domenica 3 marzo 2013

Effetto collaterale

Horror, 15480 caratteri, versione 2.0


EFFETTO COLLATERALE
di
Leonardo Boselli


Il dottor Jordan lesse con cura la cartella clinica e commentò: «Le sue caratteristiche sono davvero eccellenti. Cerchiamo proprio una persona come lei».
A quelle parole, Michael si sentì rassicurato, perché quel lavoro gli era necessario. Aveva già provato di tutto per mantenersi agli studi, ma il posto da sguattero gli portava via troppo tempo, e le banche del sangue e del seme non erano abbastanza remunerative: c’era troppa concorrenza di studenti squattrinati e bisognosi di pagare affitto e rette universitarie.
«Sì, lei è proprio il nostro candidato ideale», ribadì il dottore dopo aver sollevato lo sguardo dalla cartella. Michael si sentì osservato. Jordan, attraverso i suoi spessi occhiali, lo scrutava con attenzione.
«Ne sono felice», rispose. «Ha detto che il compenso è di mille dollari anticipati, vero?»
«Sì, anticipati. Se la cosa le interessa, firmi questo contratto standard e la liberatoria, indichi il beneficiario dell'assicurazione sulla vita e si presenti domattina alle otto».
Michael lesse i fogli del contratto. Erano riportate le solite clausole che conosceva a memoria e aveva già siglato varie volte: ormai si poteva considerare una cavia da laboratorio professionista.
Il medico si alzò e fece il giro della scrivania. Si tolse gli occhiali, li ripose nel taschino del camice e, mentre stringeva la mano a Michael, disse: «Il suo contributo ci sarà molto utile. Sono felice che sia dei nostri».
In quel momento il dottore gli ricordò suo padre. Sì, proprio il padre, che al termine del liceo voleva imporgli di intraprendere la carriera di ricercatore in medicina, seguendo le sue orme. Michael si era rifiutato. Ricordava con orrore il laboratorio di biologia del liceo dove era costretto a sezionare disgustose rane, e non voleva avere nulla a che fare con le cavie da laboratorio.
Quando scelse la facoltà di giurisprudenza, il padre andò su tutte le furie e non volle finanziare i suoi studi, perché odiava gli avvocati: quegli squali che, aizzati da parenti ingrati, si avventavano su di lui ogni volta che moriva un suo paziente.
Per questo motivo adesso Michael era costretto a fare da cavia, ancora una volta, per chissà quale esperimento.
Mentre se lo domandava, disse: «Di solito non chiedo la finalità della ricerca a cui collaboro, ma questa volta...»
«È un suo diritto», rispose il dottor Jordan interrompendolo. Prese alcune foto da una cartella che aveva sulla scrivania e le mostrò a Michael. «Guardi questa cavia, prima e dopo il trattamento: è stupefacente!»
Osservò con attenzione. Nella prima foto compariva un roditore grasso, anzi decisamente obeso. Nella seconda, scattata tre settimane dopo, come si evinceva dalla data sovrimpressa sull'immagine, la bestiola appariva molto magra, ma comunque in forma.
«È la stessa cavia?», chiese Michael scettico.
«Sicuro! La sostanza che stiamo testando è miracolosa. Non abbiamo ancora capito perché non si ottengono gli stessi effetti sugli esseri umani, ma stiamo facendo progressi. Certo, se le cavie parlassero sarebbe tutto più facile: potremmo effettuare un'analisi precisa di ciò che avviene durante il trattamento, ma per ora siamo costretti a muoverci a tentoni, come sempre d'altronde. Comunque può ben immaginare le implicazioni sulla qualità della vita che potrebbe avere questo medicinale per moltissime persone. Si sente più tranquillo ora?»
«Sì, ma io non sono obeso».
«Non si preoccupi di questi dettagli. Il suo contributo ci sarà utile», disse il dottore con tono rassicurante, mentre gli sventolava davanti al naso, come un trofeo, la foto della grassa cavia da laboratorio. Poi, dopo aver riflettuto, continuò con soddisfazione: «Non sono autorizzato a rivelarle altri particolari, ma ci tengo a farle sapere che il farmaco anti-obesità è solo il primo test: ben altre malattie potranno essere affrontate efficacemente grazie alla tecnica che lei contribuirà a perfezionare. Potrà esserne orgoglioso».

