domenica 3 marzo 2013

Ritratto di famiglia

Thriller, 39000 caratteri, versione 1.5


RITRATTO DI FAMIGLIA
di
Leonardo Boselli


Il quartier generale della Gestapo a Parigi occupava un edificio in rue de Saussure. Una stanza per gli interrogatori si trovava al primo piano.
Era pieno giorno, ma le finestre oscurate lasciavano filtrare all’interno solo pochi fasci di luce che disegnavano caroselli di polvere nell’aria. Una lampada appesa al soffitto e protetta da una gabbia metallica illuminava dall’alto una sedia inchiodata al pavimento, mentre lasciava il resto della stanza al buio.
Su quella sedia era legato un uomo completamente nudo. Per quanto fosse robusto, un vero colosso, le cinghie di cuoio attorno agli avambracci, alle gambe e alla testa, gli impedivano qualsiasi movimento; poteva solo fissare con odio l’aguzzino che lo tormentava da ore.
Nella stanza c’era anche un’altra persona oltre al torturatore, un uomo che si teneva alle sue spalle nell’oscurità: ne udiva solo le domande assillanti.
«Perché vuoi soffrire ancora, Gerard?» disse la voce nell’ombra.
Parlava in francese con un forte accento tedesco e lo aveva chiamato per nome sin dall’inizio, ostentando una confidenza fuori luogo.
L’uomo continuò: «Tu sai perché ti tormento. Dimmi chi è veramente monsieur Schumann e tutto sarà finito».
Il prigioniero non rispose, allora la voce abbandonò quel tono dall’apparenza gentile e, rivolta all’aguzzino, abbaiò un ordine in tedesco: «Continua, Günther!»
Risuonarono alcuni passi e una pesante porta metallica si richiuse con violenza, poi nella stanza calò il silenzio.
Il torturatore, un energumeno che indossava pantaloni e stivali d’ordinanza, ma non la giacca della divisa, si rimboccò le maniche della camicia schizzata di sangue e strinse saldamente nella mano destra un tirapugni di ferro. Quindi si mise lentamente a girare intorno alla sedia. Il prigioniero continuava a fissarlo con uno sguardo di sfida.

* * *
Il kriminalinspektor della Gestapo Felix von Kleist entrò nel suo ufficio, si tolse la giacca, si sbottonò il colletto e i polsini della camicia, poi prese una brocca e versò dell’acqua in una bacinella sostenuta da un treppiede. Quel giorno non faceva caldo, ma l’ispettore soffriva di sbalzi di pressione, uno dei tanti acciacchi dell’età, e cercò di rinfrescarsi bagnandosi il collo e i polsi. Infine si passò la mano bagnata sulla testa completamente rasata, come se volesse pettinare all’indietro i capelli che non aveva.
“Quel francese è un osso duro”, pensò mentre prendeva l’asciugamano, “ma Günther riuscirà a piegarlo, prima o poi”.
In quel momento qualcuno bussò alla porta dell’ufficio. Dopo qualche istante entrò l’attendente.
«Herr inspektor, il commissario Vogel è arrivato. Lo accompagna il tenente Jäger».
Von Kleist finì di asciugarsi le mani e rispose: «Molto bene, li faccia entrare».
L’attendente si fece da parte e lasciò passare due uomini.
Il primo era un tenente delle SS, l’obersturmführer Heinrich Jäger. Indossava la divisa d’ordinanza, su cui spiccavano mostrine scintillanti e la fascia rossa con la svastica nera in campo bianco sul braccio sinistro. Era un giovane piuttosto piacente. I corti capelli biondi erano quasi del tutto nascosti dal berretto, mentre una cicatrice gli attraversava la guancia proprio sotto l’occhio destro e rendeva ancor più evidente uno sguardo fiero e sicuro di sé. Fece due passi avanti e salutò l’ispettore battendo i tacchi: «Heil Hitler!»
L’altro invece era in borghese, ma dal suo abbigliamento era evidente che fosse in forza alla Gestapo, la polizia segreta del Reich. Infatti indossava un elegante impermeabile di pelle nera a doppio petto, un borsalino e una cravatta blu su cui spiccava la spilla del partito nazista. Il suo aspetto era tutt’altro che rassicurante, nonostante portasse baffi sottili ben curati e un paio d’occhiali di tartaruga, che gli contornavano uno sguardo mite.
«Ispettore, le presento il kriminalcommisar Vogel» disse il tenente dopo aver abbassato il braccio teso nel saluto.
Von Kleist indossò la giacca e si avvicinò agli ospiti.
«E così finalmente ho il piacere di fare la sua conoscenza», esordì rivolto al commissario. «Ho sentito molto parlare di lei». Poi ne osservò l’abbigliamento ricercato e chiese: «Perché non è in divisa?»
Vogel fissò l’ispettore attraverso gli occhiali di tartaruga, e il suo sguardo mite s’illuminò d’una luce inquietante, quindi rispose: «Quando sono partito ero in borghese e sono sceso da poco dall’aereo. Il tenente mi ha subito condotto qui e non ho avuto il tempo di cambiarmi, herr inspektor».
Von Kleist distolse lo sguardo e disse: «Molto bene. Spero che il volo sia stato confortevole», poi finì di abbottonarsi la giacca, si agganciò la cintura attorno alla vita, e continuò: «Non so perché a Berlino abbiano ritenuto opportuno mandarla qui. Ho letto il suo fascicolo e mi ha sorpreso: lei ha poca anzianità di servizio per essere già commissario; deve esserne orgoglioso».
