Il vicolo dei fabbri
di
Leonardo Boselli
Il sole stava calando dietro le colline a occidente di Gerusalemme. Ponzio Pilato, il governatore della Giudea, stava dettando una lettera al suo segretario sulla terrazza della sua residenza, quando s’interruppe per osservare il tramonto. In lontananza si scorgevano le mura del tempio illuminate dalle ultime luci del giorno.
La città sembrava tranquilla, ma dietro quelle pareti bianche covava un odio viscerale. Quel popolo mite avrebbe sopportato ancora una volta la dominazione di genti straniere, ma non si sarebbe mai fatto assimilare; non c’erano riusciti gli egiziani e neppure i babilonesi: avrebbero fallito anche i romani.
Il governatore si lasciò trasportare dai suoi pensieri. Le rivolte degli Zeloti non destavano la sua preoccupazione – erano sempre state soffocate nel sangue – e concluse che era sufficiente che i Giudei pagassero le tasse: nessuno lo aveva mai fatto senza lamentarsi e, in fondo, quel popolo si lagnava in modo meno fastidioso di altre genti.
Pilato sorrise di quel pensiero, ma fu subito colto da un fastidioso prurito alle mani e provò il desiderio irrefrenabile di grattarsi. Quindi si voltò verso il suo segretario, che era in paziente attesa accanto a Gaio Cassio Longino, un centurione della guarnigione di Gerusalemme.
«Cosa stavo dicendo?» chiese.
Il segretario, dopo aver finto d’ignorare il gesto compulsivo del governatore, prese la tavoletta che stava scrivendo e lesse: «Ponzio Pilato, governatore eccetera, all’imperatore Claudio eccetera, Ave!»
«Ah, ecco». Pilato tornò a osservare il sole. Quando si spense anche l’ultimo raggio, si volse, guardò il centurione in piedi sull’attenti e disse: «Allora continuiamo».
Il segretario riprese a scrivere mentre Pilato dettava. Dopo altri convenevoli, il governatore cominciò il rapporto vero e proprio e raccontò il fatto che gli stava a cuore.
«Ho recentemente indagato su una credenza che si sta diffondendo in alcuni ambienti di Gerusalemme. Infatti molti sono convinti che i Giudei, per invidia, abbiano condannato loro stessi e la loro posterità per essersi macchiati di una terribile colpa. I loro profeti avevano decretato che il Dio degli Ebrei avrebbe inviato al popolo l’Eletto, colui che per diritto sarebbe stato chiamato loro re. Costui sarebbe giunto sulla Terra per mezzo di una vergine. Molti credono che un uomo che corrisponde alla descrizione sia stato davvero inviato, proprio durante il mio governatorato. Egli è stato visto guarire lebbrosi e paralitici, cacciare demoni, ridare la vista ai ciechi, resuscitare i morti, quietare i venti, camminare sulle acque, e compiere altre meraviglie, tanto che il popolo dei Giudei era giunto a chiamarlo Figlio di Dio. Ma i sommi sacerdoti, accecati dall’invidia, lo fecero catturare e me lo condussero in giudizio, incolpandolo di false accuse, dicendo che si trattava di un bestemmiatore che agiva contro la legge ebraica e che si era proclamato Re dei Giudei. Lo interrogai ed egli non si difese. Per accontentarli lo feci flagellare, ma non fu sufficiente. Per quietare i tumulti fomentati dalle loro fazioni, lasciai che fosse fatto quanto loro chiedevano e fu crocifisso. In quei giorni, sembrava che questa decisione avesse calmato gli animi e che i seguaci di quell’uomo si fossero dispersi. Per maggior sicurezza, quando fu sepolto, i sommi sacerdoti fecero mettere delle guardie al suo sepolcro, perché si ricordarono che quell’uomo aveva detto che sarebbe risuscitato dai morti. Ma, nonostante quell’accorgimento, il corpo è comunque scomparso. I soldati sostengono di essersi addormentati e che i discepoli di quell’uomo ne devono aver trafugato il cadavere. In ogni caso, i soldati che hanno sostenuto di dormire durante il loro turno non sono state puniti e questo è sospetto. Ci sono anche voci che le guardie siano state pagate per testimoniare il falso. In ogni caso, il numero di coloro che credono nella risurrezione del Figlio di Dio cresce di giorno in giorno».