* * *
Michael si sentiva imbarazzato. Era coperto solo da un camice troppo corto e l'infermiera era davvero carina. Senza un filo di trucco, con i capelli biondi raccolti nel copricapo e un seno prorompente chiuso nella camicetta bianca, sorrideva e faceva domande senza importanza per distrarlo, mentre cercava la vena sul braccio destro. Lui non rispondeva, perché tentava di trattenere disperatamente la sua eccitazione per quel contatto così ravvicinato. Gli capitava spesso quando aveva a che fare con una bella donna, ma in quel momento non aveva modo di dissimularlo.
«Ecco. Non c’è voluto molto, vero?» disse l'infermiera estraendo l'ago.
Michael vide che la ragazza si era accorta della sua reazione involontaria e rispose balbettando: «Mi... mi dispiace».
«Non si preoccupi, capita a tutti. Ne sono lusingata». Lo disse con un tono comprensivo, come se ci fosse abituata. Quindi, dopo avergli applicato i sensori di un rilevatore, aggiunse: «Ora si giri sul fianco. Inietterò il principio attivo».
«Non dovrebbe essere presente il dottor Jordan?»
«Il supervisore sta osservando la procedura dal monitor».
Michael si guardò intorno e si accorse solo in quel momento di una telecamera appesa in un angolo della stanza con una spia rossa accesa.
«Ora stia fermo. Si tratta di un'iniezione intramuscolare. Non farà male: ho la mano molto leggera».
Era vero. Michael non sentì quasi nulla.
«Io ho finito. La lascio. Si distenda e si rilassi».
Seguì l'infermiera con lo sguardo mentre usciva dalla stanza portando con sé le siringhe e una fiala del suo sangue. Prima di chiudere la porta, la ragazza gli sorrise.
Michael si sollevò sui gomiti e si mise a osservare il locale. Era spoglio. C'era solo quel lettuccio nel mezzo, il totem con una serie di monitor che rilevavano le tracce delle sue pulsazioni e la telecamera che lo fissava in un angolo. Infine due tubi al neon appesi al soffitto illuminavano intensamente la stanza, tanto che le pareti tinte di bianco risultavano abbacinanti.
La cosa più interessante era una gabbietta in cui erano rinchiuse due cavie, tuttavia non riuscì a osservarle meglio perché ebbe un capogiro. Gli sembrò che quelle mura si allontanassero da lui, ma non fece in tempo a capire che cosa gli stesse succedendo, e ricadde sul lettino privo di conoscenza.
* * *
Michael pensava d’aver dormito per ore. Sentiva una voce molto distante. Qualcuno lo chiamava, ma non riusciva a capire se fosse lontano da lui nello spazio o nel tempo.
Era buio. Aveva cercato ripetutamente di sollevarsi, ma senza successo. Il suo corpo era immobile, inerte. Per quanto si sforzasse, le sue braccia restavano incrociate sul petto, come legate da una camicia di forza. Poteva muovere solo gli occhi. Vedeva nella semioscurità la stanza, i monitor accanto a lui e la telecamera nel suo angolo. Si sorprese nel constatare che fosse tutto spento.
Dopo numerosi tentativi di muoversi, rimasti infruttuosi, si ricordò d’aver già vissuto quella situazione da bambino. Credeva di essere nel suo letto ormai sveglio, ma in realtà dormiva ancora profondamente e stava sognando: sognava d’essere sveglio nella sua camera.
Ora provava la stessa sensazione. Vedeva intorno a sé la stanza, ma era solo un’esatta replica nella sua immaginazione. La volontà non era sufficiente a muovere il suo corpo; era come se la sua mente vi fosse imprigionata. Doveva arrendersi e, forse, si sarebbe svegliato.
La voce riprese a chiamare: «Winston, Michael Winston».
In quell’istante gli sembrò che la luce si riaccendesse e, mentre il suono di quelle parole terminava di rimbombare nella sua testa, con uno sforzo sovrumano cercò di sollevarsi sul lettino.
Ebbe un attimo di smarrimento. «Chi mi chiama?» chiese più volte, ma non ottenne risposta.
L’incubo sembrava finito, ma non si sentiva veramente sveglio. Si chiese che cosa gli avessero iniettato e pensò che la cavia obesa aveva di certo provato quelle stesse sensazioni, ma non gli era stato possibile descriverle ai ricercatori: lo avrebbe fatto lui, non appena fosse riuscito a scuotersi.
Percepì una serie di deboli rumori alla sua sinistra, come se delle minuscole unghie graffiassero delle inferriate metalliche. Quindi fece un ultimo sforzo e riuscì a voltare di poco la testa di lato: vide accanto a lui la gabbia in cui erano imprigionate le due cavie. Una di esse correva avanti e indietro, mentre l'altra era tranquilla, come rassegnata a non poter fuggire da quella piccola prigione.
La cavia immobile lo fissava imperturbabile, nonostante l'agitazione della compagna. Solo gli ispidi baffi, attorno al muso appuntito che fiutava l'aria, vibravano di tanto in tanto. Gli puntava addosso due occhietti neri che spiccavano sul pelo chiazzato. Quello sguardo, se di sguardo si poteva parlare, era enigmatico: Michael non capiva perché, ma gli sembrava di averlo già incrociato. Era assurdo pensare di aver conosciuto quel roditore, però in quello stato di semi-incoscienza gli sembrò familiare, così si mise a parlargli.
«Chi sei? Perché mi hai chiamato?»
La cavia taceva e continuava a scrutarlo con i suoi occhietti.
