sabato 2 marzo 2013

L'ultima Odissea

Fantamito, 39880 caratteri, versione 2.0


L’ULTIMA ODISSEA
di
Leonardo Boselli

prologo ed epilogo
di Luigi Bonaro


Quando il banchetto fu portato a compimento, il re colmò di vino la sua coppa e quella della sua sposa, poi convocò a sé il cantore che sino a quell’istante avea solo preso piacere in copiose abbuffate, ebbro di abbondanti libagioni.

«Femio, quale racconto hai in serbo per noi?»

I commensali stavano discorrendo ma si tacquero allorché l’aedo raccolse il suo strumento.

«Mio signore, la storia di questa sera narra di un re.
Ti sembrerà di averla già ascoltata siffatta epopea; ma l’udito non ti sia fallace.
Trattasi di una vicenda che si tesse con altre, delle tante leggende in parte o assai veritiere,
provvida a far scorrere il tempo in compagnia e a rallegrare i cuori nelle gelide e tediose sere.
Ciò non significa che non possa allietare lo spirito o rattristare l’anima; invero, è la storia di un re, una delle tante»

E iniziò, toccando dolcemente la sua cetra.


I rematori vogavano con foga e la nave lasciava dietro di sé una candida scia. Alla loro destra si innalzavano i dirupi rocciosi della costa iberica; a sinistra si scorgevano in lontananza le alte montagne d’Atlante sfumate dalla foschia; di fronte, invece, si poteva ammirare una distesa d’acqua sconfinata: il mare Oceano.
Astore, il nocchiero, regolava il ritmo di voga seduto sul primo banco, mentre Ulisse, l’astuto stratega, scrutava l’orizzonte in silenzio, in piedi sulla prua. Dopo aver fissato con attenzione la linea indistinta tra il cielo e l’Oceano, il re di Itaca si voltò e guardò oltre la poppa, nell’azzurro intenso del mare conosciuto; lo osservò a lungo, come se volesse imprimere nella sua memoria quelle onde familiari che in passato gli avevano strappato tanti compagni d’armi.
A un tratto un’umida folata di vento gli carezzò la barba ormai ingrigita e sollevò dalle sue spalle la folta capigliatura: era il respiro dell’Oceano, la spinta potente che li avrebbe condotti al largo, verso l’orizzonte da cui nessuno era mai tornato.
A un cenno di Ulisse, Astore sollevò il suo remo in verticale e il resto dell’equipaggio ne seguì l’esempio. Li ritirarono negli alloggiamenti e venne sciolta la vela. La tela, su cui era dipinto il volto di Atena, si srotolò per tutta la sua lunghezza e si gonfiò per il forte vento. In quell’istante le sartie che reggevano l’albero maestro si tesero e il fasciame scricchiolò minaccioso, ma presto la chiglia iniziò a fendere l’acqua con decisione. L’Oceano si apriva docile e accogliente al loro passaggio.

* * *
Alcune settimane prima Achétone, re di Corinto, era giunto a Itaca con il suo seguito. Da ormai vent’anni la fama di Ulisse si era diffusa nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale. Le sue imprese venivano narrate dagli aedi in tutte le corti, dall’Anatolia alla Sardegna, e nelle piazze delle città, dall’Egitto fin nel cuore della Macedonia. Lo stesso Ulisse aveva avuto il privilegio di udire le sue gesta cantate nella sua reggia. Aveva riso, mano nella mano con la sua Penelope, nel constatare quanto poco ci fosse di vero in quei racconti, ma aveva anche pianto quando, una dopo l’altra, venivano ricordate le morti dei suoi compagni.
L’arrivo del ricco re di Corinto fu un evento eccezionale per quel popolo di pastori arroccato su un’isoletta sassosa. Ulisse lo accolse come un fratello e ospitò meglio che poté il suo pomposo seguito.
Durante la notte, mentre si svolgeva il banchetto di benvenuto, tra balli e canti festosi, Achétone spiegò il motivo della sua visita. Dopo aver gustato le grosse olive salate di Itaca, prese la parola e, affinché tutti i presenti sentissero, disse ad alta voce: «Ulisse, la tua fraterna ospitalità è seconda solo alla tua astuzia, e l’accoglienza che ci hai riservata è degna della tua fama. Oggi al molo d’attracco mi hai chiesto qual buon vento portasse le mie navi alla porta della tua casa. Ora ti posso rispondere. È stato il vento funesto della guerra. La tempesta, che per dieci anni ha mietuto una generazione di giovani Achei e ha fatto conoscere troppo presto le ombre dell’Ade ai nostri più grandi eroi, è tornata a soffiare con violenza. Un nuovo potente nemico ci minaccia...»
Il re di Itaca interruppe il suo ospite: «So già tutto questo. Telemaco alla testa del nostro piccolo esercito è partito da tempo. Ha risposto con entusiasmo alla chiamata della coalizione e si opporrà con coraggio ai barbari invasori d’oriente. Si farà onore, come già è avvenuto per me in passato».
Ulisse aveva pronunciato quelle parole a bassa voce per non rattristare Penelope. Achétone le ascoltò con attenzione e quindi riprese il suo discorso con meno foga: «Ciò che dici è vero. L’argine è stato approntato. Ma quello che dobbiamo fronteggiare è un esercito immenso. Ormai preme sulle coste dell’Egeo. Le genti di Babilonia, di Persia e i popoli dell’India sono stati spazzati via da questi nuovi e potenti nemici. Ormai le loro orde sono giunte alle nostre porte. Questi spietati barbari dagli occhi a mandorla non rispettano le regole dei popoli civili. Hanno risposto alle offerte d’amicizia restituendoci solo le teste dei nostri ambasciatori. Non sono uomini, sono bestie che ignorano gli dei e le loro leggi. Le nostre sole forze non sono sufficienti a fronteggiarli».
«Cosa vieni a chiedere quindi, oltre a toglierci ogni speranza nel futuro? Io sono vecchio e l’Acaia ha allevato nel suo seno giovani guerrieri più coraggiosi e astuti di me».
Achétone si alzò per dare più forza alle sue parole e disse: «Non sono venuto a tediarti per mio puro capriccio. Ogni regno ha inviato emissari agli oracoli. Io stesso mi sono recato al santuario di Delfi e la sibilla ha sciolto il suo vaticinio; ha profetizzato che sarà la fine della nostra civiltà se l’imperatore di un popolo lontano, che abita al di là del mare Oceano, non riceverà la visita di un nostro ambasciatore».
Ulisse trattenne a stento un sorriso ironico, quindi replicò: «Tu parli di Atlantide, ma la sua esistenza è solo una leggenda inventata dagli aedi per rendere meno noiose le serate d’inverno. Mai nessuno è giunto, a memoria d’uomo, dal mare occidentale».
Il re di Corinto non si perse d’animo e continuò: «Ulisse! Tu non hai udito gli oracoli profetare. Sostengono che solo una leggenda riuscirà ad attraversare quelle acque inviolate da secoli. Quando ormai gli Achei avranno perso ogni speranza e la loro libertà sarà stata calpestata dagli invasori, un uomo porterà a termine il suo lungo viaggio e grazie alla sua astuzia le forze del male si dissolveranno come brina al sole. Quella leggenda, che ha già posto fine con la sua intelligenza a un’interminabile guerra, e ha percorso il Mediterraneo sopravvivendo a ogni avversità, sei tu, o Ulisse. Così ha profetizzato la sibilla. Io lo testimonio: l’ho udita con queste mie orecchie».

