sabato 2 marzo 2013

Io rinascerò

Thriller-zen, 7722 caratteri, versione 1.0


IO RINASCERÒ...
di
Leonardo Boselli


Un vento gelido soffiava a raffiche tra gli scheletri degli alberi e sollevava mulinelli di neve. L’odore dei lupi, che lo inseguiva da ore, diventava sempre più intenso: lo poteva percepire con chiarezza, acre e selvatico, nell’aria resa pura dal freddo. Ormai non si preoccupavano più di rimanere sottovento.
Affondava continuamente nella neve; i suoi movimenti erano lenti e ogni passo gli provocava dolori lancinanti. Aveva perso troppo sangue.
Si guardò intorno. Scrutò tra i rami e i cespugli secchi, nella foschia che aleggiava sulla neve, ed eccoli! Nella penombra del crepuscolo, tra i tronchi in letargo, si delinearono le sagome di lupi famelici che ansimavano fiutando le sue tracce.
Il suo ultimo passo affondò nella morsa gelata della neve fresca. Non sapeva se sarebbe riuscito a trovare la forza per liberarsi ancora una volta.


Il fuoristrada s’inerpicava con rapidità lungo la strada di montagna. Il sergente Wang si divertiva a scalare le marce e ad affrontare con decisione ogni tornante di quell’interminabile salita, mentre il caporale Xian sentiva crescere un forte senso di nausea.
«C’è ancora molto?»
«No, ormai siamo arrivati».
I boschi della regione erano piuttosto fitti, ma a tratti si aprivano ampie radure illuminate dal sole.
Il sergente arrestò il veicolo lungo il ciglio della strada accanto a un cartello che indicava la distanza dal confine di stato: un chilometro.
«Ecco, l’elicottero lo ha perso in questo punto».
Il caporale ne approfittò per scendere e si ritrovò a un passo dal precipizio. Il senso di vertigine che provò nel vedere la parete a picco sotto di sé gli prese lo stomaco: trattenne a stento un conato.
«È una vista che toglie il fiato, non è vero?» commentò divertito il sergente, poi estrasse il suo fucile di precisione dal bagagliaio e se lo mise a tracolla.
Il caporale respirò ampie boccate d’aria fresca. Dopo essersi ripreso, imbracciò a sua volta il fucile e seguì il sergente inoltratosi nella boscaglia.
«Qui ci sono delle tracce fresche».
I rami spezzati segnalavano il passaggio di un uomo, o di un animale di piccola taglia, mentre la linfa indicava che la rottura era avvenuta poco prima.
In quell’istante l’elicottero sorvolò i due militari: stava pattugliando il bosco tra la strada e la linea di confine alla ricerca del fuggitivo.
«Muoviamoci! È ferito, ma ha molto vantaggio».
I due soldati seguirono le tracce e, spostandosi di corsa attraverso il fitto sottobosco, raggiunsero una radura. La traccia nell’erba era fin troppo evidente, ma puntava in una direzione sbagliata: non era quella la via più breve per il confine.
Il sergente Wang imbracciò il fucile e, attraverso il mirino telescopico, si mise a osservare con attenzione gli alberi in lontananza, mentre il commilitone muoveva qualche passo nell’erba alta della radura. A un tratto il caporale sentì un rumore di vetri infranti sotto l’anfibio destro, si piegò e raccolse un paio d’occhiali rotti.
«Ora è come cieco!»
Iniziarono a correre seguendo l’erba calpestata e si addentrarono nuovamente nel bosco. Le tracce erano evidenti, ma le persero quando giunsero al letto d’un torrente. Quindi salirono su uno sperone roccioso da cui si poteva dominare la rada boscaglia. Il caporale si mise a osservare la zona con il binocolo.
«Vedi niente?»
«È come cercare un ago in un pagliaio».
Poi si fermò e disse: «Ma guarda... c’è un grosso cervo che pascola lungo il crinale».
Il sergente imbracciò il fucile e guardò l’animale attraverso il mirino. Era un bellissimo esemplare che ruminava tranquillo. Il passaggio dell’elicottero non sembrava averlo troppo infastidito. Abbassava la testa per strappare con la lingua lunghi ciuffi d’erba e ogni volta la rialzava mostrando fiero un elaborato palco di corna ramificate.
«Un bellissimo maschio. Purtroppo non siamo qui per cacciare... non cervi comunque».
Mentre diceva queste parole l’animale voltò di scatto la testa e smise di ruminare. Fissava allarmato un particolare cespuglio.
«L’abbiamo trovato!» disse il sergente. Regolò l’alzo, prese la mira con calma e sparò. Il colpo risuonò per tutta la valle e spaventò il cervo che si addentrò a testa bassa nella boscaglia.
Quando raggiunsero il fuggitivo, trovarono il suo cadavere seduto a gambe incrociate appoggiato a un albero. Indossava ancora il suo abito arancione da monaco, che portava anche in quell’occasione con autorevolezza. L’unica cosa che non era al suo posto era il suo inseparabile paio d’occhiali.
Il sergente lo aveva colpito al petto, un bel colpo preciso, e il corpo era rimasto immobile con la schiena contro il tronco. Quando gli sollevarono la testa, videro un volto che sembrava sereno.
«Un fanatico di meno», commentò il caporale.
«Beh, secondo il suo credo, non tarderà a reincarnarsi».
«Ma noi saremo ancora qui ad aspettarlo», concluse il caporale ridendo.
Nel frattempo, dopo aver trovato un angolo più tranquillo, il cervo aveva ripreso a brucare l’erba.

