domenica 3 marzo 2013

La bolgia degli scrittori

La Bolgia degli Scrittori

di
Leonardo Boselli

L’Inferno è un pozzo immenso, oscuro, scavato nelle profondità della terra. È un luogo ricolmo di sofferenza e di noia, e allo stesso tempo vuoto d’amore e di fantasia. Le urla dei dannati lo riempiono in ogni sua parte: gridano la loro disperazione, la perdita di ogni speranza.
Malagianna, una delle scimmiette di mare cornuta addette alla "Bolgia degli Scrittori", col jet-pack sulle spalle a potenza massima, ammirava librata nell’aria cupa quello spettacolo terrificante ed, esaltata da quella visione, affondava compiaciuta il gancio da macellaio nell’anima sventurata che stava trascinando con sé sempre più in basso. Un sottile gemito usciva da quel dannato, un pessimo scrittore di romanzi fantasy: il tormento dell'uncino non era nulla rispetto all’angoscia d'aver sciupato la propria esistenza nell'ideare vicende immaginarie che raccontava per denaro ai creduloni. Malagianna poteva percepire tutte le sensazioni, i rimorsi, i rimpianti che lo attanagliavano: avrebbe avuto l’intera eternità per disperarsi inutilmente, un giorno dopo l’altro, per sempre.
La scimmietta cornuta sorvolò i primi cerchi dell’Inferno. Passò nel turbine dei lussuriosi accompagnandoli per un breve tratto nelle loro evoluzioni, poi giunse sulla città di Dite, e l’orda dei diavoli guardiani dalle mura infuocate la salutò cantando sguaiatamente una volgare canzonaccia. Poi osservò dall’alto la necropoli di tombe degli eretici, roventi come formaci; infine attraversò la pioggia di fuoco che flagella il deserto di sabbia dei bestemmiatori.
Malagianna, che aveva descritto nei minimi particolari quel terrificante paesaggio all’anima dannata che portava arpionata sulle spalle, già sentiva aria di casa. Ammirò ancora una volta l’ordine spietato che regnava negli enormi fossati del cerchio ottavo, attraversati a raggiera da lunghi ponti. In quell’ultimo tratto volò su un canale ricolmo di fetido sterco, poi planò sulle sponde della quinta Bolgia, nella cui pece bollivano senza pace i barattieri, e proseguì fino a giungere alla Bolgia degli Scrittori.
Alte sponde circondavano un fiume di carta in continua agitazione e tormentato da un forte vento. Si trattava di pagine di libri, di pergamene, di tomi voluminosi e di piccoli opuscoli. Ogni genere d'opera di narrativa fantastica costituiva il fluido che permeava i meandri di quel luogo disperato. Il puzzo degli inchiostri, la ruvidità della carta, i suoi bordi affilati, gli spigoli delle copertine e i dorsi rigidi dei volumi rendevano quel luogo aspro e inospitale, ma le orribili scimmiette cornute la consideravano dopo tanti secoli come la loro casa.
Malagianna conduceva quel suo ufficio a contatto con i dannati con solerzia e una compiaciuta abnegazione, tanto che era tenuta in considerazione tra le scimmiette come un capo, e quando si trovava a portata d'uncino di una di quelle anime sventurate, provava un malsano piacere a saggiarne la consistenza.
Giunta sul ponte che attraversava tutta la Bolgia degli Scrittori, Malagianna si posò leggera e trattenne davanti a sé il dannato, proprio di fronte al baratro. Nonostante fosse una esemplare piuttosto minuto, come tutte le scimmiette di mare cornute, possedeva una notevole forza e riusciva a gestire, grazie agli strumenti di tortura di cui era dotata, anche i dannati più corpulenti, e poi le anime di per sé non sono pesanti.
