sabato 2 marzo 2013

Io rinascerò

Zen, 8727 caratteri, versione 2.0


IO RINASCERÒ
di
Leonardo Boselli


Arrancava un passo dopo l’altro tra gli scheletri degli alberi, flagellato dal vento che soffiava a raffiche e sollevava gelidi mulinelli di neve. I lupi che lo inseguivano da ore non si preoccupavano più di rimanere sottovento; il loro odore si intensificava: lo poteva percepire con chiarezza, acre e selvatico, nell’aria resa pura dal freddo.
Aveva perso molto sangue. I movimenti si erano fatti lenti e ogni passo che affondava nella neve gli provocava dolori lancinanti.
Si guardò intorno. Scrutò tra i rami e i cespugli spogli, avvolti dalla nebbia che aleggiava sulla neve, e all’improvviso, nella penombra del crepuscolo, tra i tronchi in letargo, si delinearono le sagome di un branco di lupi famelici che ansimavano fiutando le tracce. I loro occhi fiammeggiavano nell’oscurità.
Il suo ultimo passo fu artigliato nella morsa gelata della neve fresca e disperò di riuscire a liberarsi ancora una volta.


Il fuoristrada s’inerpicava con rapidità lungo la strada di montagna. Il sergente Wang, un veterano di grande esperienza, si divertiva a scalare le marce e ad affrontare con decisione ogni tornante di quell’interminabile salita, mentre il tenente Xian, un ufficiale di prima nomina, sentiva crescere dentro di sé un forte senso di nausea.
Chiese preoccupato: «Ci vuole ancora molto?»
«No, signor tenente, ormai siamo arrivati».
I boschi della regione erano piuttosto fitti, ma a tratti si aprivano ampie radure illuminate dal sole. Era il luogo ideale per nascondersi e il fuggitivo che stavano inseguendo lo sapeva bene.
Dopo un’ultima serie di curve, il sergente arrestò il veicolo lungo il ciglio della strada, accanto a un cartello che indicava la distanza dal confine di stato, e disse: «Ecco, l’elicottero lo ha perso in questo punto».
Il tenente ne approfittò per scendere e si ritrovò a un passo dal precipizio. Il senso di vertigine che provò nel vedere la parete a picco sotto di sé gli prese lo stomaco e, con un paio di conati, si liberò della colazione del mattino.
«È una vista che toglie il fiato, non è vero?» commentò divertito il sergente, poi estrasse il suo fucile di precisione dal bagagliaio e se lo mise a tracolla.
Il tenente respirò ampie boccate d’aria fresca. Dopo essersi ripreso, imbracciò a sua volta il fucile e seguì il sottufficiale che si era inoltrato nella boscaglia.
«Qui ci sono molte tracce fresche», disse il sergente.
Alcuni rami spezzati segnalavano il passaggio di un uomo, o forse di un animale di grossa taglia, mentre la linfa ancora fresca indicava che la rottura era avvenuta da poco.
In quell’istante un elicottero sorvolò i due militari: stava pattugliando il bosco tra la strada e la linea di confine alla ricerca del fuggitivo.
«Muoviamoci!» ordinò il tenente. «Non deve avere molto vantaggio».
I due soldati seguirono le impronte e, spostandosi di corsa attraverso il fitto sottobosco, raggiunsero una radura. La traccia nell’erba era fin troppo evidente, ma puntava in una direzione sbagliata: non era quella la via più breve per il confine.
Il tenente Xian imbracciò il fucile e, attraverso il mirino telescopico, si mise a osservare con attenzione gli alberi in lontananza, mentre il sottoposto muoveva qualche passo nell’erba alta della radura.
A un tratto il sergente Wang sentì un rumore di vetri infranti sotto l’anfibio destro, si piegò e raccolse un paio d’occhiali rotti. Mentre li provava, disse con soddisfazione: «Non ha scampo. Ora è come cieco!»
Iniziarono a correre seguendo l’erba calpestata e si addentrarono nuovamente nel bosco. Persero le tracce quando giunsero al letto d’un torrente, quindi salirono su uno sperone roccioso da cui si poteva dominare la rada boscaglia. Il tenente si mise a osservare la zona con il binocolo.
«Vede qualcosa, signore?»
«Nulla. È come cercare un ago in un pagliaio».
Poi si fermò e disse: «C’è un grosso cervo che pascola lungo il crinale».
Il sergente imbracciò il fucile e guardò l’animale attraverso il mirino. Era un magnifico esemplare che ruminava tranquillo. I passaggi ripetuti dell’elicottero non sembravano averlo troppo infastidito. Abbassava la testa per strappare con la lingua lunghi ciuffi d’erba e ogni volta la rialzava mostrando fiero un elaborato palco di corna ramificate.
«È davvero una bella bestia. Purtroppo non siamo qui per cacciare, non cervi comunque».
Mentre il tenente pronunciava quelle parole, l’animale voltò di scatto la testa e smise di ruminare, come se avesse avvertito un rumore sospetto, e fissò allarmato un cespuglio che gli era poco distante.
Il sergente cercò in quella direzione e inquadrò un punto tra le frasche dove si notava un lembo di stoffa arancione.
«L’ho trovato!» disse, e aggiunse ironico: «È come se avesse un bersaglio tatuato sul petto».
«Bene! Gli ordini sono chiari: dobbiamo catturarlo vivo o morto».
«Allora non è il caso di correre rischi», concluse il sergente mentre regolava l’alzo della sua arma.
Prese la mira con calma e sparò. Il colpo risuonò per tutta la valle e spaventò il cervo che si addentrò a testa bassa nella boscaglia.
Quando raggiunsero il fuggitivo, ne trovarono il cadavere seduto a gambe incrociate, appoggiato con la schiena a un albero. Indossava il suo abito arancione da monaco, che portava anche in quell’estrema occasione con l’autorevolezza propria di un lama tibetano.
Il tiro era stato preciso: il proiettile lo aveva centrato nel cuore e l’uomo era morto sul colpo. Il tenente Xian gli sollevò la testa e si sorprese nel vedere un volto che appariva sereno.
«Un fanatico di meno», disse il sergente Wang, mentre sistemava gli occhiali rotti sul naso del monaco.
«Beh, secondo il suo credo, non tarderà a reincarnarsi».
«Ma noi saremo ancora qui ad aspettarlo» fu l’ironico commento.
Nel frattempo, dopo aver trovato un angolo più tranquillo, il cervo aveva ripreso a brucare l’erba.

