sabato 2 marzo 2013

Gusci di noce

Thriller, 24K caratteri, versione 1.1


GUSCI DI NOCE
di
Leonardo Boselli


Roma. Una bomba è esplosa alle 23 di ieri notte nel ristorante giapponese “Tokio’s Bay” a Trastevere. Due persone sono rimaste dilaniate a causa dello scoppio e non sono ancora state identificate. Si ritiene che le vittime siano tutte dipendenti del ristorante. Il bilancio avrebbe potuto essere molto più drammatico se non fosse stato il giorno di chiusura del locale. Gli inquirenti stanno valutando tutte le piste, ma è probabile un coinvolgimento della criminalità organizzata, infatti il proprietario del ristorante, Kenichi Inagawa, è sospettato di far parte di una famiglia della Yakuza, la mafia giapponese. L’esplosione potrebbe quindi essere un ulteriore episodio di quella catena di regolamenti di conti tra cosche rivali che ha recentemente insanguinato la capitale.

Mike D’Angelo stava rovistando nel frigo-bar della sua camera d’albergo. Sembrava cercare con la stessa foga di un cane che scava nella terra per recuperare un osso sepolto. Alla fine, senza aver cavato un ragno dal buco, strinse alla vita la cintura dell’accappatoio e sbottò deluso: «È possibile che non sia rimasta neppure una bottiglietta di whisky?»
Andrew Piasecki, che era seduto con le gambe distese sul letto e la schiena appoggiata al cuscino contro la spalliera, rispose: «Stanotte mi sono svegliato con la gola secca».
«Solo una puttana come te poteva bersi l’ultimo whisky di nascosto!» disse Mike, sbattendo con violenza lo sportello del frigo.
«Come siamo permalosi!» replicò Andrew, mentre continuava a limarsi le unghie con noncuranza. «Questa notte mi chiamavi con nomi molto più carini».
Al ricordo della notte precedente, Mike addolcì il tono e si scusò: «Perdonami, amore, ho sete e sono nervoso per il lavoro di stasera. Non capita tutti i giorni la possibilità di potersi ritirare».
«Ti capisco, e lo sai che non potrei mai tenerti il broncio. Per dimostrarti che ti ho perdonato, ti lascio usare il bagno per primo» disse Andrew sorridendo.
Rassicurato, Mike si tolse l’accappatoio, entrò nel box-doccia e aprì il getto d’acqua.
Andrew nel frattempo, posata la limetta sul comodino, si era alzato, aveva estratto una grossa valigia dall’armadio e l’aveva aperta sul letto. Al suo interno c’erano alcune armi da fuoco. Imbracciò un fucile a canne mozze e ne verificò il funzionamento facendo scorrere più volte il meccanismo di carica, poi impugnò una mitraglietta e mirò a se stesso attraverso lo specchio, infine prese una pistola automatica e ne controllò il caricatore.
Soddisfatto dall’efficienza dell’arsenale, commentò: «È un peccato aver portato tutte queste armi e non poterle usare».
«Come dici?» gridò Mike sotto la doccia.
«Nulla», rispose Andrew alzando la voce, «piuttosto, dove hai messo la noce del Farmacista?»
Il compagno chiuse il getto e uscì gocciolante dal bagno, mentre si avvolgeva un asciugamano attorno ai fianchi.
«La noce? Pensavo che l’avessi presa tu!»
«Era compito tuo ritirarla!»
«Amore», disse Mike ridendo, «stavo scherzando».
Quindi infilò una mano in una delle scarpe che aveva riposto in un angolo della stanza e ne estrasse una grossa noce. Dopo averla rigirata fra le dita, la lanciò all’amico che, terrorizzato, l’afferrò al volo.
«E poi la puttana sarei io?» gridò Andrew spaventato. «Il Farmacista ha detto che è delicata!»
«Non preoccuparti, non è così suscettibile. Ora però dobbiamo trovare un posto dove nasconderla».
Dopo aver riposto la noce in una tasca della valigia, Andrew disse: «Dove nasconderla? Beh, non ci vuole molta fantasia», e si infilò nel box-doccia.
Mike aprì le tende e la finestra. Sull’edificio di fronte, proprio sopra l’ingresso della stazione, lesse la scritta “Termini”. Era una magnifica giornata di sole, ma per qualcuno sarebbe stata una delle ultime.