La morsa del gelo, più affilata di una tagliola, gli aveva afferrato le zampe. Urlò la sua impotenza e il bramito giunse lontano, ne sentì rimbombare l’eco tra le rocce e gli alberi addormentati.
A quel grido i lupi si eccitarono, affondarono il muso nella neve macchiata dal suo sangue, mostrarono le zanne e ringhiarono arruffando il folto pelo della groppa. La loro frenesia raggiunse il parossismo e si avventarono con vigliaccheria sulle sue zampe posteriori.
Scalciando, sollevò nuvole di neve e li respinse, poi compì un ultimo faticoso salto, ruotò la testa e colpì con i suoi poderosi palchi i predatori più imprudenti, quelli che per inesperienza si erano esposti troppo. Un paio di loro si ritirarono: guaivano leccandosi le ferite.
Fu una vittoria di breve durata, perché presto tornarono all’attacco. Il capobranco, un enorme lupo dal folto pelo grigio, i cui occhi fiammeggiano minacciosi nell’oscurità, scatenò i suoi compagni più fidati. Dopo una serie di assalti ripetuti, lo azzannarono al collo e per il loro peso si rovesciò nella neve. Le sue zampe scalciavano disperatamente, ma a vuoto.
Le zanne serrate sulla sua trachea lo soffocavano; avrebbe voluto reagire ma le forze lo abbandonavano. Si stava arrendendo e mentre la vita lo lasciava, si ricordava di ogni momento trascorso.
Ciò che gli tornava alla mente era sorprendente: dai tristi inverni alla faticosa ricerca di cibo nascosto dalla neve, ai feroci duelli contro gli altri maschi nei prati primaverili per la conquista delle femmine, fino al giorno in cui mosse i primi passi tra le zampe di sua madre; per poi scoprire altre memorie cancellate dai decenni e dai secoli, altre vite, vecchi peccati da scontare, remoti desideri da reprimere.
Mentre assisteva alle epoche trascorse, l’esistenza acquistava un altro significato e l’estenuante lotta per la sopravvivenza diventava priva di senso. Alla fine si arrese.
Il capobranco, che vittorioso si era avvicinato al suo muso e aveva scoperto i canini in quello che poteva sembrare un ghigno di scherno, stupito dalla sua serenità ordinò ai gregari di allentare lievemente la presa e gli chiese: «Non hai paura di morire?»
Sostenuto dalle forze residue, rispose che non temeva più la morte. Il lupo, sempre più curioso, gliene chiese il motivo.
«Perché ho ricordato che nella mia vita precedente anch’io sono stato un cacciatore e tornerò ad esserlo nella successiva», quindi un’ultima illuminazione lo attraversò con un fremito: avrebbe riso di gusto, se avesse potuto farlo.
«E ora che ti prende?»
«Sono contento perché ho scoperto che nella tua prossima vita tu sarai un cervo».
In genere i lupi non si lasciano impressionare da dubbi esistenziali. Il capobranco infatti sembrò divertito da quella rivelazione e, dopo aver soddisfatto la sua curiosità, lasciò che i suoi compagni si sfamassero sbranando il cervo.


F I N E

0 commenti:

Posta un commento