La morsa del gelo, più affilata di una tagliola, gli aveva afferrato le zampe. Urlò la sua impotenza e il bramito giunse lontano. Ne sentì rimbombare l’eco tra le rocce e gli alberi addormentati.
A quel verso i lupi si eccitarono, affondarono il muso nella neve macchiata di sangue, mostrarono le zanne e ringhiarono arruffando il folto pelo della groppa. La loro frenesia raggiunse il parossismo e si avventarono sulle sue zampe posteriori.
Il cervo, scalciando, sollevò nuvole di neve e li respinse, poi compì un ultimo faticoso salto, ruotò la testa e colpì con i suoi poderosi palchi i predatori più imprudenti, che per inesperienza si erano esposti troppo. Un paio di loro si ritirarono: guaivano leccandosi le ferite. Ma fu una vittoria di breve durata, perché presto tornarono all’attacco.
Il capobranco, un enorme lupo dal manto grigio, scatenò i gregari più feroci. Dopo una serie di assalti ripetuti, il cervo fu azzannato al collo e, immobilizzato, si rovesciò nella neve. Le sue zampe scalciavano disperatamente, ma a vuoto.
I canini serrati sulla trachea lo soffocavano; avrebbe voluto reagire ma le forze lo abbandonavano. Si stava arrendendo e mentre la vita lo lasciava, si ricordava di ogni momento trascorso.
Ciò che gli tornava alla mente era sorprendente: dai tristi inverni alla faticosa ricerca del cibo nascosto dalla neve, ai concitati duelli nei prati primaverili per la conquista delle femmine, fino al giorno in cui aveva mosso i primi passi tra le zampe della madre; per poi scoprire memorie cancellate dai decenni e dai secoli, altre vite, vecchi peccati da scontare, remoti desideri da reprimere.
Mentre assisteva alle epoche trascorse, l’esistenza acquistava un nuovo significato e l’estenuante lotta per la sopravvivenza diventava priva di senso. Alla fine decise di arrendersi.
Il capobranco, che vittorioso si era avvicinato al suo muso e aveva scoperto le zanne in quello che poteva sembrare un ghigno di scherno, stupito dalla serenità del cervo, ordinò ai gregari di allentare la presa e chiese: «Non hai paura di morire?»
Sostenuto dalle forze residue, gli rispose che non temeva più la morte e il lupo, incuriosito, gliene domandò il motivo.
«Ho ricordato che nella vita precedente anch’io sono stato un cacciatore e tornerò ad esserlo nella successiva».
Dopo aver risposto, un’ultima illuminazione lo attraversò con un fremito.
«E ora che ti prende?»
«Sono contento, perché ho scoperto che nella prossima vita tu sarai una preda», e avrebbe riso di gusto, se avesse potuto farlo.
In genere i lupi non si lasciano impressionare da dubbi esistenziali: il capobranco, infatti, sembrò divertito dalla rivelazione e, dopo aver soddisfatto la sua curiosità, lasciò che i compagni sbranassero il cervo.
Mentre quel corpo veniva dilaniato, lo spirito l’abbandonò e si mise a cercare un’altra forma da animare per completare il cammino della sua esistenza.


F I N E

0 commenti:

Posta un commento