* * *
Il sole aveva toccato la linea d’orizzonte e quel primo giorno di navigazione stava per concludersi. La rotta puntava a occidente, verso il tramonto.
«Quanto dovremo navigare ancora?» chiese Astore.
Come tutti gli altri marinai, anche il nocchiero si era offerto volontario, e sapeva bene a cosa andava incontro: morte certa. Eppure tanti avrebbero voluto navigare con Ulisse in quell’impresa, affinché gli aedi pronunciassero nei secoli a venire il loro nome e celebrassero il loro coraggio. Davvero molti erano gli aspiranti, ma c’era posto solo per una squadra di rematori.
La nave era piccola. Con poco carico riusciva a mantenere notevoli velocità e col vento in poppa erano state percorse già molte miglia. Le coste erano scomparse e ora si trovavano isolati in mezzo all’Oceano, diretti verso l’ignoto che aveva inghiottito tanti temerari.
Le settimane passavano e di quel viaggio non si vedeva la fine. Acqua e cielo scorrevano con rapidità, ma apparivano immobili all’equipaggio. Anche le stelle che illuminavano il buio della notte erano sempre le stesse, quelle che vedevano anche dai loro porti sicuri, e la nostalgia della patria faceva sanguinare i loro cuori.
Tutti gli auspici sembravano favorevoli: enormi mostri marini di tanto in tanto accompagnavano la corsa della nave, cantando a festa, e l’Oceano favoriva la navigazione, per nulla turbato dal loro passaggio.
Poi un giorno iniziarono a razionare l’acqua e il cibo. Le distanze previste dall’oracolo erano sbagliate, o era imprecisa la stima del tragitto percorso. Fino ad allora il vento li aveva sostenuti, ma quel pomeriggio cominciò a soffiare in modo irregolare e il sole tramontò dietro una spessa coltre di nubi minacciose.
Il buio più totale li colse impreparati. Cominciò a piovere con intensità e l’Oceano iniziò a ingrossarsi, mentre fulmini fragorosi e accecanti scaricavano il loro furore nell’acqua.
I marinai sacrificarono l’ultima capra a Poseidone, ma egli non diede segno di gradire l’offerta. Pensarono sconfortati che gli aedi li avrebbero celebrati immaginando per loro morti gloriose, tuttavia li aspettava solo l’oblio nelle profondità del mare.
Ulisse ordinò di liberare la nave da ogni inutile zavorra e di legarsi allo scafo. Gridò che le forze oscure del nemico si stavano avventando contro di loro proprio nel momento in cui erano ormai vicini alla meta. Urlò, nel fragore della burrasca, che gli Achei si potevano piegare sotto i colpi della sfortuna, ma le avversità non li avrebbero mai spezzati. Quelle parole rincuorarono gli uomini, anche se ormai la nave era ridotta a un fuscello che si arrampicava a fatica su muri d’acqua.
Un’ultima onda, enorme, sollevò la prua oltre la schiuma strappata dal vento e lo scafo precipitò nel vuoto, sfasciandosi. L’equipaggio aggrappato ai relitti, martoriato dalla furia delle intemperie, si disperse nel buio di quella notte funesta.

