sabato 2 marzo 2013

Little Boy

Fantascienza, 12600 caratteri, versione 1.2


LITTLE BOY
di
Leonardo Boselli


Hiroshima, 6 agosto 1945 ore 8.00
Tre aeroplani americani volavano nel cielo del Giappone e si stavano avvicinando al loro obbiettivo secondario, la città di Hiroshima, perché il bersaglio primario, la città di Kokura, era al riparo di uno spesso strato di nuvole.
Nessuno saprà mai quale farfalla, a migliaia di chilometri di distanza, con il suo battito d’ali, abbia determinato il clima giapponese in quella calda giornata d’agosto, e neppure quale catena d’eventi fosse stata necessaria perché 80 mila persone inconsapevoli stessero per perdere la vita in un istante. Il loro dramma però si stava per consumare, inesorabile.
I radar della contraerea giapponese rilevarono l’intrusione, ma l’allarme non venne dato: quale pericolo poteva costituire una coppia di bombardieri accompagnati da un ricognitore? Non c’era abbastanza carburante per contrastare incursioni così poco rilevanti.
Invece il B-29 Enola Gay trasportava un terribile carico di morte: Little Boy, il “ragazzino”, una bomba atomica, la prima nella storia che stesse per essere utilizzata su un bersaglio operativo. Si trattava di un ordigno lungo tre metri, di settanta centimetri di diametro, pesante quattro tonnellate. In quel metro cubo scarso di volume era stipata la potenza distruttiva di 13 chilotoni di TNT, cioè 13 milioni di chili di tritolo. Pochi avevano idea di cosa fosse una bomba atomica, ma presto in molti ne avrebbero sperimentato gli effetti sulla loro pelle.
Alle otto e un quarto, l’ordigno venne sganciato sul centro della città. Subito il B-29 scartò dalla sua rotta per acquistare velocità e allontanarsi in fretta.
La bomba raggiunse i 580 metri d’altezza e il sensore di pressione decise che era giunto il momento di scatenare l’inferno.
Kenichi Morita aveva dieci anni. Quel giorno era malato e riposava a letto nella sua stanza. All’improvviso vide un bagliore insopportabile, che i suoi occhi non riuscivano a sostenere. Si alzò a fatica, curioso di capire cosa stesse succedendo, quando percepì un poderoso boato accompagnato da uno spostamento d’aria che frantumò porte e finestre e sconquassò le pareti. Correndo sui vetri infranti, con pezzi di muro che ancora gli cadevano addosso, uscì dall’abitazione e salì su un luogo elevato: di fronte a lui una mostruosa colonna di fuoco, polvere e detriti si innalzava per chilometri, mentre al posto della città, rasa al suolo da un vento devastante, non restava che una distesa desolata di cenere.
Ma quello spettacolo sconvolgente non era nulla rispetto a quello che Kenichi vide nei giorni seguenti. Un’immagine in particolare lo colpì e l’avrebbe perseguitato per il resto della vita: una piccola creatura umana, non riusciva a capire se fosse una bambina o un bambino a causa delle piaghe dovute alle ustioni, si contorceva per il dolore soffrendo terribilmente accanto ad altri sopravvissuti. Fu allora che giurò a se stesso che avrebbe impedito con tutte le sue forze e le sue capacità che potesse ancora ripetersi quell’immane tragedia.

Kyoto, 14 aprile 2013 ore 16.15
«Cerco il professor Morita».
Un ragazzo molto ossequioso era appena entrato nell’aula magna della facoltà. Si chiamava Akio Konishi, un giovane studente di fisica proveniente da Tokio, come testimoniava lo stemma cucito sulla sua giacca.
«Sono io» disse un vecchio che stava scrivendo su una lavagna luminosa, mentre fumava avidamente un sigaro. Aveva 78 anni, ma ne dimostrava molti di più. Le rughe gli solcavano il volto e sembrava le si potesse contare, come si contano gli anelli dei tronchi degli alberi per determinarne l’età.
«Tu devi essere Akio» disse. Poi aggiunse: «Il professor Tomonaga mi ha parlato molto bene di te. E così vuoi immolarti per il bene della scienza?»
Il ragazzo rimase sorpreso da quella domanda e disse: «No, professore. Io sto cercando solo una tesi interessante».
Dopo quella risposta, passarono alcuni secondi di silenzio, poi i due scoppiarono a ridere.
«Sì, stai solo cercando una tesi», riprese Morita, «ma ci sono settori di ricerca che richiedono dedizione assoluta. Un esempio? La gravità quantistica, e la tesi riguarda proprio questa branca della fisica».
«È certamente un argomento interessante, ma sto valutando altre proposte. Le ricerche sui materiali superconduttori a elevate temperature sembrano promettere sbocchi lavorativi più interessanti».
«È per questo che ho chiesto a Tomonaga di farti venire qui. Ho bisogno delle competenze sui superconduttori che avete sviluppato a Tokio per realizzare un progetto a cui sto lavorando da molto tempo, da tutta una vita».
Akio sembrò impressionato. «Se lei ha speso una vita su un’ idea... beh, dev’essere di certo interessante. Accetto la tesi, ma ho una domanda».
Il professor Morita non disse nulla, attese solamente che il ragazzo formulasse il suo dubbio.
«Cosa significa il titolo: “Applicazioni dell’effetto tunnel quantistico ai vortici spaziotemporali”?»
«Lo saprai presto» disse laconicamente il professore, mentre raccoglieva una pila di volumi e fascicoli e li depositava sulle braccia dello studente, quindi concluse dicendo: «Studiali e domattina ne riparliamo», poi gli augurò di passare una buona serata.

