domenica 3 marzo 2013

Cuore di mamma

Thriller fantastico, 2997 caratteri, versione 1.0


CUORE DI MAMMA
di
Leonardo Boselli


La strada era ripida e male illuminata.
Due figuri, intabarrati, camminavano a fatica sull'acciottolato reso viscido dalla pioggia.
Il più alto portava un cappello calcato sul capo. «Che pessima idea!» continuava a ripetere tra sé e sé.
«Hai finito?» sbottò quello più piccolo. «Non hai smesso di lamentarti un momento».
«Tornare dalla vecchia megera dopo tanti anni. Che senso ha dopo quello che ci ha fatto?»
«È vecchia e sola. Vuole vederci un'ultima volta».
«Insisto: è una pessima idea».
«Insomma! Non le dobbiamo proprio nulla?» disse deciso, ed estrasse dal tabarro l'orologio che portava alla catena. Subito il vetro s'imperlò di goccioline.
«Ci aspetta, affrettiamoci!»
Giunsero alla casa in cima alla salita e si fermarono di fronte all'uscio.
«Chi bussa?» chiese lo spilungone.
«Fifone! Ho sempre dovuto farti da balia».
Mentre stava alzando la mano per colpire la porta, un lampo illuminò a giorno la facciata dell'edificio e la serratura scattò. Quando il fragore del tuono li investì, la porta si spalancò.
«Era aperto», constatò stupito il piccoletto, ma quando si voltò, s'accorse d'essere rimasto solo.
Di fronte a lui s'apriva l'atrio della vecchia casa. All'interno s'intravedevano le scale che portavano al piano superiore, mentre un candeliere appeso al soffitto oscillava mosso dal vento. Le deboli fiammelle non tardarono a spegnersi.
"Devo farmi coraggio", pensò.
Un chiarore filtrava da una porta semiaperta in cima alle scale.
Aiutato dal bagliore dei lampi, cominciò a salire. Lo scricchiolio delle assi era minaccioso, ma continuò un gradino alla volta finché non fu in cima.
«C'è nessuno?» chiese con un filo di voce. Non ottenne risposta.
Si sporse oltre la soglia e scrutò con attenzione.
Il chiarore proveniva da un camino acceso. Di fronte a esso, su una sedia a dondolo, una figura di spalle oscillava avanti e indietro, con estrema lentezza.
«Mamma?» osò chiedere.
«Siete puntuali, bravi», rispose una voce femminile, anziana. Quindi pronunciò altre parole ad alta voce, terribili, arcane, incomprensibili. Dopodiché si alzò a fatica e aggiunse: «tra poco sarà tutto finito e finalmente resterete con me, per sempre», infine si voltò e stupita disse: «ma dov'è tuo fratello?».
Il piccoletto, inorridito dalla visione di quel volto emaciato, sussurrò: «è scappato...»
«Ero stata chiara! Volevo entrambi! Volevo che...», ma in quell'istante un fulmine attraversò il camino e un boato assordante investì il piccoletto che venne colpito dalla scarica.
Quando riprese i sensi, si sentiva sballottato. Era a testa in giù e vedeva i tacchi d'un paio di scarpe che correvano, illuminate dai bagliori d'un rogo. Poi venne scaraventato con la schiena nel fango.
Riaprì gli occhi e vide sopra di sé il fratello, trafelato.
«Co... cos'è successo?», chiese tramortito.
Alle spalle dello spilungone il vecchio edificio bruciava.
«Un fulmine! Ero fuori, nascosto. A un tratto ha colpito la casa!»
«E tu mi hai salvato?»
«Lei era avvolta dalle fiamme. Non ho potuto fare nulla. Siamo di nuovo soli: io e te».

F I N E

Lo scoop

Thriller, 2485 caratteri, versione 1.0


LO SCOOP
di
Leonardo Boselli


«Ci siamo, capo! Questa è davvero grossa!»
Il direttore sollevò la testa dalle bozze che stava correggendo e squadrò il giovane cronista attraverso le spesse lenti che portava sul naso.
«Non si usa più bussare? Chiudi la porta, siediti e comincia dall'inizio».
Il ragazzo si guardò alle spalle e si accorse che tutta la redazione lo stava fissando. Chiuse la porta a vetri e cercò di calmarsi.
«Un altro scoop, Mike? O il solito buco nell'acqua?»
«Questa volta ho fatto centro, capo!»
«Di che si tratta?»
«Di CHI si tratta! Del governatore Hunter, e queste fotografie sono da prima pagina», disse il ragazzo sbattendo una cartellina sul tavolo.