* * *
Ulisse si risvegliò su una spiaggia. Era disteso sulla sabbia, nudo e fiaccato dall’immane lotta per non annegare che aveva condotto durante la notte. Il sole stava sorgendo a oriente su un mare ormai calmo. Il cielo limpido era attraversato solo dal volo di alcuni gabbiani. Nessuna orma su quella sabbia fine, se non i pochi passi che lui aveva percorso disorientato fino a giungere alle radici d’una fitta foresta. Era rimasto solo, con altri volti di compagni perduti che l’avrebbero visitato nei suoi incubi per il resto della vita.
Mentre vagava smarrito lungo la spiaggia al limitare degli alberi, si accorse di alcune fanciulle che giocavano alla palla in lontananza e s’acquattò tra gli arbusti per osservare la scena non visto. Ridevano felici, ignare della sua presenza, e correndo mostravano senza pudore le loro grazie. Erano ragazze bellissime dal colorito chiaro, lunghi capelli neri e gli occhi a mandorla. A Ulisse sembrò d’aver già vissuto quel momento in passato, ma ebbe il dubbio che si trattasse solo del ricordo di un racconto di qualche poeta di passaggio nella sua reggia.
A un tratto il gesto incauto di una delle ragazze fece ruzzolare la palla in direzione dell’eroe acheo che uscì allo scoperto, mosse qualche passo avanti e la raccolse. Fu allora che le fanciulle si accorsero della presenza di quell’uomo barbuto e nudo; tutte fuggirono, gridando spaventate, tranne una.
Ulisse non aveva mai visto una ragazza più bella; neppure Elena poteva sostenere il confronto, tanto meno la sua amata Penelope. La giovane, dalla pelle dorata e dai capelli neri che splendevano al sole, era coperta solo da un velo candido e trasparente sotto il quale si potevano vedere con chiarezza gli agili fianchi e il seno ansimante.
Anche lei lo stava osservando, per nulla intimorita. Sembrava si chiedesse chi fosse quell’uomo maturo, alto, con la barba e i capelli d’argento, dal corpo nudo e muscoloso solcato da numerose cicatrici. Poi la ragazza rise compiaciuta quando si accorse che l’eroe si stava eccitando nel vederla; ciò che vide sembrava il ramo nodoso d’un vecchio albero ancora vigoroso, che poteva dare frutto e a cui ci si poteva sempre aggrappare con sicurezza per dondolarsi senza timore.
Lo stesso Ulisse fu sorpreso; amava Penelope, ma le lunghe settimane di viaggio e la bellezza di quella donna avevano provocato in lui quella reazione involontaria.
Non fece in tempo a rendersi conto di quanto potesse sembrare ridicolo in quella guisa e con la palla in mano, che un drappello di uomini urlanti sbucò dalla foresta e gli fu subito addosso prima ancora che potesse reagire. Colpito alla testa, cadde a terra privo di sensi.

* * *
Il palazzo imperiale della città di Yin aveva al suo interno un’enorme piazza d’armi. Tutt’intorno s’innalzavano gli edifici del governo a sei e più piani, oltre alla sontuosa residenza del sovrano e, dalla parte opposta, un tempio colossale, mentre le ampie strade laterali, che collegavano il palazzo alla capitale, vomitavano un fiume di gente dalle vesti variopinte.
Era la prima notte di una lunga settimana di festeggiamenti e tutto il popolo si apprestava a rendere omaggio all’imperatore Wu Ding, l’ultimo discendente della dinastia Shang. La piazza era illuminata a giorno da un’infinità di lanterne, fuochi artificiali crepitanti e scintillanti girandole.
Ulisse si era appena risvegliato in una gabbia ed era stato trascinato fuori legato a una catena. Il collare a cui era agganciata lo faceva respirare a fatica, e i ceppi alle mani e ai piedi gli impedivano i movimenti. Si trovò su una passerella in legno di fronte alla folla che si stava radunando. Lui spiccava in altezza e in dimensioni rispetto a quei piccoli uomini gialli e ben presto un gruppo di persone incuriosite si raccolse per ammirarlo. Disorientato da quella grande confusione, ebbe l’impressione di essere trattato come una bestia esotica da esposizione.
Un ometto giallo, grasso, pelato e sudato, con due lunghi baffi neri pendenti, si dava un gran da fare, aiutato da un aguzzino armato di frusta, per trascinarlo lungo la passerella verso un ampio palco approntato al centro della piazza. Su di esso spiccava un trono sontuoso.
Parecchi ragazzini si misero a seguire il terzetto e, dopo aver raccolto verdure marce da terra, si divertirono a bersagliare Ulisse. Ben presto del glorioso re di Itaca, dell’eroe che aveva aperto le porte di Troia, non rimase che una triste sagoma insozzata dal marciume.
Per quanto la situazione fosse avvilente, Ulisse riteneva opportuno sopportare le umiliazioni senza reagire per studiare con calma il da farsi; ma quando arrivò in prossimità del palco, un uomo giallo e secco, abbigliato con un’ampia veste scura finemente decorata da fili d’oro, gli andò incontro lungo la passerella e gli mise le mani in faccia per aprirgli la bocca e verificare lo stato dei suoi denti, come se fosse stato un cavallo venduto all’asta. Per il re di Itaca quell’affronto fu insopportabile e, nonostante fosse impedito dai ceppi, reagì con una fulminea testata sul naso del malcapitato che perse i sensi e rovinò a terra. Subito l’aguzzino si avventò su di Ulisse per immobilizzarlo e gli assestò violente scudisciate sulla schiena.
Mentre subiva quella gragnola di colpi, giunse nella piazza una portantina trasportata da sedici schiavi a torso nudo, con la testa rasata e un lungo codino che dalla nuca scendeva sulla schiena. La folla si aprì al loro passaggio e le otto coppie di portatori salirono con rapidità le scale del palco e posarono con delicatezza la portantina in prossimità del trono. Ne uscì un uomo tarchiato e sovrappeso, che indossava un vistoso copricapo e uno sfarzoso vestito di seta, oltre a monili d’oro tempestati di gemme; egli mosse alcuni passi tra due ali di dignitari che lo accolsero in atteggiamento ossequioso. Quando si accomodò sul trono, tutto il popolo si prostrò dinanzi a lui.
Allora l’ometto grasso, pelato e sudato corse di fronte al sovrano, si inchinò varie volte, e sembrò prendere ordini. Ulisse non comprese nulla di ciò che si dissero, perché parlavano l’idioma locale, una lingua barbara piuttosto sgradevole all’udito fatta di suoni acuti e aspri monosillabi.

