sabato 2 marzo 2013

La via dell'equilobrio

Zen, 9969 caratteri, versione 1.1


LA VIA DELL’EQUILIBRIO
di
Leonardo Boselli


Il cronometro ha iniziato il conto alla rovescia. I lunghi istanti dedicati alla concentrazione sono stati annullati in un attimo, quando il cuore ha cominciato a battere in modo frenetico.
Mi alzo e prendo fiato. Sistemo la faretra sul fianco destro, raccolgo l'arco dal sostegno e mi dirigo con calma verso la riga bianca. Piazzo i piedi ben saldi, paralleli alla linea. Da lì posso vedere a pochi passi di distanza l'avversario che mi gira la schiena, lo vedo scrollare le spalle e ruotare la testa per rilassare i muscoli del collo, poi alza il braccio sinistro impugnando l'arco.
A mia volta dirigo lo sguardo a sinistra. Laggiù, ad alcune decine di metri, è collocato il paglione con il bersaglio; poche decine di metri che, al termine del pomeriggio, sembrano ormai chilometri.
Quel disco giallo all'interno della corona rossa, quello è il mio obbiettivo. Quante volte l'ho inquadrato attraverso il mirino e la freccia, appena scagliata, lo ha raggiunto, come guidata da un filo invisibile. Ora però non importa più ciò che è accaduto in passato: resta solo quell'ultima serie di tiri e tutto sarà deciso.
Le frecce vengono lanciate una dopo l'altra e c'è chi segue la loro traiettoria con il binocolo e ne determina l'esito. L'avversario ha tirato con calma e regolarità. I suoi movimenti hanno ripetuto con precisione maniacale un rigido rituale, quasi che quei tiri, indistinguibili gli uni dagli altri, non fossero che un unico, preciso, inesorabile lancio contro il bersaglio. L'errore che aspettavo, e desideravo ardentemente, non c'è stato.
Quest'ultimo mio tiro dev'essere perfetto: la vittoria richiede dieci punti, non uno di meno. Il mio bersaglio deve essere il disco giallo all'interno della corona gialla, racchiusa dalla coppia di corone rosse. Basta anche solo intaccare il bordo di quel cerchio, ma bisogna riuscirci: nove punti servono solo a prolungare l'agonia.
Avevo cercato di dimenticare per mesi, lunghi e dolorosi, ciò che accadde quattro anni fa. C'ero riuscito, lo avevo rimosso. Ora però lo ricordo perfettamente. Il mio vantaggio era consistente, gli avversari avevano rimontato nelle ultime serie, ma sarebbe stato sufficiente inviare un'ultima freccia all'interno delle circonferenze blu per vincere l'oro. Ricordo quella finale, ma non l'esecuzione dell'ultimo tiro, vedo solo quella freccia che perde forza e quota e colpisce il bersaglio troppo in basso.
Com'era potuto accadere? Si sente parlare della paura di vincere, ed è una realtà: è un tarlo che ti rode e incrina la tua sicurezza proprio quando è necessario chiamare a raccolta le ultime energie. Anche tiratori di alto livello l'hanno provata: nel momento decisivo, possono colpire per errore il bersaglio dell'avversario, o semplicemente mancare il proprio. E quel solo sbaglio può compromettere un'intera carriera, può minare il fragile equilibrio interiore che permette di percepire l'allineamento perfetto.
Ma non devo pensare a tutto questo, perché mi deconcentra, perché mi porta troppo vicino alla china scesa la quale non è più possibile risalire. Devo concentrare le ultime risorse e focalizzarle nel tiro, senza pensare che sarà l'ultimo, quello decisivo. Devo pensare alla procedura, ma lo devo fare svuotando la mente, senza ragionare, lasciando libero l'istinto affinato in tanti anni di duri allenamenti.
Il cronometro continua a contare, ma non lo vedo. Mancano poche decine di secondi, ma non importa perché c'è tutto il tempo necessario, basta seguire docilmente il ritmo interno, le pulsazioni del cuore che si fanno sempre più lente. Il sangue scorre nelle arterie e raggiunge ogni parte del corpo, ogni muscolo, ogni nervo, trasporta ossigeno, cibo per le cellule, e rimuove le scorie che esse hanno prodotto durante gli sforzi prolungati.
Guardo la mano destra: indossa la protezione per le dita che copre dall'indice all'anulare con una fessura sopra il medio per lasciare uno spazio in cui si innesterà la freccia. La protezione è segnata al livello delle seconde falangi, lì compare il solco in cui dimorerà la corda, scavato da innumerevoli trazioni. Solo quelle tre dita tratterranno la freccia durante la preparazione del tiro, ma dietro di loro lavoreranno tutti i muscoli del braccio, fino alla spalla e alla spina dorsale. Tutti coopereranno per tendere l'arco, per esercitare ancora una volta la forza necessaria per caricare di energia elastica tutto l'attrezzo. La mano sinistra, per ora, sorregge solamente l'arco, appoggiato con il suo corno inferiore sul piede sinistro.
Ora cerco nella faretra la freccia migliore. Osservo gli impennaggi e scelgo quello che sembra intatto, che può fendere l'aria avvitandosi lungo quel binario invisibile che conduce il dardo al bersaglio. La freccia scorre nella faretra emettendo un lieve sibilo metallico nel contatto con le compagne. Con cura l'appoggio sul supporto, dietro la lamina che segnala la corretta estensione dell'arco, inserisco la cocca sulla corda e l'incisione della protezione per le dita intorno all'asta.
