sabato 2 marzo 2013

L'albero delle Scelte

Fantascienza, 37228 caratteri, versione 3.0


L’ALBERO DELLE SCELTE
di
Leonardo Boselli

Il futuro. Chi pensa di poterlo prevedere è solo un pazzo che illude se stesso. Il saggio, però, sa che quel pazzo non è lontano dalla verità: ciò che non è impossibile, prima o poi, in qualche parte del Cosmo, accadrà. Magari non in questa porzione d’Universo e neppure nelle sue vicinanze; ma succederà e si ripeterà più e più volte.
Eppure, tra tutti gli eventi possibili, lo stolto crederà di non vivere mai quelli che desiderava, perché la sua memoria è solo un istante nell’eternità e la sua volontà è più mutevole del tempo.

(Dalla XLII Sutra dei Maestri Kahnwon)


New York City, 24 settembre 2075

Quella sera Mike Pizzileo si trovava suo malgrado al piano attico del Grattacielo Shennong, sede degli uffici americani della Zhìnéng-Jī Corporation.
Il consueto ricevimento per la “Festività della Luna” era in pieno svolgimento. I dirigenti e numerosi dipendenti, con i rispettivi coniugi, conversavano nell’ampio salone intorno ai buffet, mentre solerti camerieri robot riempivano bicchieri e vassoi.
Mike si era defilato in un angolo tranquillo con una ciotola di riso cantonese e un bicchiere di birra Tsingtao. Ma l’oasi di quiete che si era ritagliato avrebbe avuto vita breve: Robert Connor, un espansivo collega del reparto “ricerca e sviluppo”, puntò dritto su di lui non appena lo vide.
«Zăo. Nǐ hǎo ma?» chiese Robert.
Mike avrebbe voluto rispondergli: “Bié zài dărăo wŏ le!”, ma si limitò a un più amichevole: «Bene, grazie».
«È proprio una festa riuscita, come tutti gli anni», affermò Robert. «Non trovi?»
«Certo».
«Il cibo poi è ottimo» disse e, dopo aver dato un’occhiata alla ciotola di Mike, aggiunse: «Ti consiglio di assaggiare anche gli involtini primavera, sono squisiti».
«OK».
Robert si sedette. Dai bisillabi ricevuti in risposta aveva intuito che l’amico era in uno dei suoi momenti bui, così provò a confortarlo.
«Mike, pensi ancora a Susan?»
«Sì, ma preferisco non parlarne. Sai, mi vengono sempre in mente le feste in cui c’era anche lei» disse per giustificarsi, mentre si toglieva gli occhiali stereoscopici.
Robert intuì che, attraverso quegli occhiali, Mike stesse guardando qualche vecchia registrazione di Susan. «Non puoi continuare così. Sono due anni che avete divorziato. Lei ha una nuova vita e dovresti fartene una ragione».
Cercava di essere convincente, ma sapeva che era inutile: con tre matrimoni falliti alle spalle, di esperienza ne aveva fatta parecchia. Poi ebbe un’idea e aggiunse: «Sai che ti dico? Questa sera devi approfittarne. Ci sono quelle nuove ragazze del reparto “assunzioni e licenziamenti”… ecco, ne vedo una laggiù. Ti avvicini, ti presenti, dici due stupidaggini e chissà…»
«E chissà… cosa? Magari mi licenzia!» disse sarcastico Mike. Guardando tra gli invitati il punto indicato dall’amico, aveva notato una delle dipendenti asiatiche provenienti dalla filiale di Shanghai. «Ormai ho passato i cinquanta e quella ragazza potrebbe essere mia figlia, anzi è più giovane di mia figlia!»
«Devi lasciarti andare. Hai messo la tua ex-moglie su un piedistallo e quindi nessun’altra donna è alla sua altezza, ma continuando così rinunci a essere di nuovo felice».
«Parli come il mio terapista. Se avessi saputo che eri così bravo, avrei evitato di spendere tanti soldi».
Robert rifletté per qualche istante, poi disse: «Sai qual è il tuo problema? Sei l’ultimo esemplare di una razza estinta da tempo: l’uomo fedele a oltranza. Però ci vuole poco per rimediare. Hai un fascino latino… maturo, e quando vuoi riesci a essere simpatico. I baffi poi… non sai che le asiatiche ne vanno matte? Insomma, se ci pensi ancora un po’ su… beh, ne approfitto io».
«Questa dei baffi non la sapevo», gli rispose sorridendo, «ma va’ pure tranquillo, non mi offendo».
Robert si alzò. «Mike, ogni lasciata è persa!» sentenziò ironico e si allontanò.
Dopo aver gustato il riso, Mike decise che avrebbe finito la sua birra e poi sarebbe tornato a casa. Pensava di completare l’alberatura del modello di veliero a cui stava lavorando. Nessuno si sarebbe accorto della sua assenza.
Mentre era assorto in quei pensieri, sentì una voce femminile che gli diceva: «Wǒ jiào Zhou Yang. Nǐ jiào shénme míngzi?»
Alzò lo sguardo e vide una ragazza cinese, anzi proprio quella che Robert gli aveva indicato poco prima. Era in piedi di fronte a lui, avvolta da un vestito seducente che valorizzava il suo corpo sensuale, e sorrideva.