«Ne sono lusingato, ma ho avuto solo fortuna».
«Lei si schernisce». Quindi aggiunse con un tono di sufficienza: «Mi risulta che lei abbia una specializzazione in psichiatria. Anni fa ho letto “L’interpretazione dei sogni” di Freud: una lettura divertente, ma alquanto fantasiosa e decadente. Anche lei crede che la vita delle persone sia influenzata solo dal sesso?»
Vogel rifletté per un istante, poi rispose: «Prima che scoppiasse la guerra, ho praticato per qualche anno e ho seguito molti pazienti. Posso affermare che alcuni di loro erano davvero ossessionati dal sesso in modo patologico, soprattutto quelli che negavano l’importanza della sessualità nella loro vita. Ricordo il caso di un avvocato di Düsseldorf...».
Il tenente Jäger, preoccupato per la piega che stava prendendo la conversazione, intervenne: «Scusate se vi interrompo. Mi è stato ordinato di accompagnare qui il commissario perché si presentasse, ma ora devo condurlo con urgenza...»
Von Kleist ignorò il tenente e, stuzzicato dal commento di Vogel, proseguì con le domande: «Continui pure commissario, è un argomento che m’interessa. Tra le altre cose, ho saputo che lei adotta una tecnica d’interrogatorio innovativa e poco ortodossa: l’ipnosi! Crede veramente nella sua efficacia? Io penso che sia roba da ciarlatani, da illusionisti di provincia».
«Io invece ritengo che sia un utile strumento d’indagine. La mente umana è complessa: occorre trovare con pazienza la chiave che ne dischiude i segreti. La conduzione d’un interrogatorio è un’arte. Di solito ci si affida alla tortura, ma sono convinto che chi usi la violenza come unica risorsa non sia altro che un macellaio».
«Siete molto diretto, commissario», replicò l’ispettore inacidito. «Voglio mostrarle una cosa. Seguitemi entrambi».

* * *
La stanza degli interrogatori era ancora avvolta nell’oscurità, tranne per quella fastidiosa luce centrale: illuminava l’uomo nudo legato alla sedia. Il suo volto presentava numerose tumefazioni.
«Salve, Gerard. Hai visite. Sono venuti fin da Berlino per conoscerti» disse l’ispettore in francese. Il prigioniero rimase immobile, come se non avesse sentito; un occhio era chiuso per i pugni ricevuti, mentre l’altro fissava il vuoto. Lo sguardo di sfida era stato cancellato a furia di colpi.
Von Kleist continuò sottovoce in tedesco rivolto a Jäger e Vogel: «Sono tre giorni che lo interroghiamo. Fa parte della Résistance e riteniamo che sia a conoscenza di importanti informazioni su monsieur Schumann, il capo di una maquis nella Lozère. Quest’uomo è un osso duro, ma lo piegheremo».
Nella stanza c’era anche un militare con la camicia e le mani insanguinate. Dai gradi cuciti sulla giacca della divisa, che era appoggiata alla spalliera di una sedia, Vogel dedusse che fosse un unterscharführer, un sergente delle SS.
L’ispettore fece cenno all’aguzzino di procedere e disse in francese al prigioniero: «Gerard, tu sai come far cessare tutto questo: basta un nome».
Mentre Jäger e Vogel osservavano in disparte la scena, il sergente Günther si spostò nella stanza d’interrogatorio attigua. Tornò poco dopo trascinando un braciere acceso che conteneva dei ferri arroventati.
Cominciò a fare caldo e Vogel si tolse cappello e impermeabile. Sotto indossava un elegante completo scuro, interrotto solo dall’angolo bianco d’un fazzoletto che sporgeva dal taschino.
L’uomo legato alla sedia sembrava provato, ma non intimorito; dalla sua bocca non era ancora uscito un lamento.
Von Kleist chiese: «Gerard, sai che mestiere faceva Günther prima della guerra?»
Aspettò una risposta, anche se sapeva che non sarebbe mai arrivata. Dopo una pausa prolungata, rivelò: «Faceva il macellaio!», e scoppiò in una risata che rimbombò nella stanza.
Nel frattempo Günther aveva afferrato la mano destra del prigioniero, il quale tentò di resistere. La reazione fu inutile, perché le forze ormai lo stavano abbandonando. Allora l’aguzzino strinse il pugno di Gerard e ne distese l’indice con energia, tanto da slogarlo e da provocare un grido di dolore. Quell’indice portava i segni di precedenti torture, infatti era privo dell’unghia. Poi Günther, mentre teneva ben ferma la mano sul bracciolo con la sinistra, impugnò una pesante mannaia, uno dei ferri del suo mestiere d’un tempo, e la sollevò sopra la testa, pronto a colpire. La lama affilata brillò alla luce della lampada.
«Allora, non ne hai abbastanza? Vuoi provare ancora dolore?» chiese Von Kleist. «Una parola e sarà tutto finito».
Gerard alzò lo sguardo e, col poco fiato che gli rimaneva, gridò: «Merde!»
Vogel sorrise, mentre i volti di tutti gli altri si fecero seri.
«Una scelta lessicale sbagliata, monsieur Gerard» disse acido Von Kleist.
