domenica 3 marzo 2013

Il primo marito

Il primo marito
di
Jackie de Ripper


1.
Otto anni, erano passati otto lunghi anni, ma Michael aveva sempre lo stesso aspetto trasandato. Certo, era anche un po’ invecchiato, tuttavia la barba ingrigita e la calvizie ormai conclamata non lo rendevano meno interessante: i suoi occhi azzurri, penetranti, avevano ancora l’intensità d’un tempo e il vetro che ci divideva non ne attenuava la luminosità.
Presi l’interfono, lo appoggiai all’orecchio e attesi senza parlare.
— Ciao Jackie, — disse Michael, — come stai?
Quella domanda! Dopo avermi fissato a lungo e aver preso il ricevitore era riuscito a formulare solo quella frase banale, con il tono d’un amico col quale hai bevuto al pub la sera prima.
Non risposi. Aspettai che dicesse qualcos’altro e il mio silenzio sembrò imbarazzarlo.
— Lo so, — continuò, — è passato molto tempo...
— Otto anni.
— Sì, otto, — aggiunse sorridendo, — ma sei sempre bellissima.
Era tipico di Michael. Cercava ancora d’aggiustare le cose con un complimento e un sorriso sulle labbra.
— Non attacca più. È finita.
Il suo sguardo tradì un’insicurezza che non gli era propria.
— Jackie, hai ragione, tra di noi non ci sono mai state menzogne e...
— Non da parte mia.
Michael smise di parlare e scostò il ricevitore dall’orecchio. Continuava a fissarmi come se cercasse nei miei occhi le parole giuste.
— No, non da parte tua. Però, ti prego, — riprese con più convinzione, — non interrompermi. È molto difficile per me. Ma forse tu immagini già perché sono qui.
Non risposi. La mia durezza sembrò ferirlo e se lo sarebbe meritato.
Osservai i suoi occhi: li trovai circondati da rughe che non conoscevo; quindi scesi lungo il profilo del naso fino alla bocca, alle labbra che mi avevano regalato tanti baci appassionati e di cui adesso restava soltanto un pallido ricordo.
Posai lo sguardo sul suo pugno destro che reggeva la cornetta del ricevitore; era forte e mostrava i calli sulle nocche che gli davano da vivere. Non avevo mai capito come potesse accarezzarmi con dolcezza e farmi sentire desiderata con quelle mani così ruvide: era una contraddizione che mi aveva tenuta legata a lui anche in momenti difficili.
Michael sembrò frugare nei suoi ricordi per trovare un appiglio che potesse ravvivare quella conversazione. La sua mano fu percorsa da un fremito; forse avrebbe cercato d’accarezzarmi se il vetro non gliel’avesse impedito.
— Jackie, sono un verme. Non sai quanto mi è costato venire fin qui, ma sono in grossi pasticci... solo tu puoi aiutarmi.
Lo fissai con uno sguardo interrogativo e lui trovò il coraggio di spiegarsi.
— Sono sulla lista nera del “Macellaio”, — rivelò con un filo di voce.