* * *
Il locale di Kenichi Inagawa si chiamava “Hell’s Pleasures”. Era quel genere di bolgia infernale in cui gli uomini amavano perdersi. Se si aveva la fortuna di essere tra gli eletti a cui era consentito l’accesso, si poteva trovare qualunque cosa di cui si avesse bisogno, secondo i propri gusti: dai passatempi più innocenti, come la musica ad alto volume e gli energy drinks, a quelli più trasgressivi, come ogni genere di droga, dalla cocaina alle anfetamine, oltre a donne o uomini disponibili, di ogni genere e rotti a qualunque esperienza. Tutto era accomunato da una certa dose di classe, perché di Inagawa, il cui soprannome era “lo schiaccianoci”, si poteva dire tutto, ma non che fosse privo di gusto.
Il taxi si era appena fermato di fronte all’entrata del locale, dove una lunga fila di persone, vestite alla moda, aspettava il proprio turno per entrare e affrontava il caldo di quella notte estiva con la remota speranza di non essere respinta dai buttafuori. Dal taxi uscirono Mike D’Angelo e Andrew Piasecki.
«Sono 19 euro e 50» disse il tassista.
«Ecco buon uomo e tenga il resto» rispose prodigo Mike, col suo forte accento americano, passandogli 20 euro.
«Grazie, me ce strafogherò» rispose il tassista e se ne andò sgommando, mentre aggiungeva qualche simpatico complimento in romanesco.
Mike diede un’occhiata alla lunga fila e commentò: «C’è molta confusione».
«Meglio così, passeremo inosservati», disse Andrew guardando distratto l’entrata.
Quella coppia era di certo male assortita, e di sicuro nessuno li avrebbe sospettati come corrieri della mafia newyorkese. In piedi sul marciapiede, Andrew indossava un completo pied de poule a tinte pastello in fresco lana. Era più alto del compagno e dimostrava meno dei suoi quarant’anni. Non ostentava la sua avvenenza, ma non passava di certo inosservato. Mike invece, se non fosse stato per le cicatrici sul volto, incidenti del mestiere, e per il suo principe di Galles con foulard di seta, si sarebbe potuto confondere tra la folla.
Uno dei buttafuori all’ingresso, un orientale dal corpo tatuato in modo vistoso, si avvicinò alla coppia e disse: «Mister Piasecki? Da questa parte, il direttore la sta aspettando».
I due si scambiarono uno sguardo stupito: “Non dovevamo passare inosservati?”
Il terzetto entrò da un ingresso laterale evitando la fila di quello principale.
All’interno la temperatura era confortevole. Il buttafuori li perquisì con attenzione. Per essere più comodi, lasciarono le giacche a una guardarobiera dal fisico molto interessante, come si poteva notare sotto la buona volontà di cui era vestita.
L’ampio locale era occupato dalla pista da ballo, illuminata da luci intermittenti e fasci laser, dove si trovava assiepata una folla indistinta di gambe e braccia che si agitavano a tempo di musica. Tutt’intorno si vedevano divani e bassi tavoli su cui era appoggiata un’infinità di bicchieri, riempiti a ciclo continuo dall’isola-bar. Più in alto c’era la postazione dei D.J. e, su cubi distribuiti in tutta la sala, ballavano numerose ragazze che tentavano di tutto per farsi notare.
Il buttafuori attirò l’attenzione di Andrew e gli indicò un privè in un angolo tranquillo del locale, dove avrebbero incontrato Kenichi Inagawa, e iniziò ad attraversare la folla. Percorse la sala incontrando difficoltà solo nel fendere alcuni gruppi di ragazze assatanate. Dopo aver scortato gli ospiti, si avvicinò a un uomo corpulento seduto su un divano e disse laconico: «Sono puliti». Quindi si dileguò.
«Benvenuti! Sedetevi qui accanto a me e prendete da bere. Avrete sete» disse Inagawa, mentre indicava due poltrone intorno a un basso tavolino.
L’aspetto di Inagawa testimoniava senza ombra di dubbio la sua appartenenza alla Yakuza: un elaborato tatuaggio indecifrabile multicolore gli ricopriva le parti del corpo non nascoste dagli abiti risparmiando solo il volto, e la mano che reggeva il bicchiere era quasi priva del mignolo. Il boss doveva aver dimostrato in passato la propria fedeltà al suo oyabun, sacrificando con coraggio un paio di falangi, ma ormai quel tempo era trascorso e ora erano i suoi kobun a regalargli i propri mignoli.