* * *
«Quale dono portate per la festa del Grande Drago, onorevole Keijin?»
L’imperatore seduto sul trono aveva posto quella domanda senza fare troppo caso all’onorevole ometto sudato. Sembrava più incuriosito dall’uomo incatenato, perché Ulisse, nonostante fosse legato come una bestia e lordato dall’immondizia lanciata dalla folla, conservava ancora una parte della sua dignità regale che non poteva sfuggire a un imperatore.
«Celeste sovrano, le cui gesta sono cantate dai poeti più sublimi, l’uomo che vedete è stato catturato sulle rive del mare orientale. Come potete notare, i suoi tratti ricordano le popolazioni incivili d’occidente. Nelle vicinanze del ritrovamento sono stati rinvenuti i relitti di un’imbarcazione e alcuni cadaveri d’affogati. Riteniamo che abbiano attraversato proprio il mare orientale e che per questo loro ardire siano stati puniti dagli dei. Ho pensato che l’unico sopravvissuto di una tale impresa fosse un dono che la vostra maestà avrebbe apprezzato».
«Queste notizie non ci sorprendono: ciò che il Grande Drago aveva visto con il suo sguardo lungimirante era vero, per quanto impossibile potesse sembrare. Un uomo che ha compiuto una pazzia simile, riuscendo in un’impresa in cui i nostri migliori marinai hanno fallito, suscita la nostra curiosità. Fatelo avvicinare», ordinò l’imperatore.
Mentre i ministri discutevano con foga tra di loro sulla provenienza di quell’uomo, Ulisse venne trascinato di fronte all’imperatore e fatto inginocchiare. Dopo aver subito quell’ulteriore umiliazione, il re di Itaca sollevò lo sguardo fiero e si guardò intorno, fissando le persone che si assiepavano sul palco imperiale. Vide i dignitari di corte che lo osservavano increduli, poi dietro al trono numerose giovani di alto rango. Riconobbe anche la fanciulla dai lunghi capelli neri che aveva incontrato sulla spiaggia; occupava un posto importante poco discosto dal sovrano. Ella gli sorrideva come nel loro primo incontro, ma questa volta, più che divertita, sembrava intenerita dal suo aspetto.
Poi Ulisse alzò la testa verso il trono e fissò il volto dell’imperatore. Quel suo ardire provocò una dolorosa scudisciata da parte dell’aguzzino che gli fece chinare il capo verso terra.
«Chi sei?» chiese l’imperatore.
Poiché non ci fu alcuna risposta, l’aguzzino riprese a frustare dicendo: «Animale! Rispondi all’imperatore!»
Ulisse, che non capiva una parola, reagì insultando l’uomo che lo colpiva: «Cane di un barbaro! Tu non sai con chi hai a che fare! Giuro sugli dei che prima dell’alba ti strapperò il cuore dal petto!»
A quella frase un vecchio che si trovava mescolato ai dignitari di corte trasecolò e in quell’istante fu riportato con la memoria indietro di decenni, quindi mosse un incerto passo avanti e disse: «Io conosco questa voce!»
Si trattava di un uomo anziano, calvo e dalla folta barba bianca, appoggiato a un bastone e con lo sguardo fisso nel vuoto: doveva essere cieco. A giudicare dall’aspetto era di certo un occidentale, ma vestiva alla moda orientale.
Quindi quel vecchio aggiunse nella lingua degli Achei: «Tu sei... tu sei Ulisse!»
Il re di Itaca sollevò lo sguardo. Non riconobbe l’uomo, ma il suo accento era inconfondibile: era un troiano.
«Mi chiamo Agenore ed ero a Troia quando voi Achei la assediaste. Allora ero un guerriero. Nell’incendio della città che seguì l’invasione perdetti la vista e per sopravvivere viaggiai per il mondo raccontando le vicende di quella guerra. Nel mio peregrinare giunsi in questo remoto angolo della Terra molti anni fa. Questi uomini apprezzano a tal punto il mio canto e le mie storie che sono stato accolto a corte».
Ulisse era stupefatto e chiese: «Come sei giunto qui? Questa non è la terra degli Atlantidi?»
Agenore, dopo aver riso, rispose: «No. Ti trovi nell’estremo orientale del mondo, agli antipodi della tua patria, nella terra degli Shang».
Quindi il troiano si rivolse all’imperatore nella lingua locale: «Perdonate il mio ardire, celeste sovrano, i cui domini si estendono su tutte le terre conosciute, per aver parlato in un idioma incomprensibile, ma sono intervenuto perché conosco quest’uomo. Ora voi lo vedete così, dimesso e umiliato, però costui è quello stesso Ulisse del quale ho cantato nei miei racconti, colui che con la frode del cavallo di legno si introdusse nella città di Troia e, mentre la popolazione festeggiava il ritiro degli Achei, ne aprì nottetempo le porte esponendola al saccheggio e alla distruzione. Non so per quale prodigio si trovi qui, ma ora potete ammirare ai vostri piedi uno dei più famosi guerrieri achei in carne e ossa».
«Il Grande Drago l’aveva previsto», disse l’imperatore Wu Ding alzandosi dal trono. «Aveva intuito che le genti d’occidente, schiacciate dalle nostre forze d’invasione, avrebbero inviato i loro uomini migliori per attentare alla nostra vita».
Quindi scese i gradini per dirigersi verso il re di Itaca, gli tese una mano e lo fece alzare in piedi. I dignitari erano esterrefatti, perché a nessun altro era mai stato tributato un tale riguardo.
«Di’ a quest’uomo che sarà insignito di un grande onore: questa notte verrà portato al cospetto del Grande Drago assieme alla mia figlia maggiore Wu Ling. Accompagnalo e spiegagli cosa lo aspetta». Poi, rivolto all’onorevole Keijin, disse: «Che sia ripulito e preparato come si conviene». Infine si accomiatò. «Addio, o Ulisse. Ci ha fatto piacere fare la tua conoscenza. Sei proprio come ti avevamo immaginato».
Detto questo, Wu Ding risalì sul trono; a un suo cenno i festeggiamenti ripresero.