2.
Avevo conosciuto il Macellaio tanto tempo fa, ancora prima che Michael entrasse di prepotenza nella mia vita.
Non era davvero un macellaio, anche se alcuni suoi atteggiamenti potevano farlo pensare. In realtà non era un uomo rozzo e brutale; nessuno dei macellai che ho conosciuto lo erano. Certo, possedevano tutti una notevole forza. L’uso di coltelli, di mannaie e di attrezzi per disossare è un’attività che richiede energia e una certa dose di violenza, ma ci vuole anche competenza e precisione. Lo stesso valeva per il Macellaio: nel suo campo era di una meticolosità maniacale, ma non lavorava nel settore delle carni, non quelle animali comunque.
Ricordo la prima volta che lo vidi. Avevo iniziato da poco a lavorare in un night club di Swindon. A quel tempo intrattenevo gli ospiti. Per una giovane che aveva perso entrambi i genitori ed era stata cresciuta da un vecchio nonno sergente dell'esercito in pensione, fare l’accompagnatrice poteva apparire un lavoro come un altro. Il mio compito, come quello di tutte le altre ragazze, era quello di far bere i clienti e di farsi offrire da bere.
— Ricordate, — ci diceva sempre Tom Wilcox, il gestore del locale, — un cliente che non beve è un cliente che non si diverte, e un cliente che non si diverte è un cliente che non ritorna.
Ripeteva spesso quella frase, anche se dimenticava di dire che un cliente che non beve è un cliente che non paga.
Un’altra abitudine di Tom era quella di servire alle ragazze alcolici annacquati o surrogati analcolici dei costosi liquori che venivano ordinati: una buona abitudine o saremmo tutte crollate ubriache a metà serata.
Il Macellaio mi fu presentato proprio da Tom. Una sera entrò nel locale con un paio di sgherri e mi fece subito una pessima impressione. Indossava degli abiti costosi e li portava senza un filo di classe: aveva l’aspetto del cliente che poteva spendere e che, perciò, si riteneva libero d’allungare le mani senza alcun ritegno.
— Sei nuova, — disse Tom indicandolo. — A quell’uomo piacciono le novità. Presentati e non farmi sfigurare, è un cliente di riguardo e deve divertirsi.
Mi avvicinai al tavolo del Macellaio e mostrai ciò che avevo da vendere; sembrò interessato e mi fece accomodare accanto a lui.
— Non ti ho mai vista, — disse mettendomi una mano sulla gamba. — Da dove vieni?
— Da molto lontano, — risposi scostando le dita sudate dal mio ginocchio.
Fu divertito dalla mia reazione e mi sorrise con un ghigno compiaciuto, scoprendo un premolare d’oro.
Il resto della serata fu noioso come sempre. Non so perché, ma agli uomini che frequentavano il locale di Wilcox piaceva fare sempre le solite stupide cose, e il Macellaio non faceva eccezione.

3.
— Sei venuto solo per questo? — dissi alzandomi.
Riappesi il ricevitore mentre Michael attraverso il vetro sembrò dire: “Jackie, aspetta...”
— Il colloquio è finito, — dissi alla guardia voltandomi, — mi riporti in cella.
Sentii addosso gli occhi azzurri di Michael. Imploravano. Li sentii mentre mi seguivano lungo i corridoi della prigione, finché la porta della cella si richiuse dietro di me.
Mi sedetti sul letto a castello. Immediatamente Susan, la mia compagna, si affacciò curiosa sopra la mia testa.
— Una visita anche per te, finalmente! Chi era?
— Sta’ zitta e non rompere, strega!
Ci rimase male, ma occorreva parlarle in quel modo, altrimenti non avrebbe smesso di tormentarmi. Il broncio le sarebbe passato presto, però avrei goduto di una preziosa mezz’ora di silenzio.
Michael doveva proprio essere disperato per aver trovato il coraggio di rivolgersi a me, e io gli avevo voltato le spalle, come se la nostra storia non avesse mai avuto alcun valore. Sì, forse l’aveva avuto, ma adesso quella storia era morta e sepolta.
D’altra parte sapevo già in quali guai s’era cacciato e cosa poteva volere da me. Le notizie corrono veloci in prigione. Nulla di eccezionale, la solita questione di soldi, debiti di gioco non pagati, ma il Macellaio ne faceva sempre una questione personale e, se non saldavi, finivi sulla sua lista nera. La morte di un debitore insolvente portava vantaggi e svantaggi: svaniva la possibilità di recuperare il denaro, ma gli altri debitori si facevano in quattro per rispettare le scadenze. Per questo, dal punto di vista del Macellaio, la morte di Michael era un buon investimento.
A quel punto non mi restava che decidere cosa fare. In prigione hai molto tempo per pensare — se le chiacchiere della tua compagna di cella te lo consentono — e io ero combattuta tra due sentimenti: vendicarmi di Michael lasciando che gli eventi facessero il loro corso, oppure dargli una mano in nome dei vecchi tempi.
I vecchi tempi! Ogni volta che ci ripensavo, mi tornava alla mente Henry, il mio secondo marito.