Inagawa era seduto tra due ragazze, una asiatica e l’altra con tutta probabilità dell’Europa dell’est, che si comportavano con lui con estrema familiarità, per non dire con spudorata intimità. Non si sarebbe detto che il boss avesse già sessant’anni, perché in quel contesto dimostrava la vitalità di un ventenne.
«Bene, passiamo alle presentazioni» disse il giapponese stringendo la mano ai due ospiti, senza fare alcun cenno d’alzarsi. «Io sono Kenichi e so chi sono. Voi invece chi siete?»
«Io sono Andrew Piasecki della famiglia Buonocore, mentre lui è Mike D’Angelo, uno dei miei uomini».
«Piasecki?» disse Inagawa. «Devi essere d’origine polacca».
Poi osservando le cicatrici sul volto di Mike, disse a Andrew: «Sai cosa si dice dalle mie parti? Se hai bisogno di uno che ti guardi le spalle, non assoldare un uomo con le cicatrici, ma assumi quello che gliele ha fatte!» e concluse con una sonora risata.
Mike, che non sopportava di essere preso in giro, si dimenticò di dover restare in silenzio e replicò: «È difficile assumere l’uomo che mi ha fatto queste cicatrici: è morto».
«Ehi, sa anche parlare. Non è facile trovare dei gorilla che sappiano parlare al giorno d’oggi!»
Inagawa disse quest’ultima battuta ad alta voce affinché gli ospiti nei tavoli vicini sentissero, nonostante la musica ad alto volume, e tutti risero di gusto, tranne Mike. Poi il boss con un gesto fece portare da bere.
«Questi drink li dovete proprio provare. È il cocktail della serata. Non so cosa ci abbia messo dentro il barman, ma quel filippino è un mago: i suoi intrugli farebbero resuscitare un morto. Dopo ordinate quello che volete, ma questi li dovete provare. Poi chiedete e vi sarà dato» aggiunse ridendo. «Volete sniffare? Ho ottima roba! Scegliete pure le ragazze che preferite, per due ospiti di riguardo come voi, offre la casa». Poi, dopo aver osservato i due amici più attentamente, si corresse: «O forse preferite i ragazzi?»
Andrew lo interruppe dicendo: «Non siamo qui per divertirci, ma per parlare d’affari».
«Certo! Voi americani siete concreti, puntate subito al sodo, mai confondere affari e piacere. Ma per me è diverso, per noi giapponesi è diverso. Per troppo tempo ci siamo dimenticati perché lavoriamo o facciamo affari, ma ora lo sappiamo: per permetterci tutto questo, il piacere, la felicità. Cosa dice la vostra Dichiarazione d’Indipendenza? Che ogni uomo ha diritto al perseguimento della felicità? La felicità non è un diritto, nessuno te la regala, ma te la devi guadagnare, e guadagnare a caro prezzo. Per questo bisogna ricordare il motivo per cui lavoriamo tanto duramente, soprattutto quando per la felicità si mette in gioco la vita».
«Che cos’è la felicità?» chiese Andrew, che nel frattempo aveva scrutato Inagawa e soppesato ogni sua parola.
«Cos’è la felicità? Tu mi chiedi cos’è la felicità?» chiese a sua volta il giapponese ridendo. Mentre rideva strinse a sé le due ragazze che ricambiarono con prontezza.
Quindi sentenziò: «La felicità è essere liberi, poter fare tutto ciò che si vuole, quando si vuole e con chi si vuole. Ma ora parliamo d’affari».
Così dicendo divenne finalmente serio e con un cenno congedò le due ragazze che si allontanarono e si persero tra la folla che ballava al centro della sala.
Andrew chiese: «Qui possiamo parlare liberamente?»
«In mezzo alla confusione di questa musica ci sentiamo a stento e poi faccio bonificare il locale ogni mattina, infatti mi stupirei se in questo momento non ci fossero agenti della DIA là in pista che fingono di divertirsi, o forse si divertono davvero» concluse il boss ridendo.
«Allora ecco uno dei pezzi che dovevamo consegnare» disse Andrew reggendo tra pollice e indice una schedina di memoria. «Sono faccende delicate e vanno condotte di persona».
Inagawa disse ammirato: «L’hai portata con te senza alcuna precauzione! Evidentemente ritieni che tra uomini d’affari ci si possa fidare, ma non ti dispiacerà se ne verifico il contenuto», e con un cenno richiamò l’attenzione di un tale che era stato fino a quel momento in disparte.