Con un cenno diede il via libera a Günther, il quale calò con violenza la mannaia che si conficcò nel bracciolo della sedia. L’indice si staccò di netto e schizzò sul pavimento, quindi cominciò a sgorgare copioso il sangue, mentre Gerard urlava per il dolore. Allora Günther, dopo aver sconficcato la mannaia, prese uno dei ferri arroventati dal braciere e lo appoggiò con precisione chirurgica sul moncherino. Dalla ferita cauterizzata si alzò una fumata, l’emorragia s’arrestò e Gerard, lanciato un ultimo grido, svenne.
Mentre l’odore di carne bruciata si diffondeva nella stanza, Von Kleist disse: «Per ora può bastare. Quando si sarà ripreso, lo lasceremo riflettere sulle dita che gli restano. Fallo portare via».
Günther chiamò un soldato e si fece aiutare. Il prigioniero, privo di sensi, venne slegato e trascinato fuori dalla stanza con fatica, perché era corpulento.
L’ispettore sembrava soddisfatto dall’esito dell’interrogatorio e si rivolse al commissario, come se cercasse una conferma: «Lo abbiamo quasi piegato, non è d’accordo?»
Il tenente Jäger, che se avesse potuto avrebbe consigliato a Vogel di usare prudenza nei confronti del suo superiore, pensava che il commissario intuisse la precarietà della sua posizione, e perciò rimase raggelato quando udì la risposta: «Più che piegato, direi che l’avete spezzato. Sì, all’altezza della terza falange dell’indice destro, per la precisione».
Von Kleist rimase senza parole, e Vogel argomentò: «Quell’uomo ci odia più di quanto non ami la sua vita. Sa che comunque non uscirà da qui sulle sue gambe. Ogni insulto, ogni colpo, ogni amputazione non farà che accrescere la sua determinazione. Sopravvive solo perché è alimentato dal disprezzo. Dovete trovare un altro modo per piegarlo».
«E così pensa sul serio d’essere più bravo». Il tono di sfida dell’ispettore s’era fatto evidente. «Crede davvero che dei trucchi da illusionista funzionino veramente, o che possano servire in questo caso?»
Karl Vogel si tolse gli occhiali, prese il fazzoletto che sporgeva dal taschino della giacca e si mise a pulire le lenti appannate, quindi rispose: «Per ottenere delle risposte bisogna conoscere il soggetto. Saggiarne la resistenza è importante, certo; ma la tortura, come le dicevo, è un’arte che l’uomo sta perfezionando sin da quando è scoccata la prima scintilla d’intelligenza. Ha una tradizione di millenni: non ci si improvvisa. La minaccia di sofferenze inimmaginabili — e, badate bene, ho detto minaccia — ha presa solo sulle menti deboli. Quell’uomo non è un debole».
«Quindi lei si ritiene un maestro e mi considera un dilettante?» chiese Von Kleist con tono minaccioso, seccato dalla franchezza del sottoposto.
Vogel non rispose direttamente, ma disse: «Ogni uomo ha un punto debole. Giocata la carta della violenza, ci sono altre possibilità. Rimane sempre il ricatto, per esempio; anzi, spesso è la prima risorsa».
L’ispettore replicò scettico: «Ieri abbiamo torturato e ucciso di fronte a lui il compagno col quale era stato catturato. Non ha fatto una piega».
«È normale. Sono soldati di un esercito irregolare. Hanno messo in conto la morte. Per il loro ideale di libertà uccidono e si lasciano uccidere. Sarebbe stato molto diverso se aveste torturato un familiare».
Von Kleist raccolse un fascicolo da un tavolo e ne estrasse una foto di Gerard con una donna, una ragazza e un giovane in divisa.
«Questa è la sua famiglia. I genitori sono morti, mentre la moglie e la figlia sono fuggite e si nascondono, forse in Spagna. Il figlio invece è caduto in combattimento pochi mesi fa. Quell’uomo ha terra bruciata attorno a sé. Possiamo colpire solo lui».
Vogel inforcò gli occhiali, rimise il fazzoletto piegato nel taschino, prese la foto e, con un inatteso velo di tristezza, disse: «Non mi stupisco che ci odi così tanto. Nessuno dovrebbe sopravvivere ai propri figli».
Poi osservò le donne che vi erano raffigurate. Si somigliavano molto. La moglie, minuta, cingeva il marito alla vita, quasi fosse aggrappata al colosso che la sovrastava. Aveva lunghi capelli biondi e occhi chiari, o almeno così apparivano in quell’immagine in bianco e nero. Nella figlia sembrava di rivedere la madre da ragazza; era l’immagine dell’innocenza con quel vestito candido e i capelli legati in una treccia che le scendeva su una spalla; stringeva il braccio del padre, come se si sostenesse a lui. Il figlio indossava una divisa. Aveva uno sguardo fiero: somigliava alla madre, ma dimostrava di possedere anche il carattere forte del padre.
Vogel voltò l’immagine e lesse una riga, chiaramente vergata da una donna, che a nome della moglie e dei due fratelli dedicava la fotografia alla loro roccia, “Pour notre rocher” diceva. Il commissario immaginò che quel nomignolo fosse stato attribuito al padre a causa della sua stazza.