Pilato continuò la sua relazione e in conclusione aggiunse: «Il centurione che vi reca questa mia, o divino Claudio, è stato testimone oculare della crocefissione e morte dell’uomo che molti Giudei hanno riconosciuto come il re che li avrebbe liberati da ogni schiavitù. Egli può integrare le parti del rapporto che vi sembreranno lacunose».
Proseguì con ulteriori notizie e concluse con i saluti.
«Ho terminato. Il testo sia ricopiato su pergamena».
Il segretario si ritirò per obbedire all’ordine. Quindi Pilato si rivolse a Gaio Longino: «Centurione, consegnerete voi stesso questa missiva a Roma. Partirete domattina. Se l’imperatore dovesse convocarvi per chiedere ragguagli, lo informerete a mio nome. Ave».
Longino non disse nulla. Tese il braccio in segno di saluto, poi si voltò e uscì dalla stanza.
Le ombre della sera calavano come un velo funebre su Gerusalemme. Longino stava scendendo le ampie scale del palazzo del governatore, quando fu colpito da un crampo alla mano destra. Si fermò e nell’osservarla la rivide coperta di sangue: dopo aver brandito una lancia, aveva trafitto il costato del “Re dei Giudei” ed era stato investito da un getto di sangue e acqua che gli aveva intriso le mani. Aveva ucciso a sangue freddo molti uomini nella sua carriera, ma il colpo che aveva inferto in quel corpo già morto appeso a una croce lo aveva segnato indelebilmente. Non ne capiva il motivo, ma un senso di colpa, che un tempo gli era sconosciuto, l’accompagnava in ogni ora della giornata.
* * *
«Vedo che la lancia le interessa molto».
Adolf si scosse e si voltò. Vide un custode della sala. Gli si era avvicinato e ora era fermo accanto a lui. Anch’esso si era messo a osservare la teca dove era conservata la
Heilige Lance, la “Lancia Sacra”. Si trovavano nella
Weltliche Schatzkammer, la sala del tesoro degli Asburgo nel palazzo di Hofburg. I visitatori potevano deliziarsi nell’ammirare i manufatti inestimabili là conservati.
«Un uomo così giovane», continuò il custode, «non può restare che affascinato di fronte ai millenni di storia che accompagnano quest’arma».
«Ho letto che il chiodo inserito all’interno della punta è uno di quelli che trafissero il Cristo. È stupefacente!» disse Adolf estasiato.
«Sì, sembra davvero incredibile che addirittura... quanti sono... siamo nel 1909... sì, addirittura quasi due millenni ci separino dagli avvenimenti dei quali questi strumenti di morte sono stati protagonisti. Eppure sono qui di fronte a noi, come monito».
Il giovane ventenne tornò a osservare, rapito, la punta di lancia e il chiodo incastonato. Gli sembrava di vedere il metallo ancora grondare del sangue del Cristo crocifisso e si sorprese nel vedere, riflessa sul cristallo della teca, la sua immagine, sovrapposta alla sagoma della lancia.
Il custode riprese: «Di quest’arma sono state documentate le peripezie nel corso dei secoli, tra storia e leggenda. Utilizzata da Gaio Cassio Longino per trafiggere il costato di Gesù morto sulla croce, giunse nelle mani di Maurizio, comandante di un distaccamento dell’esercito romano, la Legione Tebana, i cui soldati furono sterminati perché si rifiutarono di prendere parte a una cerimonia pagana. La lancia quindi passò di mano in mano portando con sé un grande potere...»