Quell’uomo non poteva passare inosservato in quell’ambiente: era il classico pesce fuor d’acqua, con barba e capelli lunghi, jeans sdruciti e maglietta dell’UCLA, gli mancavano solo i sandali e sarebbe stato il perfetto stereotipo di se stesso. Prese con sicurezza la schedina dalle mani di Andrew e la inserì nel suo moderno smartphone.
«La parola d’accesso è ‘blackdeath’ minuscolo e tutto attaccato» rivelò Andrew.
L’uomo con dispetto affermò: «Una password così semplice l’avrei individuata in meno di cinque minuti».
L’hacker armeggiò a lungo con i pollici sul touch screen e nel frattempo pronunciava estasiato termini tecnici incomprensibili. Sullo schermo venivano visualizzati genomi sequenziati, strutture proteiche, formule chimiche, progetti di macchinari e di impianti industriali.
Dopo qualche minuto di tensione, disse: «Ci vorranno settimane per decifrare tutti questi giga, ma da quel poco che ho verificato corrispondono a ciò che era stato concordato. È del tutto inutile, però, senza la seconda parte».
Inagawa era entusiasta: «Molto bene! È un piacere fare affari con te e non ti chiederò come hai fatto a entrare in possesso di questo materiale. Secondo il vostro governo questi progetti non esistono, ma ora il segreto sarà custodito anche dal cartello che rappresento. Quando la seconda schedina sarà nelle mie mani, trasferirò quanto pattuito su un conto di tua scelta».
Andrew disse: «Il prezzo però è aumentato. Questo è materiale di prim’ordine e ai miei capi sembra giusto alzare la posta: 3 milioni di dollari, e in contanti».
«Contanti al giorno d’oggi! Vivete ancora nel XX secolo? Ma sia come vuoi, non mercanteggerò con te. Se è quello che chiedi, è quello che avrai, e vada anche per i contanti. Però permettimi di fissare almeno il luogo dell’ultimo scambio: il “Tokio’s Bay”. È un mio ristorante qui in città, a Trastevere. Te lo consiglio, si mangia bene. Domani sera è chiuso e potremo concludere il nostro affare in tutta tranquillità. Ti invito a cena per le 22».
Inagawa poi continuò con un tono che dimostrava vero interesse. «Una cosa però non capisco. Pensavo che voi gangsters americani foste patriottici. Ho faticato parecchio a trovare qualcuno che mi procurasse questo materiale, è roba che scotta e se finisse nelle mani sbagliate potrebbe procurare non pochi problemi al tuo paese».
«Sono certo che tu avresti fatto la stessa cosa per me» rispose Andrew.
«Se pensi questo, non hai capito nulla di Kenichi» disse il giapponese. «Io e te siamo molto diversi».
Andrew replicò divertito: «A me sembra che lavoriamo entrambi nello stesso ramo».
Inagawa rimase in silenzio per un attimo. Prese lo schiaccianoci che aveva sul tavolo e, con un colpo secco, frantumò una grossa noce, gettò il guscio e ne masticò il gheriglio.
Il boss si dimostrò molto meno affabile di com’era all’inizio del colloquio e così spiegò il suo punto di vista apertamente, come se quello della sera successiva fosse stato l’ultimo affare che avrebbero concluso insieme: «Vedi, come ho già detto, io e te siamo molto diversi. Tutti i miei affari, di qualunque genere siano, si svolgono con il tacito consenso del mio governo, invece i tuoi sono contro il tuo governo. Io lavoro per uno scopo. Sono partito dal basso, devo emergere e sto costruendo qualcosa. Tu invece hai ereditato ciò che possiedi, cerchi solo di conservarlo e vivi di rendita. Forse è per questo che non ti sai godere ciò che hai».
«Ora sei tu a non aver capito nulla di me. Diventare quello che sono mi è costato molto» disse Andrew, «e ti stupiresti nel sapere quanto anch’io faccia affari con gli uomini che rappresentano il mio governo».
Il giapponese allora continuò, come un fiume in piena: «La mia padronanza della lingua è scarsa e devo spiegarmi meglio. Voi americani della mafia d’origine italiana vi siete dati da fare per arricchirvi, ma dopo esservi dimenticati di aver avuto la pancia vuota, vi siete imborghesiti e avete perso le palle. Ora pensate solo alla famiglia. Bisogna avere fame per afferrare il potere e tenerlo per i testicoli. Per questo cinesi, russi, sudamericani vi stanno togliendo quote di mercato: hanno più attributi di voi!»