«Perché mi fissi?»
Le sue domande cadevano nel silenzio più totale.
Quindi cercò di voltarsi verso la telecamera e gridò: «Dottor Jordan, cosa sta succedendo?»
Anche quella frase non ottenne risposta, anzi ebbe l’agghiacciante sensazione di non aver pronunciato alcuna parola e che nulla avesse rotto il silenzio da quando aveva ripreso conoscenza, a parte l'incessante ticchettio delle unghie sul fondo della gabbia.
In quel momento si aprì la porta ed entrò il dottore seguito dall’infermiera. Pensò che fossero venuti perché lui li aveva chiamati, ma lo ignorarono. Si interessarono solo ai valori indicati sui monitor.
«I parametri sono nella norma» disse il dottor Jordan. L’infermiera prese alcuni appunti su una cartella che teneva in mano, poi misurò la pressione ed eseguì altre analisi sommarie.
Michael cercava di richiamare la loro attenzione, gridava, si disperava, ma era tutto inutile: nonostante i suoi sforzi, il suo corpo giaceva inerte sul lettino e la voce gli si strozzava in gola.
Nel frattempo l'infermiera aveva estratto la cavia agitata dalla gabbia.
Il dottor Jordan prese una siringa e aspirò un liquido da una fiala. Senza molti riguardi iniettò il contenuto nel braccio destro di Michael. Attese qualche minuto, aspirò con la stessa siringa del sangue dal braccio e disse: «Signorina, segni sulla cartella: dopo un quarto d’ora dalla prima somministrazione, abbiamo iniziato la seconda fase».
Fu una strana sensazione. A Michael sembrò di fluttuare nello spazio e nel tempo. Aveva consapevolezza di sé, ma fu come se i suoi organi sensoriali non comunicassero più con lui. Non provava dolore, non vedeva né percepiva nulla, se non il fatto di pensare, e perciò di esistere. Finché a un tratto, sentì di nuovo il caldo della pelle, odori pungenti, suoni attutiti e una forte luminosità che lo abbacinava.
Gli ci volle del tempo per riprendersi. Quando recuperò la vista, gli sembrò di vedere il mondo con occhi nuovi. Non riusciva a mettere bene a fuoco e gli sembrava di non vedere più i colori. Appena riuscì a guardarsi intorno, si accorse di essere in una grande gabbia e fu colto dal terrore quando vide accanto a sé un'enorme cavia che lo fissava, mentre del dottore e dell'infermiera non c'era più alcuna traccia.
Credette di vivere un incubo e si lanciò sulle sbarre. L'urto doloroso col metallo gli fece sanguinare il muso. Tentò più volte senza ottenere nulla, se non dolorose ammaccature. Alla fine, sfinito, si lasciò cadere sul fondo della gabbia. Con raccapriccio vide che le sue mani si erano trasformate in mostruose zampe da roditore.
«È tutto inutile».
Michael, sorpreso da quelle parole, focalizzò l'origine della voce che le aveva pronunciate. La cavia continuava a fissarlo. Sembrava che avesse parlato, o almeno gli era parso, così gli chiese: «Cosa mi sta succedendo? Cosa significa tutto questo?»
La cavia, mostrando i dentini come se davvero parlasse, riprese: «Non mi hai riconosciuto? Sono Andrew Nicholson».
Michael si ricordò di quel nome. «Sei lo studente scomparso il mese scorso! Che incubo è mai questo? Cosa ci fai qui ridotto così?»
«La stessa cosa che hai fatto tu. Ho contribuito al progresso della scienza, ma qualcosa non è andato secondo le previsioni e hanno preferito liberarsi del mio cadavere. Presto si sbarazzeranno anche di questo mio nuovo corpo».
Fece una pausa significativa e allargò le zampette, come se volesse presentarsi nella sua miseria, poi aggiunse: «Ti aspettavo perché ho un messaggio da affidarti. A me è stato lasciato da coloro che ci hanno preceduto».
«Ci hanno preceduto? Chi erano? Quanti sono stati?»
«Altri cinque. Ricordati dei nostri nomi. Se riuscirai a tornare, devi raccontare cosa ci è successo. Nessuno ti crederà, è certo, ma per ognuno di noi potrai fornire una serie di solide prove e, forse, i colpevoli pagheranno per ciò che ci hanno fatto».
Quindi raccontò tutto quanto sapeva e ciò che i predecessori gli avevano detto di ricordare, ma a un certo punto Michael si sentì pervadere da un forte calore. Allarmato chiese cosa gli stesse succedendo.
«Sta iniziando la seconda fase. Io ho assolto al mio compito, ora posso affrontare il mio destino in pace».
«Ma come farò a tornare?!»
«Dopo aver effettuato vari esperimenti su di te, ripeteranno il trasferimento. Distaccheranno la tua anima, la sede della coscienza e della consapevolezza di sé, la riscatteranno dalla sua attuale, miserabile condizione, per far rivivere il tuo vero corpo e avere da te un rapporto dettagliato. Ma dimmi: ti hanno istruito su questo punto?»
«No, non ne sapevo assolutamente nulla!»
«Allora è probabile che anche tu sia un esperimento a perdere, affinché i futuri trasmigratori possano effettuare i trasferimenti senza incidenti. Purtroppo finora si è sempre verificato un tragico effetto collaterale: l'esperimento separa l’anima dal corpo, e il corpo senz’anima non sopravvive».
Michael avrebbe voluto svegliarsi da quell'incubo, avrebbe voluto gridare tutta la sua incredulità, ma il calore divenne presto intollerabile. Gli sembrò di avere benzina incendiata al posto del sangue e perse conoscenza.