Il custode continuava a raccontare con dovizia di particolari le guerre in cui si pensava che l’arma avesse avuto qualche influenza positiva per chi la possedeva, e mentre parlava al giovane Adolf sembrava che la propria immagine riflessa si contornasse di fiamme e vedeva eserciti immensi calpestare la terra lasciando dietro di sé solo morte e devastazione.
«Sì, un potere immenso», ricominciò solennemente il custode. «Appartenne a Costantino il Grande, il quale la brandì nella battaglia di Ponte Milvio e riportò una schiacciante vittoria contro Massenzio, che annegò nel Tevere. L’imperatore Teodosio ne era in possesso quando sconfisse i Goti, il generale Flavio Ezio grazie a essa respinse Attila, Carlo Martello la usò per sconfiggere gli arabi a Poitiers. Quindi passò a Carlo Magno, a Ottone I il Grande, a Federico Barbarossa fino agli Asburgo. E ora eccola qui. Chissà chi raccoglierà il testimone di così tanti condottieri!»
Il custode aveva continuato a parlare con trasporto, sull’onda degli avvenimenti della storia, ma il giovane Adolf era ormai lontano con i suoi pensieri. L’eco di quelle parole l’aveva solo sfiorato. La “Lancia del Destino” era di fronte a lui ed ebbe una visione di stendardi e folle inneggianti: non si accorse che, mentre raccontava, le mani del custode si erano serrate, prese da un crampo, come se impugnassero l’asta di una lancia.
* * *
Il locale era piccolo e basso. Si percorreva nella sua intera lunghezza con pochi passi e alzando un braccio si poteva quasi toccare il soffitto. Doveva essere uno scantinato. Un luogo sotterraneo, spoglio, silenzioso, dove non si poteva capire quale ora del giorno o della notte fosse. Quella cantina era diventata una stanza per gli interrogatori improvvisata, ma che assolveva allo scopo in modo adeguato.
Una lampadina appesa al soffitto illuminava dall’alto una sedia inchiodata al pavimento, mentre lasciava il resto della stanza al buio.
Su quella sedia era legato un uomo nudo, inerme. Per quanto fosse robusto, le cinghie di cuoio attorno agli avambracci, alle gambe e alla testa, gli impedivano qualsiasi movimento; poteva solo fissare con odio l’aguzzino che lo tormentava da ore.
Nella stanza, oltre al torturatore, c’era un ufficiale, che si teneva nell’oscurità dietro la spalliera della sedia: si era presentato come colonnello, il colonnello Norman Stiller, e il prigioniero ne udiva solo le domande assillanti.
«Perché vuoi soffrire ancora, Wilfred?» disse la voce nell’ombra.
Parlava in tedesco con un forte accento americano. Lo aveva chiamato per nome sin dall’inizio, ostentando una confidenza fuori luogo.
L’uomo continuò: «Tu sai perché ti tormento. Dimmi dove si trova e sarà tutto sarà finito».
Il prigioniero non rispose, allora la voce abbandonò quel tono dall’apparenza gentile e, rivolta all’aguzzino, abbaiò un ordine in inglese: «Continua, Tyron!»
Risuonarono alcuni passi, l’uomo uscì dalla stanza e una pesante porta metallica si richiuse con violenza. Poi calò il silenzio.
Il torturatore si tolse la giacca della divisa, si rimboccò le maniche della camicia d’ordinanza e strinse saldamente nella mano destra un tirapugni di ferro. Quindi si mise lentamente a girare intorno alla sedia. Il prigioniero continuava a fissare il proprio aguzzino con uno sguardo di sfida.
* * *
La cella del carcere era stretta e lunga, occupata per la maggior parte da una branda coperta da uno scomodo materasso e dal bugliolo per orina ed escrementi. In alto, tre solide sbarre chiudevano un piccolo lucernario da cui filtrava la luce del giorno.
Karl Vogel, un ufficiale della Gestapo che si era arreso pochi giorni prima alle truppe americane, era seduto sul materasso e leggeva una Bibbia che gli aveva procurato il cappellano militare della prigione. Il libro di Giobbe era una delle sue letture preferite.
