sabato 2 marzo 2013

Dodici minuti

Thriller, 7480 caratteri, versione 1.2


Dodici minuti
di
Leonardo Boselli


«Dodici, Mike. Mancano dodici minuti.»
La voce angosciata di Robert mi ricorda che il tempo sta passando inesorabile, ma lo so bene: il timer è di fronte a me e i suoi led rossi contano ogni maledetto secondo, a ritroso.
Undici minuti e cinquantasette.
Le mie mani ricominciano a tremare. Devo calmarmi, svuotare la mente, ma quella bomba assorbe tutti i miei pensieri, e le mie mani tremano. Quando avevano iniziato? Tanti anni fa, ma quando esattamente?
Ora non lo so più, ma ricordo con precisione il momento in cui quest’ultima bomba è entrata nella mia vita. Ero a letto. Sì, ero steso sul letto, ma non dormivo; fissavo i led rossi della sveglia che contavano lenti i minuti.
Erano le cinque e cinquantasette. Ancora un’ora e tre minuti e avrebbe suonato, avrebbe svegliato Susan che si sarebbe voltata dall’altra parte, mentre io mi sarei alzato. Ma erano ancora le cinque e cinquantasette, la sveglia era muta, mentre suonò il cellulare: era un’emergenza, di quelle da saltare giù dal letto, infilarsi i pantaloni e scordare di farsi la barba.
«Mike, se non te la senti, subentro io» mi dice Robert senza convinzione. Lo fa per scuotermi e non gli rispondo. Non può fare meglio di me; quel congegno è troppo complicato. Nessuno può. Noi due siamo qui solo perché qualcuno deve starci: qualcuno deve far compagnia alla bomba.
Ho svitato la copertura e ora vedo i cavi di dodici detonatori distinti, comandati da circuiti ridondanti. La sola cosa che impedisce loro di esplodere è il timer, che continua senza sosta il suo conteggio: undici minuti e venticinque, dice.
Gli inneschi si inseriscono in dodici placche pentagonali di esplosivo al plastico che formano un dodecaedro. All’interno di quel solido è contenuta la bomba vera e propria: un nucleo di plutonio, una maledetto ordigno atomico sfuggito da chissà quale arsenale, una dannata testata nucleare al centro di Manhattan.
«Undici minuti» dice Robert. Poi per parecchio tempo tace, o meglio farfuglia. Sta pregando.
Fa bene. Forse pregare è davvero l’unica cosa che resta da fare. In undici minuti non puoi andare lontano nelle strade intasate di una città impazzita. Sì, perché le brutte notizie si spargono in fretta: io ne venni a conoscenza alle sei e quarantadue, ora della costa est.
Quella mattina al briefing c’erano proprio tutti. Eravamo nella sala operativa degli uffici dell’FBI. Ti guardavi intorno e vedevi gli agenti speciali, in giacca e cravatta, tirati a lucido; poi c’eravamo noi della squadra artificieri, con la barba di un giorno, mezzi addormentati, alla disperata ricerca di un caffè nero.
Quando ci spiegarono cosa stava succedendo, rimanemmo delusi. Il solito allarme bomba: un qualche agente infiltrato aveva informato i propri superiori che la solita organizzazione terroristica aveva dislocato vari ordigni, probabilmente bombe sporche, in alcune città. Si parlava di Washington, New York e Los Angeles. Il solito falso allarme, pensammo.
Ma verso le dieci del mattino trovarono la bomba di New York. Fu rilevata una forte sorgente radioattiva all’ottavo piano di un anonimo condominio. In quell’appartamento abitava uno dottorando in fisica d’origine mediorientale, ma nato negli Stati Uniti. L’ordigno con tutta probabilità l’aveva assemblato lui, con materiale proveniente chissà da dove. Era irritante pensare che una nostra università gli avesse insegnato a costruirla; ma d’altra parte si sa quanto le organizzazioni terroristiche apprezzino il nostro sistema educativo.
Per evitare il panico, in accordo col sindaco, si decise di tenere la notizia segreta e d’iniziare l’evacuazione dei quartieri limitrofi al condominio adducendo le motivazioni più rassicuranti possibili.