Si alzò imbarazzato e, dopo averle mostrato un posto accanto al suo, rispose: «Il mio nome? Michael, ma sono Mike per gli amici. Prego, accomodati qui» e la fece sedere accanto a lui. Nel frattempo diede un’occhiata alla sala: Robert in lontananza gli faceva l’occhiolino tenendo sollevato un calice come se brindasse.
Allora le disse: «Yang è un bel nome. Da dove vieni?»
«Dalla sede di Shanghai. Mi sono trasferita da poco. Noi dell’ufficio del personale viaggiamo molto» rispose, esibendo un sorriso perfetto.
Mike cercava di capire se quei denti avessero la lucentezza delle perle o se fossero più luminosi, quando lei aggiunse: «Qui non conosco bene nessuno, ma i colleghi sono stati tutti molto gentili. Tu lavori nel reparto “ricerca e sviluppo” con Bobby, vero?»
Mike stava per chiedere chi fosse Bobby, ma ci arrivò da solo. Robert odiava quel nomignolo, perché gli ricordava il cane della sua prima moglie, ma a quanto pareva gli suonava molto meglio sulle labbra di una bella ragazza.
«Sì… senti, non so cosa ti abbia detto l’amico… Bobby per farti venire qui, ma…» giunto a quel punto si interruppe per cercare le parole adatte e concluse: «Oggi non sono in forma e stavo pensando di tornarmene a casa».
«Bobby me lo ha detto. Non devi preoccuparti».
Lui invece cominciava davvero a preoccuparsi, perché non aveva idea di cosa le avesse potuto raccontare.
«Mentre venivo verso di te, ti ho osservato bene. Ho notato quell’aria un po’ depressa di chi non ha più soddisfazioni nella vita. Il lavoro è diventato una routine e la famiglia si è disgregata. Dopo aver raggiunto gli obbiettivi che ti eri prefisso, in parte hai dovuto rinunciare a essi. Forse ti sei anche reso conto che non valevano la fatica che hai fatto per ottenerli. Insomma, a cinquant’anni ti trovi senza prospettive…»
Non si aspettava di essere psicanalizzato da una ventenne; credeva di avere di fronte a sé una ragazzina. Un tempo pensava che l’unica donna che avesse qualcosa di interessante da dire fosse Susan, ma a quanto pare si sbagliava.
La ragazza aggiunse: «Ti comunico una notizia: la vita inizia a cinquant’anni e vale la pena di essere vissuta». Sembrava una battuta, ma la disse con serietà. «So che hai un mese di ferie arretrate. Ti sei ammazzato di lavoro pensando di dimenticare, ma non funziona così».
Sorpreso le chiese come conoscesse quei particolari.
«Lavoro nell’ufficio del personale, ricordi? “Assunzioni e licenziamenti” e tutto quello che ci sta in mezzo. Prendi quelle ferie e parti per un lungo viaggio. Luoghi esotici, un po’ d’avventura e tanti incontri. Una fuga lontano dalla routine, ma anche un viaggio dentro te stesso, per ridare un senso alla tua vita».
Rispose brusco: «Cosa proponi? Magari un viaggio in Tibet? Voi orientali avete la mania della meditazione. Ho già provato il buddismo: Kun Feng, il mio capo, pensava che vivere per un po’ tra i monaci Shàolín mi avrebbe fatto bene. I monaci dicevano che le mie sofferenze erano causate dal desiderio di tornare a vivere con mia moglie: eliminato il desiderio, sarebbe scomparso anche il dolore. Allora ci mettevamo in meditazione e svuotavo la mente. Era bellissimo, ma poi ripensavo sempre a lei…»
«Sei mai stato sul pianeta che chiamiamo Vesuvio?» chiese lei a bruciapelo.
Quella domanda lo spiazzò. Un viaggio interstellare? No, non aveva mai visitato altri sistemi. Non sarebbe neppure andato sulla colonia di Marte, se non fosse stato per lavoro. Aveva sempre pensato che prima avrebbe dovuto vedere tutti gli angoli più suggestivi della Terra; ma in fondo neppure quelli gli interessavano, o almeno non interessavano a Susan. Così rispose: «Non ci sono mai stato, ma ho visto dei documentari. Ho fatto dei tour virtuali».
«Ah, ma non è la stessa cosa. Si perdono le sfumature dei colori e la profondità di campo. E poi gli odori, il vento caldo che accarezza la pelle, la luce cangiante delle lune. Ti faccio vedere» e così dicendo indossò i suoi occhiali. Mike fece altrettanto e i due dispositivi si sintonizzarono.
«Vedi», disse la ragazza, «il pianeta Vesuvio ha degli scorci impressionanti, canyon maestosi, albe e tramonti multipli che tolgono il fiato. Queste immagini, per quanto straordinarie, non rendono giustizia».
Mentre parlava, davanti ai loro occhi scorrevano i panorami tridimensionali del pianeta scaricati dal sito di “Virtual-Universe”. Gli occhiali li sovrapponevano alla normale vista della sala e sulle immagini comparivano anche didascalie, notizie storiche e dati numerici.