In quei giorni, mentre infuriavano feroci battaglie all’ultimo sangue, le truppe americane stavano avanzando da occidente sul territorio tedesco e i russi martellavano Berlino da est. Stretto tra due fuochi, il
kriminalkommissar Karl Vogel aveva deciso a quale dei due nemici del
Reich convenisse arrendersi, e ora, chiuso in cella, separato dal resto dei soldati tedeschi prigionieri, era in attesa che la sua sorte venisse decisa. Aveva trattato la sua resa, ma sapeva che gli accordi ottenuti in tempo di disfatta valevano quanto l’onore delle persone che li avevano stipulati, e di onore, dopo cinque anni di guerra, ne era rimasto poco, da una parte e dall’altra. Leggendo le vicende di Giobbe meditava sul da farsi: al peggio non c’era mai fine, pensava, ma spesso il cielo, per quanto minaccioso sembrasse, poteva rasserenarsi in modo miracoloso e il sole tornare a splendere.
Prima di arrendersi a una colonna di soldati americani in marcia, Vogel aveva avuto l’accortezza di indossare la giacca di un soldato morto della
Wehrmacht, in modo da non essere fucilato sul posto come spia; presto, però, si era liberato di quella divisa infangata. Ora, seduto sul pagliericcio, vestiva i suoi abiti eleganti che lo rendevano riconoscibile per quello che era, un membro della Gestapo, la polizia segreta del Reich. Infatti indossava un impermeabile in pelle nera a doppio petto e una cravatta scura, mentre un paio di occhiali di tartaruga e dei baffi sottili rendevano il suo aspetto piacevole e rassicurante. Le sue scarpe, sopravvissute a tante traversie, erano di nuovo lucide e facevano bella mostra di sé in fondo a un’impeccabile riga dei pantaloni. Completava il quadro un borsalino, appoggiato su un angolo del letto. L’unico accessorio di cui aveva ritenuto opportuno liberarsi era la spilla del partito nazista, che aveva sempre portato appuntata sulla cravatta.
Vogel sentì aprire di scatto lo spioncino della porta. Poi, dopo due mandate, l’uscio si spalancò ed entrò John Longman, il responsabile del carcere per l’esercito statunitense, in compagnia di un altro ufficiale.
«Commissario, c’è una visita per lei», disse Longman nel suo pessimo tedesco.
Vogel si alzò e rispose nel suo inglese perfetto: «Mi dispiace accogliervi in questa misera cella, ma di questi tempi bisogna accontentarsi».
Aveva pronunciato quella frase ironica con il suo solito tono affabile: spesso si affidava a questa sua ambiguità per mettere a disagio i propri interlocutori. Si presentava come un uomo raffinato ed elegante, aperto e disponibile, ma subito dopo poteva sfoderare un’insospettata crudeltà, che pure era già evidente nella fredda eleganza che ostentava.
«Lei ha sempre voglia di scherzare», replicò Longman. «Le presento il maggiore Rourke, dei rangers».
«Conosco di fama il maggiore», disse Vogel stringendo la mano che l’ufficiale gli aveva teso.
«Bene, allora vi lascio soli», disse Longman congedandosi. «Dovrete discutere di molte cose». Uscì dalla cella richiudendo la porta con la doppia mandata e ordinò a una guardia di presidiare l’ingresso affinché nessuno li disturbasse.
«E così mi conosce», esordì il maggiore.
Si tolse il berretto da ranger e si sistemò la divisa. Sembrava appena tornato da una missione in prima linea, per gli stivali infangati e la divisa coperta di polvere, e forse era proprio così.
«Di recente mi sono occupato di controspionaggio», rispose il commissario, «e conosco bene la gerarchia del’OSS».
«Allora potrà sicuramente essermi d’aiuto, visto che io la ignoro quasi del tutto», disse il maggiore ridendo.