4.
Non amavo Henry. Non si può amare un uomo il cui unico pregio è un titolo nobiliare. Ci si può affezionare forse, come ci si affeziona a uno yorkshire, ma non lo si può amare. Tuttavia non riuscii neppure ad affezionarmi a Henry: un cagnolino ha un istinto innato e riesce ad attirare coccole e attenzioni quasi senza volerlo. Henry invece possedeva la capacità di rendersi odioso in ogni occasione, anche quando tentava di suscitare simpatia.
— Perché hai accettato di sposare quello smidollato?
Michael lo chiese un giorno, dieci anni fa, durante una passeggiata nelle campagne del Berkshire.
— Perché lui me l’ha chiesto, — risposi mostrandogli l’anello di fidanzamento che portavo al dito. Di certo era un antico gioiello di famiglia e risultava odioso come chi me l’aveva regalato, sfacciato e privo d’eleganza, ma era un genere d’anello che neppure George, il mio primo marito, si sarebbe potuto permettere, tanto meno Michael.
— Un titolo vale una vita scialba e vuota? Sai bene che non ti ama veramente, — aggiunse guardandomi con i suoi occhi intensi, — e non potrà mai riuscirci come ti amo io.
Mi afferrò la mano che indossava l’anello. Tentai di divincolarmi ma fu impossibile. Mi trasse a sé con violenza e io mi arresi, quindi posò le labbra sulle mie. Erano morbide e calde. Il bacio durò un’eternità e mi fece innamorare di lui, o almeno così credetti allora. Tutto ciò avveniva dieci anni fa, ma adesso era acqua passata.
Nonostante quel bacio e i mesi di fuoco che seguirono, sposai ugualmente Henry. Il suo titolo nobiliare non era sufficiente perché riuscissi ad amarlo, ma a farmelo sposare sì. D’altra parte era un bel salto nella scala sociale per un’orfana che invece delle bambole aveva avuto per balocchi i residuati bellici del nonno sergente. E poi faceva tutto parte di un mio piano.
Seduta sul letto della cella mi ricordai d’una sera di settembre. Il sole stava tramontando dietro l’alta siepe che circondava la nostra abitazione di campagna nei pressi di Reading. Henry era seduto nel soggiorno accanto al caminetto e stava caricando la sua pipa; faticava più del solito nello stipare il tabacco nel fornello e la pipa gli cadde.
— Cosa c’è, caro? Ti posso aiutare?
Il suo sguardo appariva sperduto come quello d’uno yorkshire impaurito.
— Sì, cara, ti prego. Non so cosa mi prende in questi giorni.
— Sei solo stanco. Hai lavorato troppo in giardino.
Raccolsi la pipa, la caricai e gliela porsi.
Dopo cena gli portai la solita tisana a letto e si addormentò. Non si svegliò più.

5.
Le compagne di cella possono essere fastidiose, ma la vita della prigione è scandita sempre dagli stessi ritmi e, alla lunga, la noia rischia di farti impazzire, perciò anche la conversazione di un’oca petulante può essere utile per spezzare la monotonia.
Susan era più stupida d’una gallina, ma sapeva tutto della vita dei divi di Hollywood e non c’è nulla di meglio per svuotare la mente e rilassarsi che sentir parlare di gente di cui non t’importa nulla, di matrimoni, di tradimenti, di divorzi, di abiti eleganti e di serate di gala. Per il resto, Susan non era per niente permalosa e la sua curiosità le faceva sorvolare qualunque screzio ci potesse essere tra di noi.
— Jackie, non mi hai più detto chi ti è venuto a trovare ieri.
Questa fu la sua prima frase di quella mattina.
— Era Michael, — risposi senza far più alcuna resistenza.
— Quel Michael?
— Sì.
— E cosa voleva?
— Denaro.
— Gli uomini sono tutti uguali, — disse Susan, — vogliono sempre qualcosa, e finiamo puntualmente per dargliela.
— Questa volta non ha avuto nulla.
— Ben gli sta. Non doveva piantarti a quel modo, dopo quello che avevi fatto per lui.
— Non ho ucciso mio marito per lui. L’ho avvelenato perché l’odiavo.
— Lui però si è dileguato subito, non appena sono nati i primi sospetti.
— Sì, come un coniglio.
— Mai più un biglietto...
— Come se per lui fossi morta.
— Non si è neppure interessato ai gioielli...
— Ne dubito, ma non può averli trovati: li ho nascosti bene. Ora però gli farebbero comodo.
Susan continuò petulante a parlare dell’ingratitudine degli uomini. Io intanto riflettevo e alla fine conclusi che la vendetta del Macellaio non mi sarebbe bastata, senza contare che Michael avrebbe potuto fuggire ed evitarla. Avevo aspettato tanto tempo, avevo temuto che non mi si sarebbe più presentata l’occasione per fargliela pagare, ma dopo otto anni, inaspettata, mi era stata servita su un piatto d’argento. Era un segno del destino.
— Susan, — dissi interrompendola, — puoi far avere un biglietto al solito inserviente? Digli che ci sarà una buona mancia se lo recapita con discrezione.
— Certo, Jackie, — rispose.
Presi un pezzo di carta e scrissi: “Amore, perdonami. Ciò che ti serve è nelle tasche di George”.
Poi piegai il biglietto e lo indirizzai a Michael.