Era un ritratto di famiglia molto naturale, un’istantanea di quell’esistenza serena che la guerra aveva spazzato via. Traspariva l’amore che li univa e l’orgoglio di tutti loro per il figlio militare.
Felix Von Kleist interruppe le riflessioni di Karl Vogel e disse: «Tenga il fascicolo, se crede davvero di poter fare meglio. Lo studi. È il suo primo incarico e ha tempo fino a domani per venirne a capo. Mi stupisca».
Il guanto di sfida era gettato: l’ispettore voleva vendicarsi dell’impudenza di quel suo sottoposto così sicuro di sé. Con un fallimento del commissario, avrebbe avuto la soddisfazione di spezzare una brillante carriera cresciuta all’ombra della guerra, senza che fosse stato necessario salire la china della scala gerarchica gradino per gradino, come invece aveva dovuto fare lui.
Uscendo dalla sede della Gestapo, Jäger appariva piuttosto preoccupato. Disse a Vogel: «È arrivato a Parigi da poche ore e già si è fatto un nemico potente».
«Faccio mia una massima che ho letto in Italia, scritta su un muro: “Molti nemici, molto onore!”».
Il tenente cercò di stemperare la tensione e cambiò discorso: «Ora non ci pensi. Questa sera le farò conoscere i piaceri segreti di Parigi. La passo a prendere alle otto. Una cena in uno dei migliori ristoranti della città farà svanire l’amarezza di questo spiacevole incontro. Poi la porterò da Madame de Pompadour». Sorridendo dello sguardo interrogativo del commissario, Jäger continuò: «Non si preoccupi, non si tratta dell’originale. È la tenutaria del ‘Paradis an Terre’. Vedrà che si divertirà».
«La serata sembra promettere bene», commentò Vogel con un tono che non dimostrava molto entusiasmo.
Lesse l’ora sull’elegante cronografo Hanhart che portava al polso: gli restavano solo un paio d’ore per studiare il fascicolo di Gerard.
* * *
La mercedes-benz viaggiava a velocità moderata lungo i viali di Parigi. Era ormai sera inoltrata; i fari squarciavano l’oscurità illuminando a tratti altre vetture e gli alberi lungo il ciglio della strada.
Sul sedile posteriore erano seduti il commissario Vogel e lo sturmbannführer Martin Kessler, un maggiore delle SS.
«Come ben saprete, l’annata migliore dello Château Haut-Brion è quella del 1935», disse Kessler. Aveva parlato per tutto il viaggio di quale vino si sarebbe accompagnato meglio a ciascuna pietanza. Sosteneva che il sommelier del ristorante non ne capisse nulla in materia e non aveva perso occasione per rinfacciarlo al maître durante la cena.
Vogel non aveva mai ribattuto alle tesi del maggiore, aveva altro per la testa, ma quell’ultima affermazione lo fece trasalire: «Non sono d’accordo. I vini di Bordeaux hanno un vitigno resistente, tuttavia è sensibile ai colpi di calore e l’estate torrida del ‘35 ne ha indebolito l’aroma. Forse lei si riferiva allo Château Cantemerle del ‘33, che anch’io prediligo, ma non sarebbe stato comunque adatto alla cena di stasera: è un vino che esalta il gusto della carne d’anatra e di manzo».
«Beh... forse ha ragione lei... devo aver confuso i nomi», farfugliò il maggiore. Si rese conto d’aver parlato a ruota libera, senza immaginare che il suo interlocutore fosse un vero intenditore e che ne sapesse più di lui. Sospettò anche che lo stesse prendendo in giro approfittandosi delle sue nozioni dilettantesche, ma non aveva modo di appurarlo.
Il tenente Jäger, seduto accanto al conducente, si voltò verso i compagni di viaggio e disse a Vogel: «Siamo quasi arrivati».
La mercedes svoltò in una via secondaria ed entrò in un cortile attraverso un’ampia cancellata. Al termine del vialetto d’ingresso, i fari dell’automobile illuminarono la facciata di una palazzina liberty disposta su due piani.
L’autista arrestò la vettura e scese per aprire la porta al maggiore Kessler, mentre Jäger e Vogel uscivano dall’altro lato. Infine i tre ufficiali entrarono nell’edificio.
Un'ampia sala elegante e ben illuminata li accolse subito dopo l'ingresso. Da una parte, una scalinata finemente decorata conduceva al piano superiore, mentre attorno alle pareti erano collocati bassi tavolini e comode poltrone dov’erano seduti alcuni ufficiali tedeschi in compagnia di belle ragazze. C’erano anche un paio di camerieri che servivano da bere e si spostavano con i loro vassoi da un lato all’altro.
I presenti osservarono per qualche istante i nuovi arrivati, ma ben presto tornarono a chiacchierare amabilmente tra loro.
Le ragazze erano abbigliate con vestiti che lasciavano molto poco all'immaginazione: ampie scollature e tessuti trasparenti rendevano sensuali e desiderabili i loro corpi, molto più che se fossero state completamente nude.
Solo una donna faceva eccezione. Era una signora distinta e ben vestita che andò incontro ai tre ufficiali e li accolse con calore. Aveva già una certa età, ma possedeva ancora un discreto fascino, e tra le rughe inclementi si poteva intuire la bellezza d’un tempo.
La donna sorrideva, eppure nei suoi occhi, nascosto dietro quell’aspetto fascinoso e ben curato, Vogel poteva scorgere un velo di tristezza.