Negli ultimi tempi, Vogel era stato impiegato negli interrogatori degli ufficiali alleati catturati sul fronte francese. I superiori avevano intenzione di scoprire i piani degli alleati nel continente, in modo da anticiparne le mosse, ma nel frattempo il commissario ne aveva approfittato per tessere una sua rete di conoscenze, da sfruttare durante le ultime fasi della guerra. Tutti erano consapevoli che ormai fosse persa: l’obiettivo era uscirne nel migliore dei modi possibili, e i contatti che aveva ottenuto costituivano un’assicurazione sul futuro.
«Sarei felice di poterle esserle utile, ma ormai la mia posizione...»
«Lei si schernisce. L’ho letto nel suo profilo: “Consapevole delle proprie capacità, le nasconde per ottenere da esse il massimo risultato possibile. Freddo calcolatore, serve di norma la propria causa, non quella del Reich, ed è un soggetto che sarebbe opportuno reclutare...”»
Rourke aveva ripetuto le ultime parole come se le leggesse un rapporto, e probabilmente lo stava facendo, nella sua mente.
«Non è un profilo molto lusinghiero», disse Vogel con un tono che però non dimostrava alcuna contrarietà.
«Mi sono permesso perché so di poterlo fare, in modo che non ci siano malintesi. Lei non è un fanatico, lei vuole sopravvivere al Reich. Altri hanno deciso di affondare assieme alla nave, ma lei non è uno di quelli».
«Lo farei, se ne valesse la pena».
«Ne sono certo, come so che lei è di parola».
«Beh, avevo giurato di essere fedele a Hitler e alla nazione...»
«È di parola con chi merita la sua fiducia. Io sono qui per dimostrarle che può avere fiducia in me».
Rourke pronunciò le ultime parole con solennità. Quasi sembrava che avesse alzato la mano nel segno del giuramento dei
boy-scout, e Vogel capì che da quell’uomo non aveva nulla da temere.
Il maggiore proseguì: «Prima però devo risolvere un problema. Mi hanno ordinato di portare a termine una missione. Nelle alte sfere c’è qualcuno che crede che possa far terminare la guerra in poche ore, invece di lasciarla trascinare in scontri sanguinosi per altre lunghe settimane. Si tratta di sacrificare alcuni uomini per salvarne decine di migliaia. È l’occasione per dimostrare la sua buona volontà. Dopodiché la farò rientrare in una operazione che stiamo organizzando in vista della fine della guerra: lei non è propriamente uno scienziato, ma sono certo che le sue conoscenze in psicologia potranno essere utili a noi, più di quanto potrebbero esserlo ai russi».
Quell’ultima frase rimbombò nella mente di Vogel come una minaccia, più di quanto le labbra di un boy-scout avessero voluto far sembrare.
Vogel sospirò e chiese: «Di che si tratta?»
«Vede, quando l’Austria entrò a far parte del
Reich, molti oggetti preziosi che appartenevano agli Asburgo furono, diciamo così, “trafugati”».
Rourke pronunciò l’ultima parola alzando l’indice e il medio delle due mani e muovendoli come se stesse grattando l’aria, dopodiché continuò: «Noi siamo interessati a un manufatto in particolare, come a suo tempo lo fu il suo cancelliere, Adolf Hitler. L’oggetto che ci preme recuperare fu trasferito a Norimberga nella chiesa di S. Caterina, ma successivamente è stato nascosto in un luogo più sicuro. Alcuni dicono addirittura che sia in viaggio su un
U-boot alla volta dell’Antartide».
«È possibile, abbiamo delle basi laggiù», disse Vogel ironico.
«Anch’io penso che la verità sia meno fantasiosa e ho scommesso sulla fortezza di Norimberga, in un sotterraneo blindato».
«Se la sua ipotesi fosse corretta», aggiunse il commissario, «ora avreste un bel problema, visto che l’anno scorso la città è stata bombardata e la fortezza è stata rasa al suolo. Si dovrà scavare, e in profondità».
«Sì, si tratta di un lavoro lungo e non c’è tempo. Se almeno sapessimo dove cercare. C’è però un cosa che mi consola, caro Vogel: fino a pochi minuti fa, era un problema solo mio, ma ora è anche suo. E ha ragione: dovrà scavare, e molto in profondità».