Quindi venne contattato il Presidente, ma la comunicazione in videoconferenza durò poco. Mentre sul furgone della squadra artificieri ci stavamo recando all’appartamento che ospitava la bomba, ci giunse la notizia: il centro di Washington non esisteva più.
Nessuno poteva credere alle immagini trasmesse dalle televisioni: una colonna infuocata si innalzava sopra la capitale e al di sotto c’era solo desolazione. Nonostante lo shock, i giornalisti non impiegarono molto tempo ad associare l’evacuazione di pochi isolati di New York con il disastro di Washington, e il panico si diffuse più rapido della notizia stessa.
Ora mi trovo qui, di fronte alla bomba con Robert, mentre il resto della squadra è collegato con noi a una distanza che sarebbe di sicurezza, se si trattasse di un ordigno convenzionale. Guardo il congegno e non posso fare nulla, nessuno può in così poco tempo. Vedo il nucleo circondato dagli inneschi esplosivi e una matassa di cavi impossibile da sbrogliare. L’unica speranza è una piccola tastiera e quel timer che continua a contare a ritroso: otto minuti e quarantadue.
«C’è una sola possibilità: conoscere il codice di disattivazione» dico per distrarmi.
Robert smette di pregare e replica: «Staranno interrogando quello studente. Proveranno di tutto per farlo parlare. Devono riuscirci.»
Il suo forzato ottimismo non mi contagia. «Non lo so. È un fanatico, il solito integralista. Chi può costruire un ordigno simile sapendo quante vittime può fare, se non un fanatico? Scommetto che avrebbe voluto essere la prima vittima della sua stessa bomba.»
«Invece le prime vittime saremo noi, mentre lui sta già pregustando le sue vergini che l’aspettano in Paradiso» aggiunge Robert con rassegnazione.
«È un fisico, non credo che sia quella la sua motivazione, ma non parlerà comunque.»
Robert non risponde più. Ha ripreso a pregare e penso che presto sapremo chi ha ragione a proposito delle vergini che attendono i martiri della fede.
Intanto prendo una pinza e mi faccio largo nell’intrico di cavi, ma le mani riprendono a tremare. Ed ecco che proprio allora mi ricordo di quando hanno iniziato, mi torna in mente perfino il numero di serie della mina che stavo dissotterrando.
Ero in Iraq, uno dei tanti militari addetti alla bonifica del territorio. Quante mine ho disinnescato! Sembrava che non ci fosse una fine; ma un giorno ho trovato l’ultima, quella che rimane inesplosa, quiescente finché non arrivi tu a svegliarla. Era là, appena visibile e mi aspettava, ma non toccò a me. La sera prima ci eravamo giocati a poker i turni di sminamento e avevo vinto l’ultima mano con un full, un tris di nove e due otto, così il mio migliore amico dissotterrò quella mina che sembrava innocua, mentre io mi trovavo a poche decine di metri. Lui tornò in un sacco di plastica e io venni congedato per esaurimento, con quel tremito che mi accompagnava.
Ora il timer indica un minuto e dieci. Resta solo il tempo di salutare Robert, un altro buon amico che dovrò lasciare, e di pensare a Susan per l’ultima volta. Fino a questo momento l’ho tenuta fuori dai miei pensieri, altrimenti sarei impazzito, ma ormai è troppo tardi anche per la follia.
La telefonata che aspettavamo non è arrivata.
Poche decine di secondi e la bomba esploderà. È il momento di fare un tentativo con il codice di disattivazione: un fallimento e scoppierà in anticipo.
«Qual è il tuo numero fortunato, Robert? Mi servono cinque cifre.»
Robert continua a farfugliare le sue litanie. Non mi ascolta più. Devo scegliere io.
Che strano! Le mani non tremano più. Mi viene in mente la sequenza di carte che un tempo mi aveva portato fortuna: 99988.
Dodici secondi.
Scrivo velocemente il codice sulla tastiera e, a ogni cifra, mi scorre davanti l’intera vita.
Due secondi.
La sequenza lampeggia, in attesa. Confermo...

F I N E

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