«Non ci viene a trovare da molto tempo, maggiore», disse la donna con tono affabile rivolta a Kessler. «Ci è mancata la sua compagnia».
«Sono stato fuori Parigi per servizio, madame. Ma ora voglio rifarmi del tempo perduto».
«Nicole è la sua preferita, se ben ricordo, vero maggiore?»
Kessler annuì mentre osservava la sala alla ricerca della ragazza.
«Ora gliela faccio chiamare. Si accomodi pure. Nel frattempo gradisce una coppa di champagne?»
«Sì, grazie».
Mentre il maggiore si allontanava dopo essersi congedato, il tenente Jäger si fece avanti. Esibì un sicuro baciamano e presentò il commissario: «Gentile madame, permetta che le presenti il kriminalkommisar Karl Vogel. È arrivato oggi da Berlino e ho pensato di fargli conoscere subito i luoghi più interessanti di Parigi».
«Caro tenente, lei è un ospite perfetto».
La donna, con un cenno, chiamò una servitore che prese l'impermeabile e il cappello di Vogel, oltre al soprabito di Jäger. Poi, rivolta al commissario, disse: «Sarà stanco dopo il lungo viaggio. Qui troverà sicuramente l'opportunità per rilassarsi».
Dopo aver indicato un angolo tranquillo della sala, li invitò ad accomodarsi.
«Le faccio portare il solito cognac, tenente?»
«Sì, la prego».
«E lei, commissario, cosa preferisce?»
«Vodka con ghiaccio, grazie».
I due ufficiali si sistemarono in un salottino. Una ragazza si staccò da un gruppetto in fondo alla sala e si sedette accanto al tenente, accostandosi a lui con estrema confidenza.
Jäger chiese senza convenevoli: «Ha delle preferenze, commissario, o posso consigliarla?»
Vogel capì che il tenente si stava riferendo alla compagnia femminile. Aveva dato solo un'occhiata distratta alle ragazze e quella domanda lo costrinse a prestare più interesse.
Ce n’erano due sedute a poca distanza. Avevano i capelli bruni. Una di esse era prosperosa e, mentre parlava alla compagna, sembrava non potesse fare a meno di toccarsi i seni pesanti, quasi le dessero noia. Più lontano c'erano altre due ragazze, un’asiatica, probabilmente indocinese, e un'algerina, a giudicare dall'aspetto; ma erano già in intima conversazione con due ufficiali della Wehrmacht.
Quindi si voltò e, guardando dall'altro lato, notò subito una ragazza bionda, molto giovane e carina, dall'aspetto innocente. Stava conversando con altre ragazze e rideva spensierata.
«Sono tutte molto belle», constatò Vogel, mentre cercava di capire perché la ragazza bionda lo attraesse così tanto. «C'è solo l'imbarazzo della scelta».
Jäger sorrise. Aveva intuito la preferenza del commissario e disse alla sua accompagnatrice: «Va', chiama Michelle».
Dopo un quarto d'ora, Vogel si trovò in una camera da letto con una ragazza bionda e molto carina, dai lineamenti delicati e il corpo flessuoso, che indossava una corta vestaglia trasparente.
Lei si era seduta allo specchio e il commissario ne approfittò per osservarla con attenzione. La stanza non era grande, tuttavia le piccole luci sopra la specchiera la illuminavano male. Anche in quelle condizioni, Vogel era abbagliato dalla bellezza della giovane. I lunghi capelli le scendevano sulle spalle luminosi come seta, i suoi occhi azzurri brillavano al chiarore delle fioche lampadine e due piccoli seni spiccavano sotto il velo che le copriva le spalle.
Michelle si stava pettinando i capelli. Quando si accorse di quello sguardo attento su di sé, posò la spazzola e si alzò dalla sedia.
«Così lei è un commissario?» chiese sorridendo. «Deve essere un lavoro difficile». Parlava con un tono pacato, dolce e rilassante.
«È un servizio come un altro», rispose con sufficienza. «Qualcuno lo deve fare».
Indossava ancora il completo scuro del pomeriggio e la ragazza chiese maliziosa: «Non ha caldo con tutti questi abiti addosso?»
Gli si avvicinò e fece per togliergli la giacca, ma Vogel la fermò. Se ne liberò da solo con cura e l'appese a un attaccapanni, dopo averne ben disteso le pieghe.
La ragazza tornò alla carica e posando le mani sul petto del commissario disse: «Che camicia elegante. È di pura seta, e anche la cravatta. Lei ha davvero gusto nel vestire».
«Non amo apparire sciatto. Ritengo che la cura del proprio aspetto sia una forma d’educazione verso gli altri».
Dopo aver detto ciò, prese le mani di Michelle e le scostò con delicatezza dal petto. Quella ragazza era così giovane! Avrebbe potuto essere sua figlia.
Lei non sembrò delusa dal gesto. Aveva conosciuto altri soggetti difficili. Stava studiando il commissario per trovare l'approccio più adatto, ma a un tratto avvertì con disagio che anche lui la stava esaminando.
«Preferisce che spenga?»
«No», rispose Vogel, «piuttosto il contrario».
Fece il giro del letto e accese la luce centrale. Il lampadario, composto da innumerevoli gocce di vetro, illuminò la piccola stanza, rendendone evidente l'eleganza. C'erano alcuni mobili d'epoca lungo le pareti, un armadio e un comò, e un letto a baldacchino d'ispirazione barocca.