* * *
Il colonnello Norman Stiller entrò nel suo ufficio, si tolse la giacca, si sbottonò il colletto e i polsini della camicia, poi prese una brocca e versò dell’acqua in una bacinella sostenuta da un treppiede. Quel giorno non faceva caldo, ma il colonnello soffriva di sbalzi di pressione, e cercò di rinfrescarsi bagnandosi il collo e i polsi.
Infine si passò la mano bagnata sulla testa completamente rasata, come se volesse pettinare all’indietro i capelli che non aveva.
“Quel tedesco è un osso duro”, pensò mentre prendeva l’asciugamano, “ma Tyron riuscirà a piegarlo, prima o poi”.
In quel momento qualcuno bussò alla porta dell’ufficio. Dopo qualche istante entrò l’attendente.
«Colonnello, il maggiore Rourke è arrivato. Conduce con sé un prigioniero tedesco».
Stiller finì di asciugarsi le mani e rispose: «Molto bene, li faccia entrare».
L’attendente si fece da parte e lasciò passare due uomini.
Rourke indossava ancora la divisa d’ordinanza impolverata e gli anfibi infangati. Nonostante l’aspetto trasandato, era un uomo che ispirava fiducia. I corti capelli biondi erano quasi del tutto nascosti dal berretto, mentre una cicatrice gli attraversava la guancia proprio sotto l’occhio destro e rendeva ancor più evidente uno sguardo onesto e sincero. Come si diceva allora: era un uomo dal quale avresti comprato con fiducia un’auto usata. Fece due passi avanti e salutò il colonnello battendo i tacchi.
Il secondo uomo invece era Karl Vogel. Indossava ancora i suoi abiti eleganti e la detenzione non aveva cancellato la riga dai suoi pantaloni.
«Colonnello, le presento il
kriminalcommisar Vogel» disse il maggiore dopo aver abbassato la mano che aveva portato alla testa nel saluto.
Stiller indossò la giacca e si avvicinò agli ospiti.
«E così finalmente faccio la sua conoscenza», esordì rivolto al commissario. «Ho letto note sorprendenti su di lei in numerosi rapporti». Poi ne osservò l’abbigliamento ricercato e aggiunse: «Di certo quei rapporti non mentivano».
«Spero che parlassero bene di me».
«In un certo senso sì», rispose il colonnello. «Il maggiore l’avrà ragguagliata. Di norma non siamo soliti a ricorrere a collaborazioni di questo tipo, ma il tempo stringe ed è necessario fare ogni tentativo possibile, per quanto fantasioso possa sembrare».
«Sì, il maggiore mi ha spiegato».
Il colonnello proseguì: «Tra le altre cose, ho saputo che lei adotta una tecnica d’interrogatorio innovativa e poco ortodossa: l’ipnosi! Crede veramente nella sua efficacia? Io penso che sia roba da ciarlatani, da illusionisti di provincia».
«Io invece ritengo che sia un utile strumento d’indagine. La mente umana è complessa: occorre trovare con pazienza la chiave che ne dischiude i segreti. La conduzione d’un interrogatorio è un’arte. Di solito ci si affida alla tortura, ma sono convinto che chi usi la violenza come unica risorsa non sia altro che un macellaio».
«Lo penso anch’io. Siamo venuti a conoscenza di molte tecniche adottate dai suoi colleghi, che lei ora definisce macellai. Purtroppo il tempo stringe e sono costretto ad adottare metodi che mi disgustano».
Quindi si abbottonò anche l’ultimo polsino e ordinò: «Seguitemi entrambi».
* * *
La stanza degli interrogatori era ancora avvolta nell’oscurità, tranne per quella fastidiosa luce centrale: illuminava l’uomo nudo legato alla sedia. Il suo volto presentava numerose tumefazioni.