«Mi sembra che tu abbia espresso il concetto in modo molto chiaro» disse Andrew. «Io, però, sono d’origine italiana solo per metà».
«Già! Per l’altra metà sei polacco» aggiunse con disprezzo Inagawa.
Poi, ad alta voce per farsi sentire nella confusione, rivolto ad alcuni ospiti seduti poco lontano, disse: «In America si raccontano tante barzellette divertenti sui polacchi. Sentite questa: un uomo entra in un bar e chiede al barista: “La sai l’ultima sui polacchi?”, allora il barista gli risponde: “No, ma devi sapere che io sono polacco” e l’uomo dice: “Non c’è problema, parlerò lentamente.”»
Tutti quelli che erano a portata di voce e che, nonostante il rumore, avevano potuto ascoltare, risero compiacenti. Anche Andrew rise, mentre Inagawa gli rivolgeva uno sguardo beffardo.
«Davvero divertente» disse Mike, che aveva taciuto tutto il tempo, e aggiunse: «Io ti posso raccontare questa sui giapponesi: due giapponesi parlano di un loro amico emigrato in America: “Hai saputo di Tanaka? Dopo solo un anno ha aperto una gioielleria”, l’altro stupito chiede: “E come ha fatto?” e il primo gli risponde: “Ha usato un piede di porco!”»
Quindi i due compagni si alzarono, tra gli ospiti raggelati che fissavano Inagawa, e Andrew andandosene disse: «Penso che a questo punto sia ora di andare. A domani sera».
Mentre si allontanava tra la folla che ballava al ritmo martellante della musica, Andrew poteva sentire ancora le risate del giapponese. Lo immaginava di nuovo circondato da ragazze, mentre si preparava una pista di cocaina e assaporava il cocktail della serata, reggendo il bicchiere con le sue quattro dita. Nel frattempo pensava: “Sono contento che tu sia felice, Kenichi. Goditi i piaceri della vita, finché puoi. La vita è così breve...”

* * *
Il ristorante di Inagawa, il “Tokio’s Bay”, si trovava in una traversa sul Lungotevere. Ci volle una buona mezz’ora per raggiungerlo con un’auto a noleggio. Andrew ebbe tutto il tempo per riflettere su come comportarsi e, mentre pensava, giocava con la grossa noce del Farmacista, la lanciava e la riprendeva, la faceva rotolare sul dorso della mano e l’afferrava al volo. Mike, che guidava, osservava la scena perplesso.
«Non preoccuparti, è tutto sotto controllo» disse Andrew ridendo. «Mi hai detto tu che non è troppo suscettibile».
«Ne sono certo, ma come pensi di portarla all’interno del locale? Di sicuro gli uomini di Inagawa ti perquisiranno con molta attenzione, e la noce è bella grossa».
«Non lo so ancora, ma come ti ho detto, è tutto sotto controllo. Nel locale mi fermerò un quarto d’ora al massimo. Aspettami col motore acceso poco lontano dall’ingresso del ristorante, ma non farti notare dagli uomini della sorveglianza».
Mike annuì. Era più tranquillo ora che la noce era stata riposta nella tasca interna della giacca, ma Andrew stava pensando a un posto più sicuro dove custodirla. Anche la scheda di memoria avrebbe dovuto essere nascosta, altrimenti di certo non gli avrebbero dato il denaro, se ne fossero entrati subito in possesso. Nasconderla: sì, ma dove? Ad Andrew venne in mente un solo posto.
Dopo aver percorso ancora un bel tratto, Mike si fermò davanti all’entrata del ristorante. Era la serata di chiusura, ma la luce che filtrava faceva capire che all’interno c’era movimento. I due gorilla in attesa all’esterno, due giapponesi robusti e tatuati, aprirono la porta e invitarono Andrew a entrare. Uno dei due lo seguì e si prese la giacca, mentre altre due guardie del corpo iniziarono l’opera di perquisizione: uno con un metal-detector portatile, l’altro, più sbrigativo, a mani nude.
Intanto due persone, sedute a un tavolo appartato in fondo al locale, erano in paziente attesa. Il ristorante era arredato in modo tradizionale ed era accogliente, un tipico ristorante giapponese, anche se in piena Roma. D’altra parte, di Inagawa tutto si poteva dire, ma non che fosse privo di gusto, o che non avesse a libro paga dei bravi arredatori.