6.
Non amavo George. Non si può amare un uomo il cui unico pregio è un cospicuo conto in banca. Nonostante ciò, lo sposai. Era l’unico cliente del locale di Tom Wilcox che pensasse che col denaro si potesse comprare davvero tutto, anche l’amore di una bella donna, e che avesse davvero abbastanza soldi per ritenerlo possibile. E io feci di tutto per farglielo credere: volevo a tutti i costi lasciarmi alle spalle Tom e il suo night club.
Ricordo una mattina d’inverno. George si era alzato come al solito per recarsi al lavoro e occuparsi dei suoi affari. Era in bagno e stava facendo una doccia per levarsi di dosso il sudore della notte, il sudore di cui sentivo ancora il puzzo su di me mentre aspettavo sveglia sotto le coperte.
Fu questione di un attimo: ebbe un capogiro, scivolò e batté la testa. Il medico legale non sospettò nulla. La cosa che mi sorprese, anni dopo, è che non sorsero sospetti neppure dopo la vicenda di Henry e lo scalpore del processo che ne seguì. Forse qualcuno li ebbe, ma nessuno pensò di riesumarne il cadavere: George rimase nella sua tomba indisturbato.
Mi torna in mente quel suo aspetto così sicuro di sé nella bara, durante l’estremo saluto. Faceva freddo. Indossavo un abito scuro con le mani protette da un manicotto di pelliccia. Piangevo in disparte, mentre i suoi parenti mi osservavano con disprezzo: la giovane moglie del loro congiunto che avrebbe ereditato una parte del cospicuo conto in banca.
Poco prima che chiudessero la bara, chiesi d’avvicinarmi a lui per dargli un ultimo bacio. Posai le labbra sulla sua bocca fredda e gli misi, non vista, una mano nella tasca sinistra del suo abito migliore. Non potevo rischiare che con un’eventuale autopsia si potesse scoprire ciò che era veramente avvenuto.
— Dormi? — chiese Susan dalla branda superiore del letto a castello.
Era notte fonda, ma ero troppo agitata per dormire.
— No.
— A cosa pensi?
— Penso a Michael.
— Di’ la verità: dopo tanto tempo, lo ami ancora?
— Non amo Michael e non l’ho mai davvero amato. Forse sono stata infatuata di lui per un po’, ma non si può amare un uomo il cui unico pregio è quello d’essere bravo a letto.
— Io potrei, — disse Susan sognante.
Mi rimisi d’impegno per addormentarmi, ma mi tornava con insistenza un’immagine in mente.
Vedevo George disteso nella bara, come se dormisse, col suo aspetto sicuro di sé e il suo abito migliore. Nottetempo qualcuno avrebbe violato la tomba di famiglia e disturbato il suo sonno. Il coperchio della bara sarebbe saltato a furia di robusti colpi di scalpello e alla fine il cadavere sarebbe apparso nella sua macabra realtà, corrotto dal tempo. Vincendo il ribrezzo, un paio di mani tremanti dalle nocche callose avrebbero frugato nelle tasche della salma. Ne sarebbe uscito un fagotto, con qualche fatica, come se qualcosa lo tenesse legato. Dopo un altro piccolo sforzo, un anello metallico sarebbe stato strappato dal fagotto e nella semioscurità, alla luce d’una torcia, Michael avrebbe visto, stretta nel suo pugno, una bomba a mano innescata.
Quell'ordigno era uno degli ultimi ricordi che mi erano rimasti del nonno sergente. Non potevo correre il rischio che una riesumazione svelasse ciò che avevo fatto e pensai che, nell'eventualità, una bomba avrebbe spazzato via gran parte delle tracce.
Non so se avessi ragione o meno, ma quella notte immaginai l’esplosione più e più volte, e dopo ogni detonazione mi figuravo i corpi dilaniati.
— No, non si può amare, — farfugliai poco prima d’addormentarmi. Susan non sentì, russava già da tempo.

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