«Salve, Wilfred. Hai visite. Sono venuti da lontano per conoscerti» disse il colonnello nel suo pessimo tedesco. Il prigioniero rimase immobile, come se non avesse sentito; un occhio era chiuso per i pugni ricevuti, mentre l’altro fissava il vuoto. Lo sguardo di sfida era stato cancellato a furia di colpi.
Stiller continuò sottovoce rivolto a Vogel: «Sono tre giorni che lo interroghiamo. Conosce l’ubicazione del manufatto che stiamo cercando, ma non riusciamo a farlo parlare. Può darsi che lei abbia più successo: se davvero vuole dimostrare la sua volontà di collaborare, questa è la sua occasione».
Vogel si tolse cappello e impermeabile. Sotto indossava un elegante completo scuro, interrotto solo dall’angolo bianco d’un fazzoletto che sporgeva dal taschino.
L’uomo legato alla sedia sembrava provato, ma non intimorito; dalla sua bocca non era ancora uscito un lamento. Il commissario l’osservò con attenzione, gli rivolse qualche parola senza smuoverlo dal suo mutismo. Ne ottenne solo uno sguardo d’odio: aveva capito d’aver di fronte un collaborazionista, un traditore della causa nazista.
Vogel terminò quella sua analisi, apparentemente infruttuosa, e spiegò: «Quest’uomo odia voi e me più di quanto non ami la sua vita. È convinto che in ogni caso non uscirà da qui sulle sue gambe. Ogni insulto, ogni colpo, ogni amputazione non farà che accrescere la sua determinazione. Sopravvive solo perché è alimentato dal disprezzo. Dovete trovare un altro modo per piegarlo».
«Lei pensa di poter fare di meglio?». Il tono del colonnello oscillava tra sfida e speranza. «Crede davvero che dei trucchi da illusionista funzionino veramente, o che possano servire in questo caso?»
Karl Vogel si tolse gli occhiali, prese il fazzoletto che sporgeva dal taschino della giacca e si mise a pulire le lenti appannate, quindi rispose: «Per ottenere delle risposte bisogna conoscere il soggetto. Saggiarne la resistenza è importante, certo; ma la tortura, come le dicevo, è un’arte che l’uomo sta perfezionando sin da quando è scoccata la prima scintilla d’intelligenza. Ha una tradizione di millenni: non ci si improvvisa e posso dire, senza timore d’essere smentito, che i membri della Gestapo sono maestri in questo campo. Ma neppure un interrogatorio professionale avrebbe effetto. L’esperienza di sofferenze insopportabili ha presa solo sui deboli. Quest’uomo non è un debole».
Il colonnello Stiller interruppe le spiegazioni del commissario e disse: «Bene, tocca a lei. Mi stupisca».
«Ho solo bisogno di una cosa», disse Vogel. E parlò all’orecchio del maggiore Rourke che subito uscì dalla stanza.
Wilfred fissava con odio il commissario. Era allo stremo delle forze, ma se dopo tanti giorni di torture era ancora vivo, nulla avrebbe potuto più potuto piegarlo consapevolmente, nulla.
Vogel si avvicinò al prigioniero e si mise a parlargli sottovoce all’orecchio: «Questi uomini sono degli animali, sono uomini di una razza inferiore, io non sono come loro. Io disprezzo tutto quello che le sta accadendo. So che mi odia, ma volevo che sapesse che io sono diverso. Per lei non farà differenza, ma per me sì». Infine aggiunse: «Desidera qualcosa? Le posso farle portare da bere, se vuole».
Per tutta risposta Wilfred cercò di girare la testa immobilizzata quanto più poté e sputò un grosso grumo di saliva e catarro verso il commissario, senza però riuscire a colpirlo. Infatti Vogel era rimasto defilato. Si era accostato al prigioniero, ma era rimasto sulla difensiva. Era una delle regole che seguiva: “Non fare mai una domanda se non conosci in anticipo le possibili risposte”. Lo sputo era una di quelle.
Il commissario continuò a parlare, con un tono dolce e rassicurante, mentre sfiorava Wilfred con le dita ed esercitava lievi pressioni sulla sua pelle nuda.