Al comando di Yang, il punto di vista si sollevò. Sorvolarono le principali città del pianeta e i templi dove, nel corso dei millenni, si era sviluppata la peculiare filosofia dei vesuviani. Infine la ragazza gli indicò una particolare regione e disse: «Ecco, su questo altipiano vivono i Maestri Kahnwon. Ho viaggiato in quelle zone due estati fa e ho partecipato a una loro meditazione. Ogni visitatore è sottoposto a prove diverse e percepisce sensazioni differenti. È impossibile spiegare quello che ho provato, perché nessun racconto può rendere l’idea: rischia solo di fuorviarti; devi andare laggiù e verificare tu stesso. È quello che ci vuole per te».
Era perplesso. Le parole della ragazza lo avevano entusiasmato, ma era subito tornato alla realtà quando le immagini mostrate dagli occhiali avevano lasciato il posto alla vista della sala.
«È suggestivo, ma cosa dovrei fare? Prendere le ferie e partire domani?» chiese Mike, sorridendo come se stesse dicendo un’assurdità.
«Perché no? Su Vesuvio fa molto caldo, basta un bagaglio leggero e non c’è bisogno di prenotare per incontrare i Maestri; i normali turisti visitano il pianeta per altri motivi. Se sei fortunato non dovrai attendere molto… vediamo…»
Yang aprì la finestra tridimensionale del sito “Auctions-On-Line”. Con poche selezioni, trovò mezza dozzina di biglietti last-minute per il pianeta Vesuvio della “Ryan-Interstars”. Il volo era fissato per giovedì.
«Vedi, il costo è davvero contenuto. Più il tempo passa, più la base d’asta scende, ma stanotte, sul tardi, ne trovi di sicuro ancora qualcuno».
Poi aprì un’altra finestra ad accesso riservato sul sito della società e disse: «Ecco, non hai progetti urgenti in corso. Se decidi, spunti questa casella e sei ufficialmente in ferie. C’è ancora qualcosa che ti trattiene?»
Mike ci stava pensando, ma non trovava scuse plausibili.
«Sono contenta che tu ci rifletta. Lo sai, la Zhìnéng-Jī Corporation ci tiene al benessere dei suoi dipendenti. Mi ha fatto piacere parlare con te. Ora ti lascio, vado a conoscere altri colleghi» e se ne andò, lieve com’era arrivata.
Finita la sua birra, anche Mike si alzò e uscì dalla sala. Era frastornato. Non aveva mai desiderato fare un viaggio su Vesuvio, oppure sì? A Susan non piacevano i lunghi viaggi, ma davvero valeva anche per lui?
Prese un ascensore per salire sul tetto del palazzo, mentre continuava a ripensare al colloquio con la ragazza. L’“assistente digitale” che Mike portava in un taschino, senza disturbarlo, si occupò di selezionare il piano corretto e chiamò un elitaxi che lo riportasse a casa.
Nel suo appartamento, ad attenderlo trovò la “Victory”, l’ammiraglia di Horatio Nelson. Era il modello più complesso che avesse mai tentato di costruire. Fece visualizzare le parti mancanti all’assistente e seguì le indicazioni per sistemare l’albero maestro; ma si stancò presto.
Così visionò la registrazione della chiacchierata con Zhou Yang: “È impossibile spiegare quello che ho provato. Nessun racconto può rendere l’idea… Devi andare là e verificare tu stesso. È quello che ci vuole per te”.
Quindi aprì il sito di “Auctions-On-Line”, cercò un biglietto per Vesuvio e selezionò “Compra subito”. Aveva deciso: giovedì sarebbe partito.


* * *
Quel giovedì mattina Mike era in coda al cancello 37 dell’aeroporto internazionale Kennedy. Effettuato il check-in, si imbarcò sulla navetta per la stazione spaziale Yuri Gagarin. Di solito i voli low-cost utilizzavano le strutture della Federazione Eurasiatica, perché erano molto più a buon mercato rispetto a quelle Cino-americane.
Mike era intimorito dal volo per entrare in orbita. All’inizio della sua carriera si era recato alcune volte alla filiale della sua società sulla colonia marziana e aveva sperimentato il terribile “mal di spazio”.
Dopo le istruzioni delle hostess sulle procedure di sicurezza, il benvenuto del comandante e il decollo, la navetta prese quota. Dal finestrino si poteva osservare in lontananza tutta New York; poi, una volta sull’oceano, vennero accesi i razzi di propulsione per raggiungere la velocità orbitale.
Accanto a Mike era seduta una donna che notò il tremito delle sue mani e così, sorridendo, gli chiese: «C’est la première fois?»
Quando si era seduto, lui non aveva fatto caso ai passeggeri vicini. Aveva subito iniziato a guardare fuori dal finestrino in attesa del decollo, perciò si accorse della donna solo in quel momento. Sorpreso dalla domanda disse: «Come?»
Lei ripeté con un forte accento francese: «È la prima volta?»
«No, ma sono parecchi anni che non entro in orbita».
«Anch’io avevo paura le prime volte, ma ci si fa l’abitudine». Gli tese la mano e si presentò. «Mi chiamo Nicole Bujold. Sono francese, ma penso che l’accento mi abbia già tradita» disse ridendo.
