando. Mi voltai e fissai la giovane negli occhi. Il suo sguardo di sfida mi sorprese. L'avevo appena strapazzata per uno sbaglio che aveva commesso, ed ero stato duro, troppo forse, ma duro come lo ero sempre, con tutti.
Risposi: «Jean Luc Van Damme... sì, sono passati tanti anni, ma ricordo bene quel giorno. Persi, è vero, però non fui davvero sconfitto».
«In ogni caso non ce ne ha mai parlato. Lei evidenzia sempre i nostri errori. Dice che dobbiamo imparare da essi, anche da quelli degli altri, che è necessario studiarli per non ripeterli e per migliorarsi. Ci racconti ciò che ha sbagliato in quell'occasione, ci dica qual è stato il suo errore».
Il silenzio che aleggiava si fece di ghiaccio. Gli allievi si sarebbero scambiati occhiate di terrore se non fossero stati troppo spaventati per farlo: tenevano lo sguardo fisso a terra, e se avessero potuto, avrebbero scavato una buca per ficcarci dentro la testa. Avrebbero voluto essere ovunque, anche all'Inferno, tranne che in quella sala e in quel momento.
Mi pulii le mani insanguinate con lo straccio che portavo alla cintola, impugnai nuovamente la mannaia e mi avvicinai alla ragazza continuando a fissarla. Lei sostenne il mio sguardo finché non le fui a un passo. Non aveva alcun timore di me anche se io ero il maestro e lei l'allieva, non la spaventavano i miei decenni d'esperienza. Lessi nei suoi occhi che era lì per imparare e lo avrebbe fatto anche calpestando il mio orgoglio. D'altra parte aveva scelto il mio corso perché ero il migliore e non si era lasciata intimorire dal fatto che i migliori fossero uomini: anche se lei era una donna, sarebbe riuscita nel suo intento, o almeno ci avrebbe provato con tutte le sue forze.
Tutto questo le lessi negli occhi. Ma quando le fui di fronte abbassò lo sguardo. Dopotutto era soltanto un'allieva e, con quel gesto, sembrò riconoscerlo.
Spezzai la crosta del silenzio che riempiva la sala dicendo: «Lei, signorina, ha parlato di errore, ma dal punto di vista tecnico non lo fu».
A quell'accenno di disponibilità, gli allievi estrassero la testa dalle loro buche figurate e tirarono un sospiro di sollievo. Qualcuno, con entusiasmo, osò pure bisbigliare al vicino: «Adesso racconta».
Con pacatezza dissi: «Fate silenzio». Subito i presenti tacquero e tornarono a fissare il pavimento.
Posai la mannaia e presi un disossatore. Mi sembrava un attrezzo più consono alla situazione. Quindi girai intorno alla ragazza, ignorandola.
«Vedete, voi tutti siete qui per imparare. Avete dimostrato di voler eccellere proprio per aver scelto questa scuola. Non sareste venuti a Firenze da ogni parte d'Italia, o addirittura dall'estero», infatti notai tra gli allievi un giovane cinese, «se non foste stati spinti dalla volontà d'imparare. E per farlo vi siete iscritti alla scuola di cucina di Gabriele Vizzini, il più grande chef d'Europa e, di certo, uno dei migliori al mondo».
Avevo pronunciato quella frase come se stessi parlando di qualcun altro e non di me stesso. Non mi stavo vantando: tutti sapevano che era vero.
La ragazza che avevo strapazzato tentò di obbiettare: «Eppure...», ma lasciò la frase in sospeso, dopo aver posato lo sguardo sul disossatore con cui giocherellavo.
«Come dicevo, siete qui per imparare, e si apprende dagli errori. Ma giunti a livelli eccelsi, gli errori sono indistinguibili dai colpi di genio».
Quella frase suscitò un sommesso mormorio nell'uditorio.
Mi aggiustai il cappello da cuoco sulla testa e ripresi: «Avete mai osservato con attenzione un dipinto di Piero della Francesca? La prospettiva dell'architettura è perfetta, o meglio lo sembra. Appare in quel modo perché sono stati introdotti piccoli errori: se fosse stata davvero perfetta, gli occhi sarebbero stati ingannati mostrando deformazioni inesistenti. Allo stesso modo, avete mai notato le proporzioni dei templi greci? Le colonne si susseguono lungo allineamenti perfetti, ma non è davvero così: è stato inserito ad arte un errore, calcolato con estrema precisione, che suscita quel senso di bellezza che altrimenti sarebbe mancato».