Gli spiegò compiaciuta: «Osserva il tuo nuovo mondo. Abiterai qui per sempre. Questo fiume di carta maleodorante ti inghiottirà per l’eternità. Solo una cosa cambierà un giorno: alla fine dei tempi il tuo corpo, ora disfatto, risorgerà e tu soffrirai ancora di più. Guarda tutto con attenzione, perché tra poco non vedrai che pagine e pagine di storie senza senso».
Il dannato, di fronte a quella visione, si rivolse alla scimmietta piagnucolando e dibattendosi: «Abbi pietà, ti prego! Non merito tutto questo! Cosa ho fatto di male nella mia vita? Niente più di quello che tanti romanzieri hanno fatto e continueranno a fare!»
Malagianna ascoltando quelle parole non provava alcuna pietà, ma solo disprezzo per quel pusillanime. Gli rinfacciò: «Dovevi pentirti prima. Ora è troppo tardi», e così dicendo lo sollevò in punta di gancio oltre il bordo del ponte.
«No! Aspetta! Almeno una cosa concedimela. Avverti i miei colleghi, fai sapere ai miei amici dove ha portato la mia condotta, non devono finire così, seguendo il mio esempio. Ti scongiuro! Io sono l'autore di...», ma Malagianna lo scaraventò dal ponte giù nel fiume di carta; lo guardò girare su se stesso mentre agitava le braccia e precipitava. L’impatto fu rovinoso: la superficie fatta di libri e pagine sciolte fagocitò il dannato in un attimo e si sollevò una nuvola di risme dov'era stato tuffato. Intorno a quel punto si radunarono subito in volo alcune scimmiette cornute coi loro jet-pack sulle spalle.
Dall’alto del ponte Malagianna, che in quei momenti si concedeva di essere didascalica, pensava tra sé e sé: “Caro dannato senza nome, questo amore per i tuoi colleghi dovevi dimostrarglielo in vita, convincendoli che lo scrivere storie inverosimili propinate a un pubblico di creduloni portasse alla dannazione. È inutile che io mi presenti a loro portandogli i tuoi ammonimenti. Se mi mostrassi, più che spaventati dalle tue parole, ne sarebbero ispirati per le loro opere e finirebbero per scrivere interi e-book sulle scimmiette di mare cornute!”
Passati lunghi momenti d’attesa, lo scrittore innominato riemerse dalla carta e spalancò la bocca e gli occhi come se gli mancasse l’aria. Le scimmiette cornute, che l’aspettavano al varco volando lentamente in cerchio, simili ad avvoltoi sulla carogna di cui vogliono cibarsi, lo colpirono senza pietà con armi da contrappasso: spade laser e sciabole forgiate dagli elfi. Così lo ricacciarono, insultandolo e deridendolo, sotto le pagine. Malagianna compiaciuta osservava dall’alto la scena.
In quel momento gli si avvicinò Barbaspina, anche lei una scimmietta cornuta, la quale disse disgustata: «Eccone un altro. Sembra che non ci sia mai fine a questo scempio. Poco male, per noi, il divertimento è assicurato».
Malagianna rispose: «La razza degli scrittori di horror, fantasy e fantascienza è inesauribile. Sembra che tutti abbiano qualche storia inverosimile da raccontare. Pare che lo facciano apposta: dovrebbero sapere che non si possono dire bugie e raccontare fandonie agli allocchi, ma per loro è come se niente fosse. D’altra parte, quei pochi sventurati che riescono ad avere successo guadagnano barcate di denaro. Purtroppo per loro, alla fine ci siamo noi! A noi non possono raccontare frottole», concluse con un ghigno, rivolta alla compagna.