«Mike Pizzileo» rispose, ricambiando la stretta. Lei aveva una mano calda, confortevole, mentre la sua era gelata.
«Pizzileo? Italiano?»
«Lo era il mio trisnonno. La mia famiglia abita a New York da più di un secolo e mezzo».
«Io invece sono di Parigi, ma forse lo avevi immaginato: tutti i francesi sono di Parigi» e rise di nuovo.
Osservò con più attenzione la donna: aveva capelli biondi, corti sulle spalle, e occhi chiari, il viso con un filo di trucco e le forme del corpo eleganti, ma non appariscenti. Rideva spesso e Mike pensava che presto non l’avrebbe più sopportata.
Venne a sapere che lei viaggiava molto, adorava l’avventura, voleva scoprire posti nuovi e, in generale, amava le novità. Diceva di essere un’artista, ma non era chiaro che cosa creasse o quale fosse il suo vero lavoro. Prendendo confidenza, lei cominciò a essere invadente. Rivelava particolari molto personali e sembrava pretendere la stessa sincerità in cambio. Disse che viaggiava con un gruppo di amici, ma il suo compagno era rimasto a casa, perché il loro rapporto era in un momento di crisi. Insomma, Mike concluse che quella donna era l’esatto opposto di Susan, sia fisicamente che come carattere, e pensò che presto avrebbe anche potuto odiarla.
«Visto? Non c’era da preoccuparsi» gli disse Nicole.
«Come?»
«Il peggio del volo è passato. È bastato fare due chiacchiere» spiegò con un sorriso e gli lasciò la mano. Erano rimaste strette per tutto il tempo e la mano di Mike si era scaldata. Il confine tra odio e amore è molto sottile.
* * *
Il cielo era diventato di un nero profondo e la superficie terrestre mostrava una linea di costa coperta da radi strati di nuvole. La stazione Yuri Gagarin era proprio di fronte alla navetta. Avevano raggiunto la velocità orbitale e si potevano sperimentare le condizioni di microgravità. Le braccia di un tale piuttosto corpulento, che dormiva qualche posto più in là, cominciarono a fluttuare inerti nell’aria, ma una provvidenziale hostess le assicurò con delicatezza ai braccioli.
Ci volle parecchio perché venisse completato l’avvicinamento e si esaurissero le operazioni d’attracco, ma per Mike il tempo passò in un lampo, grazie a Nicole.
Una volta sbarcati, il problema della microgravità e del “mal di spazio” era risolto, perché la struttura ruotava sul proprio asse. La forza centrifuga percepita dai passeggeri sostituiva egregiamente la forza di gravità.
La stazione era un vero porto di mare. C’era gente di ogni tipo che aspettava di partire per varie destinazioni.
Infatti, attraccate ai moli, si potevano vedere navi interplanetarie dirette alle basi lunari e alla colonia su Marte, ma anche navi interstellari, tra cui la Columbus della “Ryan-Interstars” diretta a Vesuvio.
Mike si ritrovò in coda per l’imbarco in mezzo al gruppo degli amici di Nicole. Non conosceva la lingua, ma si fece aiutare dal traduttore automatico. Partivano per il pianeta Vesuvio perché erano appassionati di attività venatorie, infatti avevano intenzione di cacciare i famosi bucefali. Lo invitarono a unirsi a loro, ma declinò l’offerta con la scusa di avere un altro programma. Per giunta lui odiava la caccia: Susan era stata un’attivista di un gruppo ambientalista.
In coda vide anche un vesuviano. Lo riconobbe come tale per l’incarnato pallido e il caratteristico naso a punta, che lo faceva somigliare a Pinocchio; per il resto era simile a un terrestre. Mike immaginò che si trattasse di un diplomatico in missione e subito ebbe la tentazione di parlargli; poi si ricordò che correvano strane voci sui poteri di quegli umanoidi, così evitò di avvicinarsi troppo e gli altri passeggeri fecero lo stesso.
* * *
La nave stellare Columbus della “Ryan-Interstars” era il classico mezzo di trasporto low-cost. I posti erano molto piccoli e scomodi, tanto che solo le specie umanoidi più minute potevano utilizzare quei voli. Inoltre si dovevano pagare tutti gli extra: il cibo, le bevande, l’uso del bagno e l’ossigeno respirato.
Dopo il grugnito di benvenuto del comandante, la nave si staccò dal molo.
Per raggiungere Vesuvio era necessario attraversare un portale spaziotemporale costruito tra la Terra e la Luna. Quando lo avvistarono, Mike fu colto di nuovo da una certa apprensione: vide un gigantesco disco buio percorso da scariche elettriche e la nave si tuffò al suo interno con decisione. Mentre violente vibrazioni scuotevano ripetutamente lo scafo, i plasmi che costituivano le pareti del tunnel scorrevano a folle velocità. Quel salto sembrava non terminare mai, ma alla fine la nave emerse, con grande sollievo, da un secondo portale proprio di fronte al pianeta.
Lo spettacolo era maestoso: continenti colorati in tutti i possibili toni del rosso, oceani di un blu intenso e sottili nubi cangianti ricoprivano l’intera superficie. Marte al confronto sembrava un sasso incolore. Inoltre, la presenza di due soli e di tre lune di medie dimensioni rendeva le giornate su Vesuvio particolarmente varie e suggestive.