* * *
A notte fonda un lungo corteo illuminato dalle fiaccole giunse alle porte del colossale tempio della capitale di Yin. Guidava quella processione un gruppo di sacerdoti seguito dalla principessa Wu Ling. Anche Ulisse e Agenore facevano parte del corteo.
Il troiano spiegò all’acheo le ragioni di quella tradizione.
«Il potere di questa dinastia deriva da un enorme drago che vive nelle grotte su cui è edificato il tempio. Ogni anno gli Shang offrono un sacrificio alla Bestia e questa in cambio dona prosperità a tutta la popolazione e fortuna in guerra all’imperatore».
«Un drago?»
«Sì», rispose Agenore, «un enorme serpente dotato di zampe e ali, che possiede la forza di un leone e l’agilità di un’aquila, fornito di una vista acutissima tanto che riesce a guardare in luoghi inaccessibili e può anche scrutare nel passato; solo il futuro per lui è immerso nell’oscurità. Si tratta di un animale molto saggio e intelligente».
«Gli manca solo la parola», disse Ulisse con ironia.
«No», rispose piccato il troiano, «conosce tutte le lingue degli uomini ed è un fine conversatore a quanto è dato sapere, ma pochi fortunati, oltre all’imperatore, sono sopravvissuti dopo avergli parlato».
Ulisse non replicò, ma ebbe la sensazione di essere preso in giro.
Dopo aver attraversato un lungo labirinto di corridoi, il corteo giunse in un’ampia grotta buia sormontata da un’enorme volta, che le torce non riuscivano a illuminare se non a fatica, su cui poggiavano le colonne del tempio soprastante.
I soldati che accompagnavano il corteo legarono Ulisse e la principessa a due pali piantati nel terreno. Di fronte a loro si apriva un profondo baratro, ancor più oscuro del buio che li circondava.
«Cosa significa? Perché ci legate?» chiese Ulisse, che si aspettava un diverso trattamento dopo le parole dell’imperatore.
Agenore, l’unico del corteo che, pur senza fiaccola, si muoveva con disinvoltura in quell’oscurità, si accostò all’eroe acheo e gli disse: «Avrai l’onore di conoscere il Grande Drago e di essere il suo pasto: sarà compiaciuto di gustare un uomo astuto come te. Anche Wu Ling, la figlia maggiore dell’imperatore, subirà la stessa sorte. È lei il sacrificio promesso alla Bestia. Hai visto quale seguito di eredi avesse l’imperatore attorno a sé? Ebbene ogni anno viene immolata quella che risulta essere l’attuale figlia maggiore. Questo chiede il Grande Drago per non appestare la popolazione col suo alito mefitico; in cambio dona prosperità e la fortuna arride agli eserciti degli Shang, che perciò risultano invincibili».
Ulisse rivolse lo sguardo alla principessa che non sembrava per nulla preoccupata.
«Quando arriverà il drago», aggiunse Agenore, «tu avrai più paura di lei. Da quando è nata sa che questo è lo scopo della sua vita ed è onorata di compierlo».
I sacerdoti, dopo aver cantato a lungo alcune litanie e bruciato incensi, si allontanarono seguendo il cammino a ritroso con tutto il loro seguito.
In quel momento il re di Itaca notò che la ragazza aveva perso quell’aria serena che aveva un attimo prima e guardava con preoccupazione nel baratro che aveva di fronte. I suoi polsi cercavano di liberarsi, ma erano fragili e la fune molto stretta.
“Ecco perché l’hanno legata. Sarà anche onorata di morire, ma hanno preferito non correre rischi”, pensò l’eroe acheo.
Quindi Agenore si accomiatò. «Addio, Ulisse. Non sai con quale piacere ti abbia rincontrato in questa occasione. Darei la mia stessa vita per vedere il Grande Drago fare scempio di te. Ma lascia che ti riveli un’ultima cosa: in questi giorni le truppe dell’imperatore stanno assediando i regni achei e molti sono già caduti».
A quella notizia Ulisse ripensò a Telemaco sugli spalti di qualche città assediata, a Penelope sola a Itaca, e a se stesso immobilizzato nelle viscere della terra.
Il troiano continuò: «Stanno lottando strenuamente per la loro libertà. Ogni guerriero acheo vale dieci nemici, ma le schiere degli Shang non si possono contare e le sorti della guerra sono dalla loro parte. Dopo che il drago avrà ucciso quest’ultima principessa, l’esercito riprenderà vigore e per gli Achei non ci sarà più scampo».
«Perché mi racconti tutto questo? Non puoi lasciarmi morire in pace?»
«Sì, ora me ne andrò», rispose Agenore sorridendo col suo sguardo vuoto, «ma prima volevo che tu sapessi che Wu Ding sta mettendo a ferro e a fuoco l’Acaia con il suo esercito per colpa mia. Io gli ho cantato le gesta dei guerrieri che hanno conquistato Troia; io gli ho narrato quanto fossero coraggiosi e astuti; io gli ho suggerito che non sarebbe stato il più grande imperatore della Terra se non dopo aver sconfitto quel lontano popolo dell’occidente, per quanto insignificante potesse sembrare. Io, sono stato io!» e così dicendo si allontanò nell’oscurità.
Ulisse urlò per la disperazione: «Maledetto! Ti giuro che prima dell’alba brucerò il tuo cuore! Anche se fosse l’ultima cosa che farò, gli dei devono concedermela!»
Quel suo grido rimbombò sulla volta della grotta e si perse nelle profondità del baratro, quindi una lacrima scese sul volto dell’eroe: era salata come il mare di Itaca.
La ragazza intanto aveva continuato a strattonare la corda che la legava tanto che si era procurata delle profonde ferite. Non aveva ormai più alcuna intenzione d’essere immolata affinché la fortuna degli eserciti di suo padre aumentasse.