Gli allievi più temerari cominciavano a sollevare lo sguardo da terra, poco persuasi da ciò che stavo dicendo.
«Ma», aggiunsi, «quegli errori non sono gli sbagli che commettete voi!»
Quindi passai, annusando e assaggiando, a una a una le pentole e le padelle sui fornelli lungo il banco da lavoro. Gli allievi, nelle loro livree bianche, sembravano sull'attenti nell'attesa di un'ispezione militare.
«Nel sugo c'è poco peperoncino... il brodo è salato... l'arrosto è crudo... la peperonata è insipida».
A ogni mia sentenza, l'allievo chiamato in causa si muniva di cucchiaio o forchetta, assaggiava a sua volta e sbiancava: perlopiù erano solo sfumature, ma rovinavano il delicato equilibrio d'aromi e sapori.
In fondo alla fila, mi fermai di fronte ai fornelli sui quali cucinava il giovane cinese e assaggiai il suo arrosto d'anatra in salsa tartara e curry.
«Qui c'è un pizzico di zucchero!»
L'allievo diede un'occhiata preoccupata al disossatore.
Continuai: «Quelli che ho elencato finora erano sbagli, ma questo si potrebbe quasi considerare un colpo di genio: è solo un pizzico, ma esalta l'aroma della salsa. Complimenti! Come ti chiami ragazzo?»
«Io essele Wang Dong», rispose.
«Bravo, continua così». Poi, rivolto agli altri, chiosai: «Mi stupisco che, tra tanti allievi, l'unico che riesca a interpretare al meglio la cucina italiana provenga dalla Cina».
A quel punto, la ragazza tornò alla carica e disse sarcastica: «Quindi lei ha perso per un colpo di genio?»
La fila di cuochi apprendisti ebbe un lieve sbandamento. Sembrava che si preparassero a schivare un disossatore che sarebbe stato presto lanciato attraverso la sala per colpire l'autrice d'una frase così irriverente. Ma io ignorai quelle parole e ripresi a raccontare.
«Quando incontrai Jean Luc Van Damme, ero sulla cresta dell'onda, al punto in cui basta un passo falso per precipitare ed essere travolti, ma dalla quale si può anche spiccare un piccolo salto per prendere il volo ed assurgere all'Olimpo degli chef. Avevo già aperto il mio terzo locale, quello in Trastevere, e cominciavo a consolidare la mia fama. Alcune comparsate in televisione avevano aiutato a farmi un nome e i libri che scrivevo avevano successo. Ricevevo molta posta dalle mie ammiratrici e non potevo proprio lamentarmi, ma la mia carriera era a una svolta e l'oblio poteva essere dietro l'angolo. Fu allora che decisi di partecipare al "Grande Chef", che veniva annunciato come il più importante reality culinario delle reti satellitari».
«Questo lo sappiamo tutti», mi incalzò la ragazza, «ero una bimba allora, però ricordo quella serie. È proprio grazie ad essa se mi sono appassionata alla gastronomia e ora sono qui a farmi insultare da lei».
«Bene», dissi con un certo fastidio, «allora ricorderà l'ultima puntata della prima stagione: la finale. Come disse Jean Luc, che era l'avversario più temibile, ci sarebbero state altre stagioni, ma noi saremmo sempre stati i concorrenti del primo "Grande Chef".
Vedete, c'era voluto tutto il mio impegno, anni di fatica, di duro lavoro, e sacrifici a non finire per conquistare la mia posizione, ma in quella trasmissione tutto stava per essere messo in discussione, la mia reputazione era legata a quell'ultima serata e a quell'ultimo piatto da preparare.
Ricordo quel giorno come fosse ora. In finale erano rimasti Gabriele Vizzini, il grande cuoco italiano emergente», dissi la frase come se non parlassi di me, «e Jean Luc Van Damme, un raffinato chef belga, esponente di spicco della nouvelle cuisine».
Mi fermai per rendere la presentazione dei contendenti più a effetto. Mentre tutti gli sguardi erano su di me, posai il disossatore sul piano di lavoro e impugnai una frusta, una di quelle per montare a neve la chiara d'uovo.
Quindi ripresi: «Anche i giurati erano d'eccezione, ma per la finale l'unico arbitro sarebbe stato Gordon Russell, uno chef britannico, proprietario d'una catena di ristoranti e, soprattutto, il principale protagonista di varie serie culinarie di successo, noto per il suo carattere scorbutico. Ci si sarebbe confrontati su un'unica ricetta, la stessa per entrambi».