* * *

Il dannato senza nome, che per comodità d'ora in poi chiameremo convenzionalmente Valerio ***, stava nuotando con fatica sotto il cumulo di carte. Sentiva sopra di sé il sibilo dei jet-pack e non si azzardava a riemergere: le bruciature delle spade laser e le ferite delle sciabole elfiche ancora gli dolevano.
Nonostante fosse immerso nella più cupa oscurità, riusciva a leggere le parole impresse sui fogli di carta. Sembrava che l'inchiostro con cui erano stampate fosse luminescente. In questo modo, riconobbe alcuni dei testi che aveva letto e che avevano ispirato la sua attività di scrittore. Ce n'erano poi molti vergati in lingue sconosciute, altri ancora mai visti né sentiti.
In ogni caso, ogni volta che gli capitava di scorrere qualche testo provava un grande rimorso, oltre a una grande noia per ritrovare riscritte più e più volte da autori diversi sempre le stesse storie, come se la maggior parte di quelle opere non fosse altro che una scopiazzatura di pochi testi originali. Perché non si era messo a scrivere storie vere ed edificanti che potessero contribuire al progresso dell'umanità? No, la sua inclinazione malvagia lo aveva spinto a scrivere ciò che gli dettava la fantasia, ed erano vicende malsane di orchi e di maghi, di elfi e mezz'uomini.
Nel suo peregrinare sommerso, incontrava talvolta altri dannati. I più si allontanavano dal lui, come se volessero fuggire la notorietà che un tempo avevano fortemente voluto. Ma quelli che si trovavano lì da più tempo, non erano per niente agili a eseguire manovre evasive e lui riusciva a raggiungerli. Infatti, dopo giorni di caccia sub-cartacea, era riuscito ad agguantare la caviglia di un'anima che gli era incautamente passata accanto.
«Vi prego», piagnucolò quel dannato. «Lassatemi».
«Italiano anche tu? Finalmente un po' di fortuna!» disse Valerio a cui non pareva vero d’aver trovato un’anima con cui parlare. «Non ci penso neppure a lasciarti: qualcuno mi deve delle spiegazioni!»
«Italiano fui, d'origine fiorentina: quella patria che tanto soffrir mi fece», iniziò a dire il vecchio. Poi aggiunse sdegnato: «Ma di quali spieghe andate cianciando? Non vi basta esser già qui a soffrirne? Volete pur conoscerne i motivi?»
Valerio iniziò a essere influenzato dalla prosa lievemente arcaica del suo interlocutore e, visto che si rivolgeva a lui con un rispettosissimo voi, cominciò a dire: «O illustre fiorentino, io son qui da poco, e ancor non ho capito che genere di luogo questo sia e chi a scontar la pena ci sia rinchiuso».
«Ormai avrete capito chi son gli sventurati che con fatica in questa olente carta devon nuotare: son gli autori d'opere di fantasia. Essi pensaron che'l mondo non bastasse all'omo, ma ch'altri universi ei legger dovesse. Ahi, qual sommo abbaglio, qual nociva idea fu 'l sostituirsi al Creatore. Ora noi siam tutti qui, pel nostro ardire a un'etterna pena condannati».
«Beh, la pena io sopporto, m'è sempre piaciuto legger d'horror, fantastico e giallo».
«Meschin illuso, io son qui da settecento e più anni ormai, e tutto questo librame m'è venuto a noia: ormai passolli tutti, uno per uno, e da tempo perduto ebbi il conto delle fiate che lessi ognun dei testi. Neppur i novi libri che qui giuso son gettati mi dan sollievo, son spacciate come storie nove, ma il conoscitor sa ch'ormai s'è scritto tutto, e non c'è novità che non sia letta».
«Tutto ciò è terribile! Ma tu dimmi, chi sei novellator d'italica favella?»
«Io Dante fui nomato, degli Alighieri di Firenze. Io m'inventai un viaggio per l'Ade, che ogni uom nelle terre d'Italia a legger è costretto quand'è ragazzo. Alla maledizion d'esser letto, s'aggiungono le invettive di color che sprezzano la mia novella. Così ogne die la mia pena quaggiù s'accresce ed io soffro e mia condizion peggiora».
«Tu s'è Dante? O mio vate! Quanto al liceo apprezzai 'l tuo scritto. D'essere divina si fregiò la tua opera!»
«Ma qual divina? Fu 'l demonio che l'ispirò! Cento canti di versi sublimi sul nulla fondai, se non sul greve disio di riveder Beatrice e porla tra gl'angeli, quando in terra di ben altra fama era nomata».
«Ma tu raccontasti di spiriti magni, dell'ingegno umano premiato nell'altra vita. E invece qui a soffrir ci ritroviamo. Io son Valerio *** e l'opere mie avrai di certo letto, in questo mare magnum».
«Sarebbe onor per me ‘l conoscerti, se non fosse a disonor ciò che lassù ci fece onorati. Lessi un tuo romanzo un dì, ma gettollo dopo pochi righi: illegibile il trovai e indigesto mi fu il libro e chi lo scrisse».
«Triste mi fai, sommo poeta, sed de gustibis non est disputandum. Ma piuttosto dimmi, vate della divina, altri autori noti v'è nei paraggi? Curioso son di conoscer elli».
«Poco lontano c'è Mary Shelley, che di Frankenstein narrò la vicenda; un po' più in là Arthur C. Clarke, l'autor che l'oscuro monolito immaginò; poi Bram Stoker esangue, ch'el conte Dracul azzanna notte e dì. Ma se cognosco gusti tuoi, ho un dono che oro per te vale: all'indirizzo di Tolkien inviarti posso, se di lasciarmi in pace prometti. Presto, però, che non è sano restar lungo tempo in identico luogo: i primati cornuti sempre pronti son ad azzanar chi troppo a legger s'attarda. E stai attento a sortir in suso per rifiatare, spesse volte quei demoni s'appostano e della sortita pentir ti fanno».
«Grazie, mio vate! Piacer m'ha fatto il trovarvi, quanto spiacevol è il luogo dove l'incontro avvenne».
Dopo aver ottenuto altre indicazioni, Valerio liberò Dante. I due si lasciarono, nuotando tra fogli di carta, libri e opuscoli. In quel fiume sarebbe di certo occorsa un'intera vita per ritrovarsi, ma loro avevano a disposizione l'eternità.