Il prigioniero all’inizio cercò di divincolarsi, chiese con forza che smettesse di toccarlo con quelle mani da finocchio traditore, ma dopo qualche minuto si arrese. Sembrò quasi che quelle pressioni, non dolorose e, in fondo, neppure ambigue, lo confortassero. Era il primo contatto umano che provava dopo giorni di torture, e con un uomo che, per quanto stesse tradendo, apparteneva comunque alla razza superiore.
«Wilfred, sappiamo che è inutile ricorrere alla violenza con lei. Ha deciso di sacrificarsi per la nazione, per la causa, per la razza».
Il prigioniero fissò Vogel. Per la prima volta, da giorni, guardava un uomo senza vedere un animale da odiare con tutto se stesso. Gli occhi del commissario, cerchiati dagli occhiali e così miti, sembravano possedere quel briciolo d’umanità che si spera sempre di trovare in un proprio fratello, anche se fosse il più spietato dei criminali.
Vogel intuì ciò che passava per la mente di Wilfred. Era giunto il momento di accompagnarlo in un altro passo avanti lungo quel cammino senza sbocchi.
Continuò a parlargli con ferma dolcezza, lo fece sentire al sicuro, come se si trovasse con un amico. Aveva stabilito un rapporto, per quanto il prigioniero rimanesse ancora a labbra serrate e fingesse di non ascoltare.
Passò un tempo interminabile, durante il quale Vogel parlò di tutto: della guerra, del tempo di pace, di figli, di mogli, di donne, di partite di calcio, della famiglia di Wilfred e della sua casa. Durante quel fiume di parole, il commissario aveva vinto la resistenza del prigioniero: gli reggeva una mano, come per confortarlo, e gli teneva con discrezione il polso.
Nel frattempo Rourke era rientrato e aveva passato una carta geografica piegata al commissario. Vogel l’aprì su un tavolo che aveva accostato alla sedia. Era la pianta di Norimberga. La distese con cura e indicò la casa del prigioniero.
«Ecco casa tua», gli disse.
Il polso del prigioniero ebbe un sussulto. Vogel lo fece calmare e riprese a parlare con dolcezza e nel frattempo muoveva il dito sulla carta, indicava luoghi familiari a Wilfred e ne leggeva i nomi, le intestazioni delle vie e delle strade. Poi passò sul luogo dove era collocata la fortezza di Norimberga, distrutta dai bombardamenti. Vogel indugiò a lungo con movimenti circolari su quel punto e i suoi dintorni, poi lasciò la mano del prigioniero.
Si avvicinò ai due ufficiali che attendevano in un angolo della stanza, prese il fazzoletto candido che spuntava dal taschino della giacca, si asciugò il sudore della fronte e disse: «Vicolo superiore dei fabbri».
* * *
Di fronte alla teca della
Heilige Lance, la “Lancia Sacra”, il custode continuò la sua spiegazione di fronte a un piccolo gruppo di turisti: «Quest’arma appartenne a Costantino il Grande, all’imperatore Teodosio, al generale Flavio Ezio, a Carlo Martello, quindi a Carlo Magno, a Ottone I il Grande, a Federico Barbarossa, agli Asburgo. Adolf Hitler ne entrò in possesso e la conservò fino al 30 aprile del 1945. Quel giorno, una squadra dell’OSS rintracciò tra le macerie dell’antica fortezza di Norimberga l’ingresso della sala in cui era stata occultata e recuperò questa reliquia. L’arma aveva di nuovo cambiato mani. Poche ore dopo Hitler si suicidò nel suo bunker a Berlino, assediato dalle truppe russe. Quindi la lancia fu restituita agli austriaci e riportata qui, dove ora potete ammirarla».
Il racconto era avvincente e i turisti fissavano quella reliquia con curiosità. Nessuno di loro si accorse che le mani del custode si erano serrate, prese da un crampo doloroso, come se impugnassero l’asta di una lancia.
F I N E