Antartide, 27 luglio 2015 ore 10.30
La stazione meteorologica Asuka si trova a un’altitudine di 930 metri lungo la costa della principessa Ragnhild in Antartide. Abbandonata dai giapponesi alla fine degli anni ‘80, era stata riaperta da qualche mese per effettuare ricerche sul paleoclima della regione.
Akio osservava attraverso il vetro incrostato di ghiaccio la tremenda tormenta di neve che si stava scatenando fuori dal capannone del laboratorio, nell’oscurità della notte australe.
“Nessun carotaggio neppure oggi” pensò, mentre si soffiava il naso raffreddato.
Quando il professor Morita gli aveva detto che si sarebbe immolato per il bene della scienza, non gli aveva creduto, ma passare l’estate nell’inverno australe era quanto di più vicino a un sacrificio sull’altare della fisica potesse immaginare.
“Perché poi si è ostinato a voler costruire il laboratorio in questo posto dimenticato da Dio, lo sa soltanto lui... o forse neppure lui. Sarà un segno di demenza incipiente?”
Il giovane si poneva tutte queste domande, ma non osava formularle al professore: nonostante i dubbi, doveva avere di certo le sue buone ragioni.
All’interno del laboratorio la temperatura era confortevole, ma quando la sera prima i gruppi elettrogeni erano entrati in avaria per qualche ora, lui e il professore avevano dovuto indossare le pesanti tute di sopravvivenza e riparare il motore a una temperatura di decine di gradi sotto zero.
Dopo aver rabbrividito ancora una volta guardando fuori dalla finestra, Akio tornò al lavoro. Ormai l’apparecchiatura era terminata. Non restava che l’ultima messa a punto. I circuiti che regolavano le correnti superconduttrici funzionavano a pieno regime e tutti i sensori indicavano valori nella norma.
Il ragazzo strinse ancora alcuni cavi della “macchina”, come abitualmente la chiamavano, e quando ebbe terminato, il professor Morita, con un senso di intimo compiacimento, annunciò a se stesso e all’allievo: «Tanti anni di lunghi studi e intense sperimentazioni stanno per dare i loro frutti. Iniziamo il primo test».
L’apparecchiatura era un’enorme sfera di cinque metri di diametro alloggiata all’interno del capannone. Attorno a essa, lungo varie sezioni, si avvolgevano spessi cavi raffreddati a elio e azoto liquido, i cui vapori fuoriuscivano da varie aperture. La sua costruzione aveva richiesto parecchi mesi, ma adesso tutto era pronto e la squadra di ingegneri che aveva condotto i lavori di installazione era già ripartita per il Giappone.
«Akio, siamo pronti?»
Lo studente controllò ancora una volta i parametri della struttura, mentre il vento fischiava e il capannone scricchiolava in modo preoccupante sotto i colpi della tormenta.
«Tutto nella norma. Possiamo iniziare».
Il professore inserì una serie di coordinate nel computer, dopodiché iniziò il conto alla rovescia, mentre la “macchina” assorbiva energia dai potenti gruppi elettrogeni di supporto.
I due ricercatori indossarono le cuffie e gli occhiali protettivi, perché le vibrazioni e i sibili prodotti divennero presto intollerabili.
A un tratto, dopo un ultimo potente schiocco, l’apparecchiatura cessò di funzionare.
Il professore tremava come un bambino per l’eccitazione, spinse Akio di lato, apri lo sportello per l’ispezione ed entrò all’interno della sfera. Mentre i vapori dell’azoto liquido si dissolvevano, Morita uscì trionfante reggendo in mano un sigaro.
«Ha funzionato! Avevo fumato questo sigaro il giorno prima di partire, l’avevo consumato, pestate le ceneri e riposto il tutto in una scatola a perfetta tenuta stagna. Prima però avevo annotato con precisione un istante spaziotemporale in cui il sigaro era ancora integro. Ora è qui nelle mie mani».
Dopo qualche minuto giunse un messaggio sorprendente da Kyoto: la scatola che conteneva le ceneri del sigaro era ancora piena.
«È incredibile», si limitò ad affermare Akio, che da quando aveva conosciuto il professore trovava che poche cose potessero essere davvero ritenute incredibili. «Da dove è arrivato il sigaro? Le ceneri ci sono ancora, mentre avrebbero dovuto sparire».
«Non so rispondere» disse Morita perplesso, «se fosse stato prelevato dalla nostra linea d’universo spaziotemporale, le ceneri...», ma si interruppe pronunciando quelle parole e si rattristò.
Akio capì. «La “macchina” deve aver generato una linea d’universo alternativa, perché la nostra potesse continuare a esistere».
Il tunnel gravitazionale prodotto dall’apparecchiatura aveva collegato due volumi distanti dello spaziotempo scambiandone i contenuti, ma la realtà attuale non aveva sperimentato questo scambio nel passato e di conseguenza il sigaro del professore era stata sottratto, nel punto in cui l’aveva collocato, a un altro se stesso, e quel Morita alternativo ne avrà di certo dovuto trovare un altro per effettuare il suo esperimento.
Il professore era giunto alla stessa conclusione. Lo scopo di una vita era andato in fumo, come il sigaro. Lui avrebbe voluto influire sulla sua realtà, ma l’esperimento dimostrava l’impossibilità di farlo. Dopo un’attenta riflessione concluse che forse era meglio così: questo mondo avrebbe continuato a ricordare il suo passato, ma ci sarebbe stato almeno un altro universo in cui le cose sarebbero andate per il verso giusto.