* * *

Malagianna ammirava dal ponte l'aria cupa dell'Inferno.
Barbaspina le si avvicinò e disse sconsolata: «Devo andare da Caronte a recuperare un altro scrittore».
«Non sei contenta? Star qui è una noia».
«Vorresti andare tu?»
«E me lo chiedi? Certo!»
«Allora vai, capo, ti cedo il posto. È arrivato un certo Danilo e non so più che altro. M'han detto che è facile riconoscerlo: è calvo, ha uno sguardo intenso e il mento volitivo.
Malagianna non se lo fece ripetere e volò subito verso le rive d’Acheronte. Non vedeva l’ora d’arpionare un altro dannato.
Barbaspina rimase sola sul ponte. Si guardò intorno con circospezione, poi accese il jet-pack e decollò in direzione di un anfratto appartato, verso il ponte diroccato, lungo la riva del fiume di carta. Si appoggiò al bordo e attese con pazienza.
Dopo pochi minuti emerse il volto d'un uomo. Aveva gli occhi leggermente incrociati e l'aspetto era inquietante di per sé, anche senza sapere che aveva scritto gli horror più spaventosi nella storia della narrativa fantastica.
I due si scambiarono un saluto in inglese.
«Ben trovata, Barbaspina. Come hai trascorso la giornata?»
«La solita noia, Stephen».
«Cerchiamo di rimediare allora! Dov'eravamo rimasti?»
La scimmietta riassunse il cliffhanger del giorno prima, dopodiché il dannato cominciò a raccontare da quel punto. Ne approfittava per rifiatare. Ne aveva bisogno dopo essere stato ammorbato per tutto il giorno dall'odore dei libri, dai miasmi dell'inchiostro e dalla pessima prosa di autori dozzinali.
Barbaspina adorava le storie di Stephen, e lo scrittore amava raccontarle. Quell'anfratto era il loro angolo di Paradiso, ritagliato nel più buio spicchio dell'Inferno. La scimmietta avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per farsi raccontare un episodio dopo l'altro, ma ogni volta che aveva un attimo di tempo non resisteva, doveva sapere sempre cosa succedeva dopo e, nonostante si dicesse che tutto era già stato scritto, ogni storia che Stephen iniziava era diversa dalle altre: non sarebbe bastata l'eternità per farsele raccontare tutte.
Nel frattempo, poco lontano, altre scimmiette volavano sulla superficie dei fogli di carta. Seguivano le tracce degli scrittori che, come talpe, si spostavano da una sponda all'altra del fiume, alla vana ricerca di storie originali.
Non appena una di quelle talpe tentava di metter fuori il capo, quelle aguzzine menavano botte da orbi: era davvero un peccato per quegli sventurati che solo poche scimmiette si lasciassero avvincere da vicende fantastiche ben raccontate.

F I N E

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