«Gordon Russell me lo ricordo», disse la ragazza sorridendo. «Aveva un viso simpatico, forse perché le rughe sulla fronte e sul mento ricordavano quelle della mia nonna materna. Le sue sfuriate erano mitiche ed esilaranti».
«Proprio lui», confermai. «Non aveva rispetto per nessuno. Per lui insultarti era naturale come darti il buongiorno di prima mattina. Le sue arrabbiature potevano essere divertenti per il pubblico, ma per chi le subiva erano più dolorose d'una flagellazione sulla pubblica piazza... Ehi! Wang, spegni il fornello, o l'anatra finirà carbonizzata!»
Il cinese, che stava ascoltando a bocca aperta, si affrettò a chiudere il gas e il fuoco si estinse.
Sventato l'attentato contro l'incolumità dell'arrosto, ripresi: «Non esiste attività più violenta dello scontro tra due cuochi che vogliono primeggiare uno sull'altro. Era una lotta all'ultimo sangue, contro il tempo, per rispondere, ingrediente dopo ingrediente, alle mosse dell'avversario».
«Qual era il piatto?» chiese la ragazza.
«Venne estratto un "fegato alla veneziana"».
«Nulla di complicato, quindi».
Sospirai. «Niente di più sbagliato: sono proprio i piatti semplici quelli più difficili. Con essi si può misurare l'abilità di un cuoco. Tutti sono capaci di rendere speciali ricette complesse, basta scegliere ingredienti di prim'ordine, rispettare i tempi di cottura ed evitare gli errori più grossolani. Un piatto semplice, invece, può essere reso unico solo dall'abilità di chi lo prepara, dai colpi di genio che, stravolgendo la ricetta originale, rendono quella pietanza un'esperienza unica e indimenticabile per chi l'assaggia».
Mentre gli allievi riflettevano su quanto fosse complicato preparare un piatto semplice, passai accanto al cinese e gli chiesi a bruciapelo: «Wang, quali sono gli ingredienti del fegato alla veneziana?»
Dopo un istante di panico, con lo sguardo fisso nel vuoto, recitò a memoria: «Pel quattlo pelsone: 600 glammi di fegato di vitello, 600 glammi di cipolle bianche, 1 bicchiele di aceto bianco, 1 bicchiele di blodo, olio extlavelgine d’oliva, sale quanto basta e 50 glammi di bullo».
Ad ogni pronuncia della parola "glammi", le risatine degli altri allievi crescevano, per poi scoppiare in un boato fragoroso al "bullo". Li zittii prontamente con un cenno della frusta.
«Molto bene, Wang. E lei, signorina, cosa ci sa riferire sul fegato alla veneziana?»
«C'è poco da dire. Si tratta di un tipico piatto veneto, con proprietà nutritive. La ricetta classica associa il fegato di vitello, alimento dietetico, con le cipolle, un ingrediente immancabile. Qual è stato quindi il suo errore? Oh, mi scusi, maestro...», si corresse sorridendo, «qual è stato il colpo di genio a cui deve la sconfitta?»
Incassai la facile ironia e ignorai la provocazione ancora una volta. Quella era un'occasione da non perdere: gli allievi avrebbero compreso che cosa davvero rende un piatto speciale, un'esperienza indimenticabile per chi lo gusta.
Iniziai a raccontare: «Il conduttore ci diede un limite di tempo e fece partire il cronometro. Io e Jean Luc avevamo a disposizione una cucina completa e ogni tipo d'ingrediente era pronto nella dispensa. In tutta fretta cominciai a preparare le cipolle: le lavai e le tagliai a fettine. Presi poi una padella antiaderente e misi a scaldare il burro con un po' d'olio, quindi versai le cipolle, che avevo ben scolate, dopodiché aggiunsi il bicchiere d'aceto bianco e un pizzico di sale. Mescolai bene, versai anche il bicchiere di brodo e coprii la padella con un coperchio lasciando cuocere le cipolle a fuoco lento. Dovevo stare attento a non farle friggere, perché devono rimanere morbide. Restava mezz'ora di tempo ed era giunto il turno del fegato. Lo presi e lo tagliai in cubetti di circa tre centimetri.
Di tanto in tanto, mentre la trasmissione continuava tra i commenti della giuria e l'esibizione canora di qualche ospite, lanciavo rapide occhiate a Jean Luc: era al mio stesso punto. Procedevamo di pari passo, sembrava quasi di vedersi allo specchio.
Quando le cipolle furono cotte, versai il fegato nella padella, mescolai e coprii. Attesi una decina di minuti girando di tanto in tanto. Quasi allo scadere del tempo, versai il fegato in un piatto, guarnii con cipolle e servii la portata ben calda di fronte a Gordon Russell».