* * *
Al terminal di Korthan U’bak, la capitale del pianeta Vesuvio (i nativi lo chiamano Gohk, cioè “Terra”), Mike si congedò dal gruppo di cacciatori francesi.
Nicole lo ringraziò per averle tenuto compagnia.
«Grazie a te per il sostegno psicologico».
«Di niente. Mi ha fatto piacere conoscerti e mi dispiace che le nostre strade si dividano qui. Vedi… gli uomini che non temono di mostrare le loro fragilità sono rari. Tu… tu sei il primo che incontro».
Mike era imbarazzato e non sapeva cosa rispondere. Sentiva rimbombare nella sua testa le parole di Robert: “Mike, ogni lasciata è persa!”, ma era su quel pianeta per uno scopo e ormai doveva andare fino in fondo. «Magari ci rincontreremo. Vesuvio non è così grande».
Nicole rispose facendo seguire alle parole la sua caratteristica risata: «Hai ragione, ci sono solo sette continenti!» e si salutarono così.
* * *
Mike, rimasto solo, si guardava intorno spaesato. Aveva appena concluso i controlli doganali e doveva cercare un mezzo per l’altipiano dei Maestri Kahnwon.
L’atmosfera conteneva meno ossigeno di quella terrestre, tanto che sembrava di essere in altura, ma per il resto la temperatura era confortevole. Si sentiva però a disagio nel trovarsi tra tutti quei vesuviani pallidi con il naso a punta, senza considerare tanti altri individui extraterrestri dall’aspetto inquietante. Si muovevano in ogni direzione e sembravano non prestargli attenzione.
Si decise e uscì dal terminal. In quel momento il cielo vesuviano era di un giallo intenso a sudovest, dove splendeva un sole, e di un azzurro pallido a nordest. Si poteva vedere una sola luna, ma era decisamente più grande, in dimensioni apparenti, di quella terrestre.
«Qui si potrebbero festeggiare parecchie “Feste della Luna”» disse. Poi chiese all’assistente: «Com’è organizzato il calendario dei vesuviani?»
Dopo qualche momento d’incertezza, l’assistente rispose: «Sto tentando di aprire la voce “calendario” di Wikipedia, ma il segnale della rete risulta assente. Non sembra che il nostro gestore abbia ripetitori su Vesuvio».
Senza collegamento alla rete globale, l’assistente era quasi inservibile. «Lascia perdere. Interrompi la ricerca».
Cominciò a esaminare i taxi parcheggiati di fronte al terminal, utilizzati per i collegamenti interni.
I viaggiatori che uscivano dallo spazioporto sceglievano i mezzi senza esitazioni: salivano, il veicolo acquistava quota e, raggiunta una certa altezza, prendeva velocità. Quasi sempre, dopo un po’, si udiva un caratteristico bang sonico.
Purtroppo, a un’analisi attenta, molti di quei taxi sembravano in pessime condizioni, inoltre non c’era un pilota uguale a un altro; tra di loro nessun vesuviano, né tanto meno umani.
Alla fine decise di rivolgersi a un piccoletto che stava pulendo i vetri del suo velivolo. Non gli arrivava alla spalla ed emetteva uno strano sibilo, ma era il meno ripugnante del gruppo e il suo apparecchio sembrava ben tenuto.
«Capisci la mia lingua? Devo andare all’altipiano dei Maestri Khanwon».
«Io capire! Io pakuro, non stupido».
«Non lo mettevo in dubbio…»
«Io credere molti terrestri grandi maleducati. Vedere piccoletto e dire: io più grande, io più intelligente. Non vero».
«Mi scuso, anche per i miei… conterranei maleducati. Avrei bisogno di un passaggio per…»
«Già detto! Io pakuro, non sordo».
Mike stava pensando di mandare il tassista a quel buco di pianeta da cui proveniva, ma si trattenne. Quindi chiese: «Quanto denaro occorre per un passaggio fino all’altipiano?»
«Denaro, denaro! Denaro non volerci. Io credere molti terrestri pensare sempre denaro».
«Non capisco».
«Governo offrire trasporti per Kahnwon, così turisti andare a frotte. Ma tu non chiedere unica domanda utile».
«E cioè?»
«Io credere molti terrestri stupidi. Unica domanda: quanto tempo volerci! Se meglio riposare in albergo, o partire subito».
«Sì, ce l’avevo sulla punta della lingua» disse ironico.
«Tu fare beffe di me. Tu sapere bene che altipiano Kahnwon, con suo tempio principale Ahmuntah, distare cinquemila vostri chilometri da qui».
Mike era abituato a ragionare in miglia e si fece due calcoli. «Ma è lontanissimo! Anche volando, ci vorrà mezza giornata, se non di più».
«Tu continuare fare beffe di me».
Esasperato chiese: «Perché?»
«Taxi viaggiare sei volte velocità suono: volerci solo 40 vostri minuti».
«Allora preferisco andare subito» concluse Mike, aspettandosi qualche altra sarcastica obiezione.
Invece il pakuro, ormai soddisfatto per le umiliazioni inferte, salì sul biposto. Mike si sedette dietro di lui e indossò il casco.