Anche Ulisse stava provando a liberarsi e sembrava aver maggior successo, quando nel silenzio più totale un rumore sordo cominciò a salire dal baratro. Era come il battito d’ali di mille pipistrelli, una spirale che emergeva dalle profondità della terra, ed ecco all’improvviso apparire il Grande Drago, un serpente terrificante e maestoso dal corpo squamato e la testa di coccodrillo da cui spuntavano lunghi baffi. Il corpo e le zampe erano percorsi da una cresta, e le sue membra si contorcevano e si avvolgevano su se stesse come se quel movimento gli consentisse di rimanere librato nell’aria. Alla luce delle poche torce lasciate dal corteo, l’immenso corpo dell’animale aveva uno spiacevole colore biancastro.
A quella vista la principessa gridò terrorizzata e il drago sembrò ritrarsi infastidito da quell’urlo, ma poi la sua attenzione fu attirata da Ulisse. La bestia gli sibilò alcune parole incomprensibili, mentre continuava a volteggiare nell’aria, allora l’eroe gli rispose: «Il mio nome è Ulisse, vengo da Itaca e sono un re», per far comprendere al mostro quale lingua parlasse.
Stupito il drago gli replicò sibilante: «Tu parli l’idioma degli Achei e dici di chiamarti Ulisse; ma ho seguito l’ultimo viaggio di quell’uomo e ho visto che la sua nave ha fatto naufragio al largo delle coste orientali. Come puoi essere lui?»
L’astuto conquistatore di Troia rifletté qualche istante. Doveva soppesare ogni parola o la pazienza di quel mostro sarebbe presto giunta al limite e si sarebbe cibato delle loro carni. Di certo quell’animale parlava e sembrava provvisto d’intelligenza, ma chi è dotato di ragione, pensò Ulisse, può possedere anche altre caratteristiche proprie dell’uomo, quindi provò a stuzzicarlo.
«La tua vista non è così acuta come quella di altri draghi...»
La bestia reagì a quella offesa rivoltandosi su se stessa e sbuffando una nuvola di alito verde nell’aria. La principessa venne investita in pieno e trattenne il fiato il più a lungo possibile. Se l’avesse respirata, sarebbe morta tra atroci sofferenze.
«Come osi!» urlò il drago. «La mia vista non è seconda a nessun esemplare della mia specie. Non solo, ma posso scrutare anche nel passato più remoto».
«Ma ti è sfuggito il fatto che io sono sopravvissuto. E poi tu sei imprigionato in questa grotta, non puoi vedere più lontano del tuo naso», insistette Ulisse deridendolo.
«Se sono nascosto in questa grotta è per proteggere le mie squame dai raggi del sole e della luna, ma queste rocce non bastano a impedire che io possa osservare ciò che desidero», disse la bestia con orgoglio e fece per soffiare di nuovo il suo alito sui due prigionieri, ma l’eroe acheo rispose con prontezza: «Se è vero ciò che dici, potrai provarlo con facilità».
A quelle parole il drago si trattenne. Non si lasciava mai andare all’ira in quel modo e di solito conversava amabilmente con le fanciulle che gli venivano offerte in sacrificio, prima di divorarle.
«Cosa intendi dire?» chiese incuriosito.
«Hai detto che la tua vista è migliore di qualunque altro drago e che puoi osservare i più lontani angoli della Terra e anche il passato più remoto».
«È così infatti!» confermò volteggiando in cerchio su se stesso.
«Bene, allora conoscerai di certo il paese degli Iperborei nel freddo e desolato settentrione, dove la notte e il giorno si alternano per sei mesi all’anno».
«So a quali terre ti stai riferendo», replicò sempre più incuriosito.
«Quindi, se la tua vista è come dici, potrai di certo trovare in quella regione una foresta pietrificata. Ebbene, secoli fa Perseo, un guerriero nativo dell’Argolide, è passato per quella terra portando con sé una capiente sacca. Se riuscirai a dirmi cosa conteneva quella sacca, io saprò che tu sei davvero il drago più lungimirante mai esistito».
«Non so a cosa ti servirà averne la conferma quando sarai morto, ma voglio esaudirti, perché tu sappia che ciò che sostengo è vero».
Dopo aver pronunciato quelle parole, il drago continuò a volteggiare in circolo e nel frattempo i suoi occhi scrutavano nell’oscurità e superavano le barriere dello spazio e del tempo; la sua vista sorvolava freddi deserti e desolate steppe, mentre i secoli trascorrevano a ritroso e sulla tundra si susseguivano le stagioni passate, i gelidi inverni, le dolci primavere, le tiepide estati e i tristi autunni. Quindi giunse al paese d’Iperborea e iniziò a cercare la foresta pietrificata indicata da Ulisse; la trovò ed era costellata di alberi in pietra e strane statue d’uomini e d’animali. Continuò a osservare nel passato finché non incontrò un guerriero che trasportava una grande sacca e correva spedito: doveva essere proprio quel Perseo citato da Ulisse. Allora scrutò con ancora più intensità nel passato e giunse al momento in cui il guerriero aveva appena messo nella sua sacca qualcosa di grosso. Gli balenò alla memoria un’immagine, come se sapesse già cosa doveva essere, ma il ricordo non si concretizzò nella sua mente. Quindi spinse lo sguardo indietro di qualche istante e alla fine vide tra le mani di Perseo di cosa si trattava: era la testa decapitata di Medusa, la Gorgone coronata di serpenti il cui sguardo aveva il potere di pietrificare chiunque avesse la sventura d’incrociarlo.
In quell’istante il drago smise di volteggiare e rimase cristallizzato, cementato in un’enorme statua di pietra che cadde al suolo, colpì con estrema violenza l’orlo del baratro e, rimbalzando innumerevoli volte contro le pareti del pozzo, iniziò a frantumarsi in mille schegge precipitando. A ogni urto la grotta tremava come scossa da un potente terremoto e ciclopiche pietre cadevano tutt’intorno.
Ulisse si liberò dalla corda e slegò anche la principessa. Mentre correvano nel labirinto per tornare in superficie, la volta cedette e con essa sprofondò il tempio che sorreggeva, trascinando con sé i sacerdoti, l’imperatore e i suoi ministri che non avevano fatto in tempo a guadagnare l’uscita.