Sfioro la corda, ne saggio la tensione. È la prima sosta. La preparazione dell'attrezzo è terminata, l'arco è pronto per il tiro e non resta che tenderlo. Inizia il controllo della respirazione, si ascoltano i battiti del cuore, si svuota la mente.
Come ad un segnale convenuto, la mano sinistra impugna l'arco e lo solleva fino a quando il braccio non si allinea con le spalle, mentre la mano destra non esercita alcuna resistenza sulla corda, se non la minima necessaria per sostenere l'attrezzo in verticale.
Con l'occhio destro posso vedere il bersaglio, la punta della freccia e il mirino, ma vedo anche la protezione per il braccio: da quanto tempo uso sempre la stessa e quanti ricordi mi si affollano nella testa. Mi viene in mente quel giorno lontano quando, da giovane arciere inesperto, non ritenni necessario indossarla e mi ritrovai alla fine dell'allenamento con numerosi lividi blu provocati dalla corda, frustate sull'avambraccio che divennero dolorose solo il giorno seguente... L'arco è pronto per la trazione e torno con la mente al presente. È la seconda sosta.
Il respiro è tranquillo, il battito regolare. Ora la mano sinistra si apre e l'impugnatura dell'attrezzo rimane appoggiata al palmo, mentre il braccio destro inizia a tendere l'arco.
È un movimento che parte dalla spina dorsale e prosegue nella spalla, attraversa tutti i muscoli del braccio per arrivare alle tre dita che tirano la corda. La freccia scorre lentamente sul supporto e l'arco sembra lottare, sembra opporsi con tutte le forze a quella violenza, ma non è così l'arco invece collabora, immagazzina l'energia muscolare dell'arciere nei suoi corni, si piega alla volontà dell'uomo pronto a compiere il suo dovere. Alla fine esso dovrà concentrare tutta l'energia accumulata e trasferirla alla freccia... Tic! La lamina scatta. Ha seguito tutto il profilo della freccia ed è giunta alla punta. L'estensione è quella corretta, l'arco ha immagazzinato l'energia necessaria per seguire la traiettoria prevista. È la terza sosta. I muscoli mantengono semplicemente la tensione, la respirazione continua lenta ma profonda e rifornisce d'ossigeno i polmoni, mentre il cuore pompa regolarmente il sangue che, attraverso gli alveoli, si libera delle scorie e preleva l'ossigeno, poi scorre verso le cellule dei muscoli contratti e le nutre.
Il cronometro indica i secondi restanti per concludere l'ultima serie di tiri, ma non è quello l'orologio che decide quando è il momento giusto. Attraverso l'occhio destro vedo il bersaglio, collimo il mirino con il disco giallo, attendo che il vento leggero cessi la sua ultima raffica e conto, conto i respiri e i battiti del cuore, conto e aspetto l'istante in cui la freccia riesce a trovare il suo stretto corridoio, la via verso il suo obbiettivo. È l'ultima sosta di quel pellegrinaggio... Tum! Il cuore sembra battere per l'ultima volta, la respirazione cessa, l'aria sembra immobile, il pubblico si ferma in silenzio, i pianeti interrompono la loro corsa e l'intera Galassia si arresta in quell'istante. È il momento. L'universo è appeso a quel filo sottile che lega la freccia al centro del bersaglio e passa attraverso l'arco, l'arciere, il cosmo, e da lì si ricongiunge alla terra, al paglione e al disco giallo al centro del bersaglio.
Il cerchio si è chiuso. È il momento perfetto, già compiuto in quell'istante, prima ancora che le tre dita allentino la presa, il cuore ricominci a battere, i polmoni a respirare, il vento a soffiare e l'intera Galassia a ruotare su se stessa. Non importa più l'esito del tiro e la freccia, trasceso lo scorrere del tempo, si trova sull'arco, ma anche piantata nel bersaglio e a riposo nella faretra. Non importa più vincere, ma vivere la consapevolezza di essere al centro dell'universo e, allo stesso tempo, sapere che il centro è tutto intorno. Non interessa più nulla, se non percepire l'unità del cosmo e osservare con stupore le sorprendenti connessioni tra le sue diverse parti, il legame che attraversa ogni attimo e comunica l'intero passato, ancora vivo, al futuro, già presente. Non ne ero consapevole, ma i lunghi anni di preparazione avevano un unico scopo: poter rivivere quell'istante rivelatore in cui tutto è chiaro ed evidente, per poi ripiombare nel vorticoso flusso del tempo e avere solo esperienza del presente, dimenticare il passato, temere il futuro.
Ora le dita allentano la presa, la corda scorre mentre i corni rilasciano l'energia accumulata e la concentrano nella freccia che si lancia verso il suo bersaglio. È un bel tiro teso e ho fatto del mio meglio perché riuscisse bene, ma ora il suo esito mi è indifferente: so già che quella freccia, la cui punta vibra e la cui asta continua ancora a ruotare su se stessa avvitata dall'impennaggio, si conficcherà nel punto stabilito da tutti gli eventi passati, darà loro un senso e attenderà, come nuovo istante cristallizzato nel tempo e nello spazio, una giustificazione dagli avvenimenti futuri.

F I N E

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