«Pilota dare benvenuto a passeggero. Allacciare cintura». Poi gli sportelli si chiusero e l’apparecchio decollò in verticale. Raggiunta l’altezza convenuta, si allontanò dalla capitale e superò la barriera del suono.
* * *
Il paesaggio scorreva a grande velocità sotto di loro. Lunghi e profondi canyon si aprivano nel terreno con regolarità, rivelando strati geologici rossastri. Poi passarono sopra a una serie di piccoli laghi su cui, a bassa quota, volavano stormi di bucefali.
«Guardare bucefali, laggiù!»
Mike si sporse e li vide.
«Tu non cacciare bucefali?» chiese il pakuro.
«No, sono contrario a uccidere altri esseri viventi per divertimento».
«Cacciare bucefali divertente, ma anche bucefali buoni da mangiare. Tu non mangiare esseri viventi?»
«Beh, li mangio morti… e sono stati allevati apposta».
«Già, morto non essere vivente…»
«Non intendevo dire questo».
«Allora allevato per morire meglio di vissuto libero? Io credere molti terrestri incoerenti».
Mike abbozzò e si ricordò che il pilota era un pakuro, non uno stupido: doveva riflettere prima di rispondere alle sue domande.
Il paesaggio mutò e i rilievi si fecero più aspri. Era passata mezz’ora dalla partenza e le basse pianure d’erba rossa avevano lasciato il posto a immense foreste di alberi a foglie rosse. I rilievi si sollevavano sempre più e il taxi seguiva il labirinto di pareti rocciose a strapiombo. Poi salirono sull’altipiano.
Dopo dieci minuti, cominciò a stagliarsi in lontananza un’alta costruzione, a forma di piramide, che si innalzava tra la fitta vegetazione. Il taxi la raggiunse e atterrò.
«Io aspettare qui. Essere visita breve, però molto interessante. Pochi terrestri venire qui: tu terrestre insolito». Per come lo disse, quella frase suonava come un complimento.
Mike pensò che il pakuro fosse l’umanoide più scostante che avesse conosciuto, d’altra parte era anche l’unico con cui avesse mai conversato, però in fondo lo trovava simpatico.
* * *
Ai piedi del tempio Ahmuntah, il principale dell’altipiano, partiva una lunga scalinata. I blocchi squadrati dell’edificio, impilati a piramide, si innalzavano per più di duecento metri.
Mentre si arrampicava, ammirava i bassorilievi finemente incisi sulle pietre. Raccontavano incomprensibili storie antiche di migliaia di anni. Durante la salita si fermò spesso per riprendere fiato, sgranocchiava degli integratori che si era portato nello zaino e si reidratava.
Giunto a metà strada, cominciò a notare una figura umana vestita di nero. Si trovava proprio in cima alle scale. Quando gli fu davanti, vide che era un vesuviano, simile a quello che aveva incontrato sulla stazione Yuri Gagarin; gli sembravano tutti identici, ma questo aveva un aspetto diverso, autorevole. Per il resto, l’incarnato era pallido e il naso a punta, come per gli altri vesuviani.
Lo sconosciuto gli disse senza alcun accento: «Vi aspettavamo. Seguiteci».
Quella frase lo colpì, ma poi pensò che fosse una trovata a effetto per sbalordire i visitatori. Anche l’uso delle persone plurali era insolito, ma cosa poteva pretendere da un extraterrestre?
Seguirono il cunicolo scuro che si addentrava nella piramide e giunsero a una porta in pietra. Il vesuviano indicò un contenitore e disse: «Appoggiate là quello che portate».
Lasciò lo zaino.
«Tutto!» disse perentorio l’umanoide, ed elencò: «Gli occhiali, l’auricolare e l’assistente digitale nel taschino».
Dopo aver depositato quegli oggetti, Mike si sentì come nudo; erano ormai parte di lui, registravano ogni momento della sua vita e spesso lo guidavano nelle scelte.
«Non preoccupatevi: li riprenderete al vostro ritorno».
In quel momento la porta, scorrendo lateralmente, si spalancò. Entrarono in un’ampia sala dal soffitto basso. Tutt’intorno erano seduti, in ordine sparso, altri umanoidi vestiti di nero. Avevano un cappuccio sul capo da cui spuntava solo il naso e sembrava che recitassero delle litanie a bassa voce.
Dalle lunghe feritoie che si aprivano nelle pareti; filtrava la luce di due soli bassi sull’orizzonte.
«Non vi state chiedendo se siano albe o tramonti?»
Mike si stava domandando qualunque cosa tranne quella, ma rispose di sì.
«Il sole azzurro sorge e il sole giallo tramonta. In questo periodo si intravedono solo per pochi momenti. Per congiungersi devono aspettare quasi trecento dei vostri anni».
«Hanno molta pazienza» constatò Mike ironico.
Il vesuviano indicò un sedile in pietra e disse: «Accomodatevi».
Gli incappucciati si alzarono e uscirono dalla stanza. In quell’istante il sole giallo scomparve sotto l’orizzonte e la sala rimase illuminata dalla luce azzurra dell’altro sole.