* * *
I monitor erano impazziti. Il dottor Jordan cercò disperatamente di rianimare il corpo.
«Credevo davvero di aver trovato il giusto dosaggio».
L’infermiera gli rispose con un tono comprensivo, come se ci fosse abituata: «Non deve abbattersi. La prossima volta andrà meglio».
Il dottore applicò il defibrillatore sul petto di Michael e ordinò la scarica, il corpo s’inarcò, ma il cuore non riprese a battere. Provarono e riprovarono, aumentando a ogni tentativo il voltaggio, finché non desistettero.
Michael non aveva di che lamentarsi: ce l’avevano messa tutta per salvarlo.
«Non c’è nulla da fare. Indichi sulla cartella l’ora della morte».
«Devo richiedere al servizio di sicurezza la solita procedura?», domandò l’infermiera.
«Sì», rispose il dottore sconsolato. «Ah, sopprima la vecchia cavia e la prepari per l'autopsia. Voglio confrontare i suoi parametri fisiologici con quelli delle altre».
Presero Andrew, che non offrì alcuna resistenza, e lasciarono Michael solo nella gabbia. Adesso era il suo turno d’aspettare. Era sicuro che non avrebbe dovuto attendere a lungo: di studenti squattrinati era pieno il Campus. Se ci fosse riuscito, avrebbe affidato il messaggio al suo successore. Poi avrebbe atteso. Prima o poi anche lui sarebbe stato soppresso e solo allora la sua anima sarebbe riuscita a evadere dalla sua prigione. Doveva soltanto avere pazienza.
F I N E

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