sabato 2 marzo 2013

Io rinascerò

Zen, 9004 caratteri, versione 3.0


IO RINASCERÒ
di
Leonardo Boselli



Arrancava, un passo dopo l’altro, tra gli scheletri degli alberi, tormentato dal vento che soffiava a raffiche e sollevava gelidi mulinelli di neve. I lupi che lo inseguivano da ore non si preoccupavano più di rimanere sottovento; il loro odore si intensificava: lo poteva percepire con chiarezza, acre e selvatico, nell’aria resa pura dal freddo.
Aveva perso molto sangue. I movimenti si erano fatti lenti e ogni passo che affondava nella neve gli provocava forti dolori.
Si guardò intorno. Mentre scrutava fra cespugli spogli e tronchi in letargo, all’improvviso si delinearono, nella penombra del crepuscolo, le sagome di un branco di lupi che ansimavano fiutando le tracce. Nella semioscurità, i loro occhi fiammeggiavano famelici.
Spaventato, spiccò un salto, ma fu subito artigliato dalla morsa gelata della neve fresca. Dopo alcuni tentativi, disperò di riuscire a liberarsi.


Il fuoristrada s’inerpicava con rapidità lungo la strada di montagna. Il sergente Wang, un veterano di grande esperienza, si divertiva a scalare le marce e ad affrontare con decisione ogni tornante di quell’interminabile salita, mentre il tenente Xian, un giovane ufficiale di prima nomina, sentiva crescere dentro di sé un forte senso di nausea.
«Ci vuole ancora molto?» chiese preoccupato.
«No, signor tenente, ormai siamo arrivati».
I boschi della regione erano piuttosto fitti, ma a tratti si aprivano ampie radure illuminate dal sole. Era il luogo ideale per nascondersi e il fuggitivo che stavano inseguendo lo sapeva bene.
Dopo un’ultima serie di curve, il sergente arrestò il veicolo lungo il ciglio della strada, accanto a un cartello che indicava la distanza dal confine di stato, e disse: «Ecco, l’elicottero lo ha perso in questo punto».
Il tenente ne approfittò per scendere e si ritrovò a un passo dal precipizio. Il senso di vertigine che provò nel vedere la parete a picco sotto di sé gli prese lo stomaco; con un paio di conati, si liberò della colazione del mattino.
«È una vista che toglie il fiato, non è vero?» commentò divertito il sergente, poi estrasse il suo fucile di precisione dal bagagliaio e se lo mise a tracolla.
Il tenente respirò ampie boccate d’aria pura. Dopo aver rifiatato, prese a sua volta un fucile e seguì il sottufficiale che si era inoltrato nella boscaglia.
«Qui ci sono molte tracce fresche», disse il sergente.
Alcuni rami spezzati segnalavano il passaggio di un uomo, o forse di un animale di grossa taglia, mentre la linfa stillante indicava che la rottura era avvenuta da poco.
In quel momento un elicottero sorvolò i due militari: stava pattugliando il bosco tra la strada e la linea di confine alla ricerca del fuggitivo.
«Muoviamoci!» ordinò il tenente. «Non deve avere molto vantaggio».
I due soldati seguirono le impronte e, spostandosi di corsa attraverso il fitto sottobosco, raggiunsero una radura. La traccia nell’erba era fin troppo evidente, ma puntava in una direzione sbagliata: non era quella la via più breve per il confine.
Il sergente Wang imbracciò il fucile e, attraverso il mirino telescopico, si mise a osservare con attenzione gli alberi in lontananza, mentre l’ufficiale muoveva qualche passo nell’erba alta della radura.
A un tratto il tenente Xian sentì un rumore di vetri infranti sotto l’anfibio destro, si piegò e raccolse un paio d’occhiali rotti. Mentre li provava, disse con soddisfazione: «Non ha scampo. Ora è come cieco!»
Iniziarono a correre seguendo l’erba calpestata e si addentrarono nuovamente nel bosco. Persero le tracce quando giunsero al letto d’un torrente, quindi salirono su uno sperone roccioso da cui si poteva dominare la rada boscaglia. Il tenente si mise a osservare la zona con il binocolo.
«Vede qualcosa, signore?»
«Nulla. È come pescare un ago nel mare».
Poi si fermò e disse: «C’è un grosso cervo che pascola lungo il crinale».
Il sergente puntò il fucile e guardò l’animale attraverso il mirino. Era un magnifico esemplare che pascolava tranquillo. I passaggi ripetuti dell’elicottero non sembravano averlo troppo infastidito. Abbassava la testa per strappare con la lingua lunghi ciuffi d’erba e ogni volta la rialzava mostrando fiero un elaborato palco di corna ramificate.
«È davvero una bella bestia. Purtroppo non siamo qui per cacciare, non cervi comunque».
Mentre il tenente pronunciava quelle parole, l’animale voltò di scatto la testa e smise di masticare, come se avesse avvertito un rumore sospetto, e fissò allarmato un cespuglio che gli era poco distante.
Il sergente cercò in quella direzione e inquadrò un punto tra le frasche dove si notava un lembo di stoffa arancione.
«L’ho trovato!» disse, e aggiunse ironico: «È come se avesse un bersaglio tatuato sul petto».
«Bene! Gli ordini sono chiari: dobbiamo catturarlo vivo o morto».
«Allora non è il caso di correre rischi», concluse il sergente, mentre regolava l’alzo della sua arma.
Prese la mira con calma e sparò. Il colpo risuonò per tutta la valle e spaventò il cervo che si addentrò a testa bassa nella boscaglia.
Quando raggiunsero il fuggitivo, lo trovarono ancora vivo, seduto a gambe incrociate e appoggiato con la schiena a un albero. Indossava il suo abito arancione da monaco, che portava anche in quell’estrema occasione con l’autorevolezza propria di un lama tibetano.
Il tiro non era stato preciso: il proiettile aveva colpito il petto dell’uomo, però non aveva centrato il cuore, e il sangue usciva copioso dalla ferita macchiando di rosso la veste arancione.
Il monaco, che aveva il capo reclinato e respirava a fatica, era ancora cosciente, quindi il tenente Xian gli sollevò la testa e rimase stupito nel vedere un volto che appariva sereno.
Quindi il sergente Wang, contrariato per il centro mancato, chiese al moribondo: «Non hai paura di morire?»
Sostenuto dalle forze residue, l’uomo rispose che non temeva più la morte e il sottufficiale, incuriosito, gliene domandò il motivo.
«Ho ricordato che nella vita precedente anch’io sono stato un cacciatore e tornerò a esserlo nella successiva».
Dopo aver risposto, un’altra illuminazione attraversò il monaco con un fremito, tanto che, con qualche difficoltà, tra colpi di tosse, si mise a ridere.
«E ora che ti prende?» chiese il sergente indispettito.
«Ho scoperto che nella prossima vita tu sarai un cervo» rispose e, mentre il sorriso gli si spegneva sul volto, esalò l’ultimo respiro.
«Un fanatico in meno», disse il tenente Xian, mentre sistemava gli occhiali rotti sul naso del monaco. Poi aggiunse divertito: «Secondo il suo credo, non tarderà a reincarnarsi».
«Ma noi saremo ancora qui ad aspettarlo» fu l’ironico commento del sergente, per nulla impressionato dalle rivelazioni del monaco.