«Ci chiamiamo Hach Bahtur» disse il vesuviano. A quella luce, la pelle risultava ancora più pallida e l’ombra del naso a punta rendeva la sua lunghezza più evidente. «Siamo il 142° maestro del tempio Ahmuntah. Sappiamo chi siete e il nome che portate: Michael Pizzileo, analista cibernetico della Terra. Doveva capitare, prima o poi, per quanto improbabile potesse essere, che un terrestre di nome Pizzileo giungesse al tempio Ahmuntah. Abbiamo assistito a questo evento e ce ne compiacciamo».
Mike era sbalordito. Si chiedeva come facesse a sapere così tante cose. Sospettò dei francesi, ma non era possibile che fossero passati prima di lui.
«Non ponetevi domande che non hanno risposta, ma chiedetevi perché siete qui».
La confusione cresceva nella testa di Mike. Perché era lì? Possibile che una cinese di vent’anni lo avesse convinto a viaggiare per decine di anni luce fino a un lontano pianeta della Galassia, per poi salire sulla cima di una piramide dove lo aspettava il 142° maestro del tempio Ahmuntah, di cui non ricordava più il nome?
«Sì, Michael» disse il vesuviano, come se avesse ascoltato i suoi pensieri. «Ciò che non è impossibile, prima o poi, in qualche parte del Cosmo, accadrà. Non potevate prevederlo: se ci foste riusciti, sareste stati dei pazzi».
Si sentì sollevato. In quel momento era confortante che un vesuviano col naso a punta, che viveva in cima a una piramide, sapeva tutto di lui e gli si rivolgeva come se fosse tante persone in una, gli dicesse che non era pazzo.
Hach Bathur si avvicinò e gli pose una mano sulla testa, ma Mike si ritrasse timoroso.
«Non temete, sappiamo molte cose, ma non tutto. Dobbiamo scoprire il vero motivo per cui siete qui».
Appoggiò di nuovo la mano sulla testa di Mike; mise il pollice su una tempia e il mignolo sull’altra.
«Svuotate la mente. Concentratevi!»
Questa parte gliel’avevano già insegnata i monaci Shàolín e si piccava di essere piuttosto bravo. Si concentrò. La sua psiche fluttuava nel vuoto, libera… finché non si ricordò di Susan! Era incredibile, fino a quell’istante si era dimenticato di lei. Non c’era mai riuscito così a lungo.
Hach Bathur staccò la mano. Aveva visto ciò che gli serviva e si accasciò, esausto, su un sedile di fronte a Mike.
Dopo aver ripreso fiato, disse: «L’attaccamento alla vostra donna è solo un sintomo, in realtà siete colpiti da una sottile malattia psichica».
Mike era sorpreso: il suo terapista non gliene aveva mai parlato.
«È nota come “sindrome da assistente”. Molti umani ne sono affetti: col tempo perdono il coraggio di decidere, si aggrappano alle abitudini e lasciano che altri scelgano per loro; se qualcosa cambia nella loro vita, vanno in crisi. Non è facile da riconoscere, ma vi hanno consigliato bene: se volete guarire, abbiamo la cura».
Mike non era convinto di quella diagnosi, ma lasciò che il Maestro continuasse.
«Per guarire dovete comprendere in cosa consiste l’essenza dello scegliere; non è una disposizione della psiche, ma fa parte della natura stessa del Multiverso».
Continuava a non capire di cosa stesse parlando, ma non osò interrompere.
«Ora avrete due possibilità e dovrete scegliere con attenzione».
Hach Bathur porse due pastiglie: una verde nella mano destra e una gialla nella sinistra.
«Se sceglierete la pillola verde, domani vi sveglierete in albergo riposati. Non sarete guariti, ma starete bene: questa droga fa miracoli. Se invece sceglierete la pillola gialla, scoprirete la verità e potrete trovare in voi stessi le motivazioni per guarire».
Mike pensò che fosse un test, ma qual era la scelta giusta? Era combattuto. I termini della questione non erano chiari, ma decise che non era arrivato fin lì solo perché gli prescrivessero una nuova medicina: voleva conoscere la verità e quindi prese la pillola gialla.
«Avete scelto» disse il Maestro compiaciuto, e gli porse una ciotola d’acqua.
* * *
Bevve; la pillola arrivò nello stomaco, ma non successe nulla. Allora Mike si azzardò a chiedere: «Cos’è il Multiverso?»
«Tra poco lo saprete. Ma voi siete analisti cibernetici, dovreste aver studiato la meccanica quantistica».
«Sì, è una teoria fisica che descrive il comportamento delle particelle elementari. Nella sua formulazione relativistica, è la teoria più precisa che si conosca. Le sue previsioni si spingono fino a una ventina di ordini di grandezza, se non di più. È come se si potesse misurare la distanza tra la terra e il sole con la sensibilità del diametro di un capello umano».
«Dite bene, ma la definireste una teoria deterministica?»
«No, in realtà le previsioni della teoria riguardano solo le probabilità degli eventi. Utilizzando opportune equazioni si può stimare se il risultato di una misura assumerà, con una certa probabilità, determinati valori oppure altri. Ad esempio, un elettrone chiuso in una scatola si può trovare al centro oppure ai lati. La teoria ci dice quante volte, aprendo la scatola, lo troveremo al centro».