Presi fiato. Gli allievi pendevano dalle mie labbra. Si stavano chiedendo che cosa avessi sbagliato. Tutto era stato eseguito a regola d'arte, come insegnano i manuali di cucina.
Continuai: «Dopo aver servito la portata, con la coda dell'occhio, feci in tempo a vedere Jean Luc che, nei pochi secondi che rimanevano, versava un'ultima goccia d'aceto sul fegato.
Il giudice assaggiò con scrupolo entrambi i piatti. Li assaporò con calma, ma sembrava indeciso. Il pubblico in sala era in attesa del responso, pregustando gli insulti che ci sarebbero stati riservati.
Alla fine fui chiamato e, con un forte accento inglese, Gordon disse: "Gabriele, il tuo fegato alla veneziana è perfetto. Lo hai cotto al punto giusto, senza rischiare che potesse diventare duro e amaro. Well done! Anche le cipolle sono delicatissime. Hai seguito la ricetta alla perfezione".
Poi si rivolse al mio avversario: "Jean Luc, tu non sei stato fedele alla ricetta quanto Gabriele. Hai usato dell'aceto balsamico?"
Il belga, con la voce resa tremante dall'emozione e dalle erre alla francese, ammise: "Oltre al bicchiere d'aceto bianco ho aggiunto due cucchiai d'aceto balsamico durante la cottura, con un'ultima goccia prima di servire".
Gordon concluse: "La tua variante mi ha emozionato. Quei due cucchiai hanno reso il tuo piatto meno perfetto, ma più coinvolgente, e l'ultima goccia non ha fatto traboccare il vaso. Il vincitore sei tu".
Quella proclamazione fece esplodere il pubblico che assisteva in studio in un boato d'acclamazione. La regia fece suonare le trombe e, nel tripudio generale, furono sparati coriandoli e stelle filanti. Il "Grande Chef" aveva il suo vincitore, ma non riuscivo a capacitarmi: non ero io.
Mi feci largo tra la folla degli ospiti festanti e, mentre Jean Luc lanciava in alto il suo cappello da chef, m'avvicinai a Gordon. Era l'unico che ancora mi prestasse attenzione. Fissò su di me il suo sguardo incorniciato da rughe: aveva l'aspetto d'un vecchio sapiente che teneva ancora in serbo una preziosa perla di saggezza.
Nella confusione generale gli chiesi spiegazioni, pronto a controbattere alle sue critiche, e dissi: "Ma il mio fegato non era perfetto?"
Lo sguardo di Gordon s'illuminò e con le sue parole mi mostrò un nuovo mondo, un intero universo di possibilità, che fino ad allora avevo ignorato. Si accostò con le labbra al mio orecchio per farsi udire nella confusione e disse: "Dici bene. La tua debolezza non è nella tecnica. Ma pensi che siano solo aromi di cucina quelli che respiri ora? No, non solo. Sono fasci di sensazioni che s'intrecciano e si richiamano l'un l'altra. La vista, l'olfatto, il gusto congiurano insieme e ingannano il cervello per fargli credere che ciò che mangiamo non sia solo un informe impasto di molecole, ma sembri una sinfonia di sapori, profumi e colori.
Ogni piatto deve avere un'anima. Il tuo, per quanto perfetto, non ce l'ha. Il tuo fegato cammina, ma non possiede un'anima: è uno zombi"».
Interruppi la narrazione a quel punto, dopo aver sottolineato con il tono della voce la parola "zombi".
Quindi mi rivolsi alla ragazza: «Lei, signorina, mi ha chiesto quale fu il mio errore. Allora ero giovane. Già affermato, certo, ma non ancora il migliore. Quella sera, di fronte al fegato morto-vivente, mi crollò il mondo addosso. Ci volle del tempo per riprendermi, ma alla fine capii che dovevo imparare ancora molto, come voi. Il mio errore fu quello d'aver cucinato un perfetto fegato alla veneziana, ma ciò che rende un piatto sublime è quel colpo di genio che lo rende imperfetto e sorprendente».
Gli allievi, che avevano ascoltato a bocca aperta il mio racconto, erano rimasti inebetiti. Posai la frusta e ripresi la mannaia, quindi gridai: «E ora, pessime controfigure d'un lavapiatti, gettate nella pattumiera quello zombi volatile che avete cucinato e ricominciate. Uscirete da qui solo quando la vostra anatra in salsa tartara e curry volerà!»

F I N E

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