Michelle, in piena luce, si sentì nuda e fece con le braccia un gesto involontario per coprirsi: era la prima volta che un uomo la osservava a quel modo, non come una bella donna da desiderare, ma come un insetto infilzato da studiare sotto una teca di vetro.
«Rilassati», disse il commissario, «voglio solo vedere bene i tuoi lineamenti».
La ragazza, dopo un primo momento d'imbarazzo per quella richiesta così inusuale, riprese il controllo della situazione e disse: «Le ricordo qualcuno, commissario? È per questo che mi ha scelto tra tutte le altre?»
Vogel le si avvicinò e le prese la testa tra le mani, con delicatezza. La guardò negli occhi azzurri, attraverso le lenti dei suoi occhiali di tartaruga. Poi, agendo con i pollici sugli zigomi, le fece ruotare più volte il capo leggermente a destra e a sinistra.
«Sì, le ricordo qualcuno», disse Michelle mentre le si illuminava lo sguardo e diventava più audace. «Una sorella, forse? Sua madre da giovane?»
Vogel si fermò. Stringeva ancora dolcemente la testa tra le mani, poi fece scorrere le dita fino ad accarezzarle il collo.
«Forse una figlia?»
Vogel staccò le mani dal collo, quindi disse brusco: «Michelle, accomodati davanti allo specchio».
La ragazza ubbidiente si sedette e vide l'immagine riflessa del commissario che si avvicinava alle sue spalle. Vogel le accarezzò i lunghi capelli e poi, con attenzione, cominciò a intrecciarli. Nonostante fosse un uomo, dimostrava una certa perizia nel farlo, ma dopo qualche tentativo, Michelle si mise ad aiutarlo e, sorridente, acconciò velocemente una treccia. Alzò quindi i suoi occhi chiari e fissò con malizia il commissario nello specchio, poi chiese: «Chi ti ricordo?»
Vogel rimase sconcertato. Gli aveva dato del 'tu' e quel tono li stava rendendo estremamente intimi, pur rimanendo a distanza senza toccarsi. Fu come se lei gli leggesse nel pensiero, anche se non poteva davvero immaginare cosa avesse in mente per lei.
«Una figlia?», insistette Michelle. «Dimmi, come vuoi che mi chiami?»
Vogel la fece alzare, accarezzò la treccia, le scostò la frangetta dalla fronte, le posò le mani sulle spalle ed esclamò: «Marie!», poi con un filo di voce le sussurrò: «Tu per me sarai Marie».
«Cosa vuoi che faccia per te?» chiese maliziosa.
Vogel si sedette sul letto e rifletté qualche istante, poi la fece accomodare accanto a sé e iniziò a spiegarle nel dettaglio, con precisione maniacale, cosa voleva da lei. Subito la ragazza rimase sconvolta dall’insolita richiesta, ma la promessa di un cospicuo pagamento extra fugò le perplessità residue: d’altra parte, nella sua breve vita, era stata costretta a fare di molto peggio.
* * *
Quel pomeriggio Von Kleist era allegro. Aveva scherzato con l’attendente ed era uscito dall’ufficio per recarsi nella stanza degli interrogatori. Gli era stato detto che Vogel era pronto e si poteva cominciare. Non vedeva l’ora di poter assistere al fallimento del commissario e svergognare un sottoposto che faceva uso di tecniche da ciarlatano.
L’ispettore entrò nella stanza e trovò il solito ambiente cupo in cui da giorni Gerard era imprigionato durante i colloqui. Vide la luce protetta dalla grata, la sedia illuminata e il prigioniero denudato e legato, immobilizzato a tal punto che non poteva muovere neppure la testa.
Karl Vogel era già nella stanza. Non aveva atteso l’ispettore per iniziare e aveva dialogato con Gerard, o meglio aveva parlato a lungo, mentre il prigioniero taceva.
I due ufficiali si salutarono e Von Kleist chiese: «Vedo che ha già iniziato, e noto che non è ancora in divisa».
Vogel indossava un abito scuro come il giorno prima, non lo stesso però.
«Mi scusi, ispettore. C’è stato un disguido con i bagagli. Mi hanno assicurato che le valige mi saranno recapitate oggi e non ho avuto il tempo di trovare una divisa su misura».
Von Kleist rimase perplesso, ma sorvolò sull’accaduto. «Non importa. Come procede?»
«Molto bene», disse Vogel. «Abbiamo fatto conoscenza».
Gerard fissava con odio il commissario. Era allo stremo delle forze, ma se dopo tanti giorni e indicibili torture era ancora vivo, nulla avrebbe potuto più piegarlo, nulla.
«Vedo», constatò sarcastico l’ispettore. «Ha bisogno di Günther? Lo faccio chiamare».
«Grazie, non ancora», rispose Vogel. Poi si avvicinò a Gerard e si mise a parlargli sottovoce all’orecchio in un buon francese: «Günther è un animale, io non sono come lui. Io disprezzo tutto quello che le sta accadendo. So che mi odia, ma volevo che sapesse che io sono diverso. Per lei non farà differenza, ma per me sì». Infine aggiunse: «Desidera qualcosa? Le posso far portare da bere, se vuole».