Antartide, 6 agosto 2015 ore 8.10
Il professore dettava il suo diario al computer: «Test numero 42. Tutti i ricercatori e gli ingegneri sono partiti ieri. Conduco personalmente l’esperimento. Ho inserito le coordinate in cui si trovava settant’anni fa l’attuale punto 34°23’07”N 132°27’19”E 852H. Per ora ho ottenuto solo aria. Tra pochi secondi inizia il prossimo trasferimento».
La “macchina” iniziò ad assorbire energia dai gruppi elettrogeni e un vortice gravitazionale cominciò ad aprirsi un varco attraverso lo spaziotempo. Il tunnel piegava la rete di coordinate cercando di raggiungere il punto che era stato impostato nel computer, mentre la frequenza di risonanza delle sue vibrazioni era sintonizzata su un evento ben preciso.
A un tratto, il tunnel si aprì e due porzioni di spazio tempo distanti settant’anni e separate da miliardi di chilometri vennero a coincidere. In quell’istante Little Boy irruppe nella macchina, espellendo nel cielo di Hiroshima l’aria contenuta nella sfera.
In quel momento l’esplosivo d’innesco scagliò le due parti in cui era diviso l’uranio della bomba una contro l’altra e venne raggiunta la massa critica. I neutroni prodotti dalla radioattività naturale iniziarono a colpire nuclei d’uranio, quindi gli urti causavano la scissione di quei nuclei e la produzione di nuovi neutroni, oltre a quantità enormi d’energia, in un’escalation esponenziale incontrollata.
Tutto il processo si svolse in un istante impercettibile e il professore fece solo in tempo a ricordare quel bagliore insopportabile che lo aveva accecato da bambino: la potenza di 13 milioni di chili di tritolo spazzò via in un istante il capannone del laboratorio della base di Asuka, fondendo per centinaia di metri il ghiacciaio, ammutolendo la tormenta di neve e devastando quella zona dell’Antartide per chilometri.
In qualche universo alternativo, il ricognitore che accompagnava Enola Gay non poté fare a meno di constatare il fallimento della missione e a Washington si convinsero che il Giappone doveva essere conquistato con un’invasione, casa per casa. Le stime più ottimistiche relative ai caduti prevedevano centinaia di migliaia di morti da entrambe le parti.

F I N E

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