* * *
Sugli spalti di Corinto Telemaco e il re Achétone osservavano le orde nemiche in assetto da battaglia. Udivano in lontananza gli ordini secchi dei capitani e le pronte risposte dei soldati. In testa allo schieramento prendeva posto la cavalleria pesante, tra cui spiccavano cammelli ed elefanti, sulle cui torri si accalcavano folti gruppi d’armati. Subito dietro seguivano le truppe appiedate e nella retroguardia gli arcieri, i frombolieri e le macchine da guerra.
Sulle mura della città invece erano schierati gli sparuti manipoli achei armati di fionde, scudi e corte lance.
«Siamo all’epilogo», disse Achétone a Telemaco, «ma venderemo cara la pelle. Quei vigliacchi sanno già di che pasta siamo fatti, ma questo giorno lo ricorderanno a lungo. Vinceranno, è certo, ma leccandosi le ferite ripenseranno con terrore a quanto gli accadrà oggi».
Quindi il re si rivolse ai suoi soldati, ragazzi imberbi e anziani piegati dagli anni. «Oggi perderemo! Nessuno di noi sopravviverà. Come è già avvenuto a Micene, chi resterà in vita sarà passato a fil di spada dal nemico. Questa è l’unica certezza: oggi moriremo, ma chi narrerà le nostre gesta dirà che la sconfitta degli Achei è stata più gloriosa della vittoria di qualunque altro popolo».
Achétone si guardò intorno e vide i volti dei vecchi e dei fanciulli che l’ascoltavano attenti, quindi domandò: «Ora chiedetevi: come preferite morire? Piangendo per la vergogna della vostra codardia o urlando mentre scannate un nemico? Che ricordo lascerete a questo mondo? Siete vigliacchi o guerrieri?»
Tutti urlarono: «Guerrieri!» e batterono le lance sugli scudi.
Quel fragore fu udito con chiarezza dal nemico tanto che un fremito percorse le lance delle falangi e alcuni elefanti scartarono vistosamente.
«Bene», disse Telemaco, «è giunta l’ora. Mi dispiace solo che mio padre non sia qui a vedere come sa morire suo figlio».
«Ulisse lo sa già», lo confortò Achétone.
In quel momento gli arcieri nemici e le macchine da guerra scagliarono la prima scarica di frecce e pietre. Per qualche secondo il cielo fu oscurato e i proiettili caddero pesantemente sugli scudi achei provocando però solo poche vittime.
Mentre sugli spalti si riorganizzavano e gli arcieri nemici ricaricavano le loro armi, calò improvvisa un’ombra da oriente. Fu come se il volo d’un folto stormo di corvi avesse oscurato il sole, come se una nube tempestosa fosse scesa sull’esercito nemico, mentre un istante prima il cielo era terso. Quell’ombra nera attraversò tutto lo schieramento e lo scompaginò: le lance cozzarono le une contro le altre, mentre cavalli, cammelli ed elefanti si imbizzarrirono. Alcuni cavalieri vennero disarcionati e il panico serpeggiò tra le file nemiche. In quell’attimo tutti ebbero l’impressione che la fortuna stesse voltando le spalle alle orde orientali.
Animati da una rinnovata fiducia, gli Achei decisero che era il momento giusto per contrattaccare.
Achétone ordinò di avanzare e Telemaco fu tra i primi a scendere sul campo di battaglia. Un manipolo di guerrieri urlanti iniziò a correre verso lo schieramento nemico. Il figlio di Ulisse si trovò affiancato da un vecchio e seguito da ragazzini e dovette moderare la sua corsa per non rimanere isolato. Nel frattempo, nel vedere gli Achei così agguerriti, quel panico immotivato che aveva preso alcuni soldati si fece ancora più largo: le falangi cominciarono a ostacolarsi nei loro movimenti, e numerose cavalcature imbizzarrite portarono scompiglio tra le file dei soldati appiedati. Ed ecco che le fionde achee giunsero a tiro delle linee nemiche e scagliarono le loro pietre: quella pioggia di proiettili arrivò nel mezzo di uno schieramento distratto e disorganizzato. La potente macchina da guerra dell’impero si era inceppata e stava crollando sotto il suo stesso peso. Il panico faceva più vittime tra i soldati orientali dei colpi inferti da pietre e lance. In un attimo l’esercito sbandò, i ranghi si sfaldarono e numerosi soldati si diedero alla fuga.
Quindi gli Achei ne approfittarono. Organizzando gli assalti e colpendo in modo preciso i punti più deboli dello schieramento fecero strage di nemici, presero il sopravvento e, dopo aver respinto un timido contrattacco, rincorsero l’esercito in rotta. La giornata si chiuse con una vittoria schiacciante.
Nei giorni successivi si seppe che tutte le città achee sotto assedio avevano approfittato di uno sbandamento nelle file nemiche e gli Shang erano stati ricacciati nell’Egeo con pesanti perdite.
«Una volta tanto la fortuna ha arriso agli Achei», constatò Telemaco osservando il campo di battaglia su cui giacevano cadaveri a perdita d’occhio.
«La fortuna non c’entra nulla» rispose Achétone, mentre gettava il proprio scudo irto di frecce a terra. «L’oracolo l’aveva predetto: “Le forze del male si dissolveranno come brina al sole”. Forse non vedrai più tuo padre, figliolo, ma dopo questa giornata puoi essere certo che ha completato con successo la sua missione».