Per tutta risposta Gerard cercò di girare la testa immobilizzata quanto più poté e sputò un grosso grumo di saliva e catarro verso il commissario, senza però riuscire a colpirlo. Infatti Vogel era rimasto defilato. Si era accostato al prigioniero, ma era rimasto sulla difensiva. Era una delle regole che seguiva più spesso: “Non fare mai una domanda se non conosci in anticipo le possibili risposte”. Lo sputo era una di quelle.
«I metodi amichevoli non servono a nulla», sentenziò Von Kleist ridendo. «E quando la carota non attira più il mulo, ci vuole il bastone e deve anche essere grosso e pesante».
Vogel ignorò l’ispettore. Il fatto che cercasse di renderlo ridicolo, invece che essergli di svantaggio, poteva metterlo sotto una luce diversa agli occhi di Gerard.
Il commissario continuò a parlare, con un tono dolce e rassicurante, mentre sfiorava Gerard con le dita ed esercitava lievi pressioni sulla sua pelle nuda.
Il prigioniero all’inizio cercò di divincolarsi, chiese con forza che smettesse di toccarlo con quelle mani da finocchio nazista, ma dopo qualche minuto si arrese. Sembrò quasi che quelle pressioni, non dolorose e, in fondo, neppure ambigue, lo confortassero. Era il primo contatto umano che provava dopo giorni di torture.
«Gerard, ormai abbiamo capito che è inutile ricorrere alla violenza con lei. Ha deciso di sacrificarsi per la patria, ma soprattutto per i suoi cari».
Vogel prese la foto di famiglia che era nel fascicolo e gliela mostrò. «Sua moglie è molto bella».
Gerard guardò avidamente l’immagine. Da giorni tentava disperatamente di ricordare il volto dei propri familiari e non ci riusciva. I loro lineamenti erano persi nella nebbia della memoria, ma adesso li aveva di nuovo di fronte e riaffioravano in lui tutti i ricordi di quella vita felice, ormai travolta dalla guerra. Da quella foto stava assorbendo nuova energia per sopravvivere.
«Anche i suoi figli sono molto belli».
«I miei figli? Mio figlio è morto. L’avete ucciso, bastardi! Era...»
«L’ho saputo, Gerard, e mi dispiace. Io so cosa significa perdere un figlio».
Il prigioniero sollevò gli occhi e fissò Vogel. Per la prima volta, da giorni, guardava un uomo senza vedere un animale assetato di sangue, da odiare con tutto se stesso. Gli occhi del commissario, cerchiati dagli occhiali e così miti, sembravano possedere quel briciolo d’umanità che si spera sempre di trovare, anche nel più spietato dei criminali.
Vogel intuì ciò che passava per la mente di Gerard. Era giunto il momento di accompagnarlo in un altro passo avanti lungo quel cammino senza sbocchi.
«Ti propongo un patto», disse il commissario con sicurezza. Aveva cambiato tono, ed era passato al ‘tu’ per rafforzare quel rapporto di vicinanza che si stava creando tra loro. «So che ora mi comprendi e che, in un’altra situazione, se non fossimo da parti opposte della barricata, ti fideresti di me. Ma adesso non hai altra scelta: io sono la tua unica speranza».
Il prigioniero ascoltava con diffidenza. Non capiva di quale speranza stesse parlando, visto che l’unica che gli rimaneva era quella di morire al più presto. Restò in silenzio e attese che Vogel formulasse la sua proposta.
«Tu rispondi alla domanda che ti stanno chiedendo da giorni, e io...»
Fece una pausa che sembrò durare un’eternità. Gerard rimase appeso a quelle parole, a quelle labbra, a quello sguardo mite cerchiato dagli occhiali. Poi quegli occhi ebbero un guizzo, furono attraversati da un bagliore maligno.
«E io ti prometto... che non permetterò che succeda nulla a tua figlia».
Quella frase lo colse come un fulmine. Lo sguardo di Gerard tornò alla fotografia. Rivide sua figlia com’era un paio d’anni prima. Erano lontani da tanto tempo, troppo, però se la figurava ancora com’era in quell’immagine. Era terrorizzato dall’idea che potesse accaderle qualcosa, ma subito ebbe un attimo di lucidità e replicò: «Cosa può succederle? Non potete far nulla! Mia figlia è al sicuro, lontana da qui».
«Ne sei certo?», chiese il commissario. Fece un passo indietro e fu avvolto dall’oscurità della stanza, poi domandò ancora: «Da quanto tempo non hai notizie di tua moglie e tua figlia?»
Un tarlo iniziò a lavorare nella mente di Gerard. Vogel vedeva quegli occhi, prima incerti, poi agitati dal dubbio e cominciò a parlargli della famiglia, con tono fermo ma suadente. Ripeteva certe frasi più volte. Era come una goccia che cadeva e cadeva, colpiva sempre nello stesso punto, e scavava, scavava.
Poi mostrò ancora una volta la foto.
«Era davvero bello tuo figlio, somigliava alla madre. È morto per la patria, ha fatto il suo dovere, e tu vuoi vendicarlo. È giusto, ma i morti ormai sono sepolti e dobbiamo pensare ai vivi. Tua figlia è ancora bella, ed è viva».
Tacque per qualche secondo. Lasciò che i pensieri facessero il loro corso e minassero le certezze. Poi riprese: «È incredibile come le immagini delle persone più care svaniscano quando ci sono lontane, eppure sono i volti di coloro che amiamo».