Come risultato dell’operazione, addosso ad Andrew non fu trovato nulla.
Al tavolo appartato erano seduti due uomini, Kenichi Inagawa e un giovane orientale. Completavano il quadro alcune guardie del corpo assortite in un tavolo separato e due camerieri in livrea bianca.
Il giapponese tese la mano ad Andrew e quella stretta terminò in una morsa. Fu evidente il fatto che il soprannome di “schiaccianoci” non gli era stato affibbiato solo per la sua nota passione per le noci.
Inagawa, senza presentare l’altro ospite, disse: «Mio caro Andrew, spero che il mio humor di ieri notte non abbia contrariato te, come invece ha offeso il tuo amico. Sai, a volte mi lascio trascinare e dico quello che non penso. Ma ora ceniamo. Si ragiona meglio dopo aver bevuto un tazza di buon sake».
«Io preferirei concludere subito l’affare».
«Come sei impaziente, non sai goderti la vita! Ma sia come vuoi» e, detto questo, fece cenno a una delle guardie del corpo di portargli una valigia. All’interno c’erano i 3 milioni di dollari che, pur suddivisi in banconote di grosso taglio, occupavano un volume notevole. Andrew fece un rapido conto: c’era tutto.
«Sarai contento. Ora dov’è la seconda schedina di memoria? Mi aspettavo che tu non la portassi addosso. Per quanto piccola, non sarebbe sfuggita ai miei uomini durante la perquisizione a cui ti hanno sottoposto».
Andrew si alzò e disse: «Se non ti dispiace, vado un attimo in bagno e la recupero».
I presenti, dopo un attimo di perplessità, si guardarono e risero di gusto.
Al ritorno diede la schedina a uno dei gorilla che la prese in consegna adottando le necessarie precauzioni.
«L’esperto ne controllerà il contenuto, ma sono certo di non dovermi aspettare delle sorprese da te. Però siediti un attimo, assaggia un po’ di sushi».
Nel frattempo i camerieri avevano portato del cibo al tavolo. Misero anche un cestino di noci della California di fronte a Inagawa, che nella concitazione del momento non ci fece caso.
Andrew si sedette con la valigia al fianco e disse: «Una noce l’assaggio volentieri», quindi allungò una mano prendendone una dal cestino, mentre, non visto, ne lasciava cadere un’altra. Poi, frantumando la noce, aggiunse: «Non mi hai presentato il tuo ospite. Chi è?»
«Questo è mio figlio. È giovane ma ha già una grande esperienza. Se devo eliminare qualcuno con discrezione, penso subito a lui».
I due giapponesi al tavolo si scambiarono un’occhiata e si lasciarono andare a una grassa risata. Andrew lasciò i pezzi della noce frantumata sulla tovaglia bianca.
Il boss quindi disse: «Se a questo punto ti chiedessi di restituirmi la valigia, cosa mi risponderesti?»
Mentre veniva formulata quella domanda, il giovane giapponese allungò la mano verso il cestino di fronte al padre per prendere a sua volta una noce, quella più grossa che si trovava in cima, ma Inagawa gli bloccò la mano: «No, figlio mio, dovresti saperlo: la noce più grossa spetta a me», e così dicendo la afferrò con avidità.
Nell’auto a noleggio, poco distante dal ristorante, Mike era preoccupato, perché Andrew ci stava mettendo troppo. Avevano architettato quel piano da tempo, lui e il suo compagno. Un ultimo trasporto, il più rischioso, quello che nessun altro aveva accettato, e si sarebbero impossessati di un bel malloppo. Poi sarebbero fuggiti alle Maldive, si sarebbero ritirati in un bulgalow su una spiaggia lontano da tutti, soli col loro amore.
Mentre Mike pensava a tutte queste cose, un forte spostamento d’aria investì improvvisamente l’auto. Un’esplosione aveva frantumato le vetrine del ristorante e lo scoppio aveva buttato a terra i due gorilla appostati all’entrata.
Subito, dalla porta scardinata, saltando gli infissi, uscì un tale correndo. Si riparava la testa con una grossa valigia e indossava un elegante pied de poule a tinte pastello in fresco lana. In un attimo saltò sulla vettura dicendo: «Presto, andiamocene da qui!», e l’auto partì sgommando.
Quando furono lontani, Mike chiese: «È andato tutto bene?»
Andrew, un po’ strinato, rispose: «Sì, ma il Farmacista ha esagerato come al solito».

F I N E

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