La morsa del gelo, più affilata di una tagliola, gli aveva afferrato le zampe. Urlò la sua impotenza e il bramito giunse lontano. Ne sentì rimbombare l’eco tra le rocce e gli alberi addormentati.
A quel verso i lupi si eccitarono, affondarono il muso nella neve macchiata di sangue, mostrarono le zanne e ringhiarono arruffando il folto pelo della groppa. La loro frenesia raggiunse il parossismo e si avventarono sulle sue zampe posteriori.
Il cervo, scalciando, sollevò nuvole di neve e li respinse, poi compì un ultimo faticoso salto, ruotò la testa e colpì con i suoi poderosi palchi i predatori più imprudenti, che per inesperienza si erano esposti troppo. Un paio di loro si ritirarono: guaivano leccandosi le ferite. Ma fu una vittoria di breve durata, perché presto tornarono all’attacco.
Il capobranco, un enorme lupo dal manto grigio, scatenò i gregari più feroci. Dopo una serie di assalti ripetuti, il cervo fu azzannato al collo e, immobilizzato, si rovesciò nella neve. Le sue zampe scalciavano disperatamente, ma a vuoto.
I canini serrati sulla trachea lo soffocavano; avrebbe voluto reagire ma gli mancavano le forze. Si stava arrendendo, e mentre la vita lo lasciava, si ricordava di ogni momento trascorso.
Ciò che gli tornava alla mente era sorprendente: dai tristi inverni alla faticosa ricerca del cibo nascosto dalla neve, ai concitati duelli nei prati primaverili per la conquista delle femmine, fino al giorno in cui aveva mosso i primi passi tra le zampe della madre; per poi scoprire memorie cancellate dai decenni e dai secoli, altre reincarnazioni, remoti desideri da reprimere, vecchi peccati da scontare, e tutti gli uomini che aveva braccato e ucciso nella vita precedente.
Mentre assisteva alle epoche trascorse, l’esistenza acquistava un nuovo significato e l’estenuante lotta per la sopravvivenza diventava priva di senso. Alla fine decise di arrendersi.
Il capobranco, che vittorioso si era avvicinato al suo muso e aveva scoperto le zanne in quello che poteva sembrare un ghigno di scherno, rimase stupito dalla serenità del cervo e se ne chiese il motivo, ma fu una curiosità di breve durata. Dopo aver annusato l’odore invitante della sua preda, lasciò che i compagni la sbranassero.
Mentre quel corpo veniva dilaniato, lo spirito l’abbandonò e si mise a cercare un’altra forma da animare per completare il cammino della sua esistenza.


F I N E

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