Gerard fissò di nuovo con avidità la foto, come se volesse imprimerla a fuoco nella sua memoria, per rivederla nella sua mente per il poco tempo che gli restava.
«Tu però sei fortunato Gerard. Tra poco avrai una bella sorpresa. Non è stato facile. Avevi preso tutte le precauzioni, però avresti fatto meglio a non fidarti troppo delle persone, di chi si dichiara tuo amico, ma è disposto a tradire, per denaro o per altro non so: il tradimento, è triste constatarlo, è sempre possibile nelle vicende umane. Comunque tutto il male non viene per nuocere. Prima di morire potrai rivedere tua figlia per l’ultima volta, per un ultimo abbraccio...»
Mentre Vogel parlava, nella mente di Gerard turbinavano i dubbi più neri. Per scacciarli sbottò: «Non è vero! Non è possibile! Non potete averla trovata».
«Invece è vero e tra poco avrai la gioia di stringerla tra le tue braccia. Con tuo figlio non hai avuto questa fortuna».
Rimase in silenzio per un istante, mentre il prigioniero ancora negava, poi si avvicinò e gli disse sottovoce all’orecchio: «Prima però tua figlia deve incontrare un’altra persona, o meglio...», aggiunse con un velo di rassegnazione, «un animale». Quindi chiamò ad alta voce: «Günther!»
Gerard sentì una porta che si apriva alla sua destra, dove c’era un’altra stanza per gli interrogatori. Cercò di liberarsi per capire cosa stesse succedendo, ma aveva la testa immobilizzata.
Vogel ordinò: «Günther, porgi i tuoi omaggi alla nostra ospite».
Gerard strepitava e si dibatteva. Continuava a ripetere che non poteva essere vero, che era tutto un bluff.
«Lo sai, lo sto ordinando a malincuore. Ricorda: posso fermare quella bestia sanguinaria in qualsiasi momento, solo che tu lo voglia».
Il commissario allentò il laccio che immobilizzava la testa e Gerard si voltò verso la porta. Günther, col sorriso sulle labbra, si diresse verso una ragazza legata a una sedia nell’altra stanza e le sollevò il capo tirandola per la lunga treccia. Quindi cominciò a stracciarle il vestito, mentre lei gridava e cercava di liberarsi.
Il cuore di Gerard batteva all’impazzata. «Marie!» gridò, ma aggiunse: «Non è lei, non può essere lei! Fatemela vedere bene!»
«Tra poco te la lascerò salutare, prima però dobbiamo aspettare i porci comodi di Günther», spiegò algido il commissario.
Poi cambiò tono. «Io non sono un animale. Ciò che sta succedendo mi fa ribrezzo. Basta una parola e ti prometto che non le succederà nulla. La libererò e tutto questo sarà per lei solo un brutto ricordo».
Le carni candide della ragazza erano ormai allo scoperto, senza protezione, in balia di quel macellaio di Günther.
Gerard piangendo era sconvolto dalla scena e ripeteva: «Non è lei! Portatela qui perché la veda! Non è lei!»
A un tratto, la ragazza smise di strillare e gridò: «Papa, mon rocher...», ma non ebbe il tempo di aggiungere altro, perché si udì il rumore d’un sonoro ceffone sferrato da Günther.
Nella mente di Gerard rimbombarono due parole: “Mon rocher”, e crollò, urlando per la disperazione.
Vogel ordinò a Günther di fermarsi, poi si rivolse al prigioniero e disse: «È la tua ultima occasione. Ora o mai più!»
«Il nome è Otto Kühne, è lui monsieur Schumann», rispose Gerard tra i singhiozzi, e aggiunse: «Uno dei suoi nascondigli si trova in una locanda a Saint-Étienne-Vallée-Française. Non so altro. Ora mantieni ciò che hai promesso!»
«Ho dato la mia parola. Se ciò che hai rivelato sarà confermato, tua figlia non correrà più alcun pericolo. Fai conto che sia già lontana da qui, al sicuro, dove l’avevi nascosta».
Detto questo Vogel osservò Von Kleist. L’ispettore era rimasto per tutto il tempo nell’ombra e dopo i primi tentativi di irridere l’operato del commissario se n’era stato zitto. Ora aveva il nome che voleva, ma dentro di sé schiumava di rabbia.
I due ufficiali si spostarono senza parlarsi nella stanza attigua, dove li attendeva Günther, e richiusero la porta alle loro spalle.
Il sergente slegò la ragazza e l’aiutò con delicatezza a rivestirsi.
«Grazie, Michelle», disse Vogel. «Spero che il sergente non sia stato troppo violento».
La ragazza si sistemò una spallina del vestito, sorrise e fissò Günther con i suoi occhi azzurri. L’uomo si sentì subito a disagio.
«Non mi ha fatto male, ha saputo recitare. Sembra un duro, ma in fondo ha un cuore d’oro». Poi, rivolgendosi direttamente al sergente, concluse: «Vienimi a trovare qualche volta. Ti aspetto».
Sembrò incredibile, ma il macellaio arrossì. «Ce... certo, fraulien», rispose. Fece un goffo cenno di baciamano, ma subito desistette, e tornò imbarazzato nella stanza dov’era ancora legato Gerard: aveva un lavoro da portare a termine, un lavoro che sapeva fare bene.
F I N E

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