«Perciò, quando apriamo, dov’è?»
«Si ottiene solo uno dei risultati possibili. L’elettrone è al centro oppure ai lati, ma solo in un posto».
«E finché non apriamo?»
«Beh, non ha senso porsi la domanda: quando si determina la sua posizione, sarà in un punto preciso che non si può conoscere a priori».
«Ben detto! Sapete anche chi era Hugh Everett?»
Mike ci pensò, ma quel nome non gli ricordava nulla. Allora Hach Bathur continuò: «Era un fisico terrestre che più di un secolo fa intuì la verità, già nota alla nostra civiltà da centinaia di anni. La sua teoria però non ebbe seguito».
«Qual era la sua idea?»
«È molto semplice, ma anche assurda in apparenza: tu apri la scatola e trovi l’elettrone al centro», a sorpresa era passato al ‘tu’. «Questo è ciò che hai sperimentato, ma un altro te stesso in un universo alternativo generato da quella azione troverà l’elettrone a destra, un altro ancora a sinistra, e così via. L’osservazione obbliga l’elettrone a scegliere, ma non è costretto a trovarsi qui o là. Deve rispettare solo delle probabilità e così sceglie tutte le possibilità, una per ogni universo. Questo avviene in modo incessante per ogni particella del Cosmo e gli infiniti universi così generati formano il Multiverso».
Mike era sconcertato. Era una tesi pazzesca, come potevano sostenerla? Una volta separati, non c’era modo di osservare gli universi alternativi. Ma in quel momento cominciò a sentirsi strano.
«So cosa state pensando, che tutto ciò è incredibile», disse tornando al ‘voi’. «Nessuno può convincervi, dovete vedere voi stessi».
I succhi del suo stomaco avevano dissolto la capsula gialla e il principio attivo della pillola era entrato in circolazione. I primi effetti si manifestavano. Sembrava che Hach Bathur si sdoppiasse leggermente, due Maestri identici ma distinguibili.
Quindi vide innumerevoli se stesso che, al contrario di lui, avevano preso la pillola verde. Stavano uscendo dalla piramide accompagnati dal Maestro che diceva: «Avete scelto. Ecco un sacchetto di pillole verdi; fatene buon uso».
Ma vide anche universi che si erano ramificati molto tempo prima: in alcuni era ancora sposato con Susan; in altri era impazzito e aveva ucciso il suo terapista, l’amico Robert e Kun Feng, il suo capo; in altri ancora, non era mai partito per Vesuvio, ma era uscito con Zhou Yang e aveva scoperto perché alle asiatiche piacciono tanto i baffi; nei restanti, infine, non aveva mai raggiunto il tempio, perché era andato a caccia di bucefali con Nicole. Tutte queste possibilità avevano infinite variazioni che differivano per lievi sfumature.
Poi quegli universi collassarono e si ritrovò nella sala del tempio: una luce azzurra illuminava il volto pallido di Hach Bathur proiettando l’ombra del suo naso a punta.
«Tutto quello che ho visto è… reale?»
«Non sappiamo esattamente cosa avete visto. L’estratto di ptahk produce effetti diversi in individui differenti. È da pochi anni che abbiamo trovato il dosaggio corretto per gli umani. Forse avete visto quello che poteva essere; noi crediamo che quelle storie alternative siano reali e stiano avvenendo per i noi stessi che si sono incanalati in un altro ramo del Multiverso. Spesso la strada che prendiamo non dipende da noi: basta una sola particella che decida per una via o per l’altra, ma in realtà tutte vengono intraprese».
Mike doveva abituarsi all’idea, ma in fondo molto di quello che aveva visto lo rasserenava.
Hach Bathur continuò: «Potrebbe essere di conforto sapere che alcuni di voi vivono ancora con la loro moglie, oppure scoprire che poteva andare peggio di com’è ora. Però tenete conto che, in ogni istante, si creano nuove strade da percorrere per noi, per gli altri e per l’elettrone chiuso nella scatola».
Quindi il Maestro si alzò. «Adesso conoscete la verità. Fatene tesoro per le vostre scelte future. Vi accompagniamo all’uscita».
Mike scese i gradini soprapensiero.
Al fondo si trovò di fronte il pakuro che gli chiese: «Cosa volere fare?»
Ora Mike sapeva che, qualunque scelta avesse fatto, un altro se stesso avrebbe optato per qualcosa di diverso. Toccava a lui intuire, per quel poco che poteva decidere, la cosa da fare per ritrovarsi nel migliore degli universi possibili, con la magra consolazione che qualcuno di loro, comunque, l’avrebbe azzeccata.
Mentre rifletteva, gli venne in mente Nicole e così rispose al pakuro: «Cosa voglio fare? Mi piacerebbe andare a caccia di bucefali».
L’umanoide sibilò e disse: «Scelta intelligente. Non terrestre stupido come sembrare».
Mentre i maestosi paesaggi di Vesuvio scorrevano sotto di lui, Mike ripensava alla sua vita e ai futuri possibili. Non poteva prevedere dove tutto questo l’avrebbe portato, ma di una cosa era certo: ormai non invidiava più i suoi se stesso che erano ancora sposati con Susan.
F I N E

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