* * *
Ulisse, scampato al crollo del tempio, aveva aiutato la principessa Wu Ling a uscire dalla galleria sotterranea. Poi, tra la gente spaventata dalle scosse, si mise a cercare con accanimento senza sapere esattamente che cosa. Se ne ricordò quando trovò l’aguzzino, che lo aveva frustato la sera prima, seppellito da un mucchio di mattoni tra le mura diroccate. A mani nude smosse le pietre, finché non liberò il cadavere e, armato d’un coltellaccio, gli aprì il petto per strapparne il cuore.
Non ancora soddisfatto, quando già albeggiava, andò anche alla ricerca di Agenore. Il troiano stava fuggendo tra la folla terrorizzata, cercava scampo ma, cieco, vagava senza meta. Si ritrovò in cima a una scala e, dopo un passo falso, cadde nel vuoto sfracellandosi ai piedi di Ulisse. Non ci volle molto e anche quel cuore ancora caldo e pulsante fu estirpato dal petto. L’acheo lo strinse nel pugno e lo bruciò al fuoco di una torcia, mentre il sole del nuovo giorno illuminava una capitale devastata.

«Ah Ah! Cantore della malora! Poco avvezzo son ad accettar per veri siffatti avvenimenti», reclamò faceto il re, conchiudendo al rapsodo il riferire.
La regina, d’altro avviso indotta, ingerì, cortese, interrogando supplice il silente aedo:
«Ti prego, Femio, che ne è stato dell’eroe? In patria a tornar riuscì dalla sua sposa?»

Ella, in siffatto modo quaerendo, il coro destò dei commensali a far ei premura in tal guisa che il cantore intonò l’accordo alla lira seguitando l’avventuroso carme:

«Nel prosieguo del tempo che venne alla morte del sovrano,
lo stuolo delle figlie a cui ei avea al Drago concesso la mano,
sugli eredi maschi e Wu Ling il sopravvento prese,
in tal guisa che la più anziana figlia, al dragone sottratta,
Imperatrice divenne in un mese.
Ad ella, invero, l’amor dell’eroe premea,
spartir l’impero e convenir a nozze con ei, volea,
ma ei, bramando la sua sposa
che in patria l’attendea, rifiutò la cosa.
Wu Ling infuriata l’onta non tollerò
proferì parole grosse: “vile marrano!
ti insegno io a rifiutar la mano!”
All’eroe di tornar per il calle onde proveniva ordinò
dei mari orientali avrebbe varcato le porte,
diversamente, ei avrebbe incontrato la morte».

«Su dunque! Cantore! Continua! Ed ei lo fece?»

«L’eroe fece una zattera presso il lido ove Wu Ling
conosciuto avea.
allorché ei prese il mare tosto all’orizzonte
il sole rosso sorgea
l’alba luminosa spledea…
ma questa, mia signora, è un’altra vicenda
riserviamo la leggenda
da narrar in una nuova sera
allorché la bufera incalza
ne la notte nera».

«Bene», concluse la Regina, «allora, mai momento fu più propizio per ritirarsi».
Poi, rivolta al Re disse piano: «In una notte siffatta, a cagione di lasciarmi dondolare mi appenderò al ramo nodoso di un vetusto albero».
Il Re rivolse lo sguardo agli occhi galeotti della donna e ridendo esclamò: «Invero, un vecchio ramo ma tuttora vigoroso».


F I N E

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