* * *
«Ma quello non è il governatore Hunter?»
L'atrio del Casinò era zeppo di persone che entravano e uscivano. Il ragazzo aveva notato il politico che saliva le scale.
«È lui in carne e ossa», rispose il parcheggiatore.
«Viene qui spesso?»
«Una volta al mese. Gli piace giocare a poker con qualche campione di tanto in tanto. Dice che non sarebbe un vero texano se non praticasse lo sport nazionale. Pare che lo renda simpatico ai ceti popolari».
«Un'attività innocente e alla luce del sole».
«Certo, però... Mike, sei sempre alla ricerca di una notizia da prima pagina?»
«Sì, ci vorrebbe ben altro».
«Senti», disse il parcheggiatore sottovoce, «fino a che punto arriveresti per lo scoop della vita?»
* * *
«All in!»
Il ragazzo spinse tutte le fiches che aveva davanti.
«Deve avere una bella coppia di assi», disse il governatore, «oppure lei ha veramente un sangue freddo eccezionale».
«C'è solo un modo per saperlo», rispose il giovane cronista, fissando l'avversario con i suoi intensi occhi azzurri.
Hunter rifletté, ma non sembrava pensare al piatto, poi disse: «Lascio».
Le due carte, che potevano essere assi, rimasero coperte.
«Non posso sapere se ho fatto bene?», chiese il governatore con complicità.
«Preferisco non scoprire il mio gioco».
«Neppure davanti a un bicchiere di buon bourbon?»
* * *
Il direttore prese con cautela la cartella sulla scrivania e disse: «Quando c'è di mezzo il governatore bisogna fare attenzione. È un membro stimato della comunità e...»
«Ed è un gran porco: il governatore Hunter ha un amante! Non che ci sia niente di male in questo, ma...»
«Già», lo interruppe il direttore, «per un Repubblicano che sta basando la campagna elettorale sui valori della famiglia...», e aprì la cartella.
«Questa foto non sono molto chiare, vediamo...»
Il giovane fremeva.
«Ah, si qui si vede bene... ma... ma questo sei tu Mike!»
F I N E

I Cherubini

I Cherubini

cherubini-puri-spiriti


Un saggio su "La Tela Nera"

L'ultima impronta

Giallo, 3920 caratteri, versione 1.0


L’ULTIMA IMPRONTA
di
Leonardo Boselli


Sherlock Holmes stava esaminando con attenzione il reperto con la sua lente d'ingrandimento quasi ignorando l'ometto che gli stava accanto.
Il professor Jeffrey Wilkes non aveva un aspetto appariscente. Di piccola statura, portava degli occhiali spessi e indossava un abito scuro piuttosto dimesso.
«Quando ha cominciato esattamente?», chiese il dottor Watson.
«Molti anni fa. Non ricordo», rispose con una vocetta stridula.
Watson lo incalzò con un tono disgustato: «E quante sono?»
Wilkes si tolse gli occhiali, scoprendo due piccoli occhi miopi, e annunciò solenne: «Trecentodue».
«Ma, se mi è lecito domandarlo», chiese ancora Watson, «perché ha cominciato?»
«Beh, ho sempre avuto una passione per i labirinti, gli arabeschi, le spirali e...».
«E quando ha scoperto che non ne esistono due uguali, le è sembrata una collezione unica al mondo, non è vero?», concluse Holmes.
Watson ignorò il commento e continuò: «Si rende conto che la sua collezione è piuttosto insolita?»
«Non posso negarlo».
Holmes ripose la falange dell'indice destro che aveva finito di esaminare e iniziò a osservarne un'altra nella teca. L'etichetta riportava un nome: Fryderyk Chopin. «Questa è mummificata perfettamente», constatò ammirato.
«Sì, è uno dei miei pezzi più pregiati, l'orgoglio della mia collezione», replicò l'ometto. «Lo prenda pure, ma lo tratti con attenzione».
«Ne stia certo», rispose Holmes piccato. Quindi strinse con delicatezza la falange tra le dita guantate e si mise a osservare interessato i dermatoglifi del polpastrello. Seguiva le creste e i solchi per trovare i punti caratteristici dell'epidermide. Era uno dei suoi talenti: avrebbe riconosciuto l'impronta di quel dito dopo anni, se avesse avuto modo di rivederla.
Watson, non nascondendo il ribrezzo, sbottò: «Ora che ci ha mostrato questa macabra esposizione, può spiegarci perché ha voluto un nostro consulto? Anche se lei ci è stato raccomandato dall'ispettore Lestrade, ciò non significa che può abusare del nostro tempo».
L'ometto si rimise gli occhiali e fissò Watson con sufficienza.
«Il motivo è proprio nelle mani di mister Holmes: il dito di Chopin. Mi è costato una fortuna e occorreva per completare la mia collezione di pianisti, ma ho sempre nutrito dei seri dubbi sulla sua autenticità. Sono certo che...»
«Di Chopin ho visto una maschera funebre», disse Holmes interrompendo Wilkes. «Dove eravamo Watson?»
«Eravamo a "La Cartuja de Valldemossa". C'era anche un pianoforte del compositore, mai più usato dopo la sua morte», rispose il dottore, ben sapendo che Holmes lo aveva messo alla prova.
«Esatto, Watson. Di Chopin, poi, esistono molti calchi delle mani. Non le sarà difficile fare un confronto», aggiunse rivolto all'ometto.
«L'ho già fatto», rispose Wilkes. «La forma è identica, ma il tarlo del dubbio continua a rodermi».
«È un peccato che un semplice controllo sperimentale non abbia dato esito e che debba sprecare le mie capacità», disse Holmes. «Lei conosce il mio metodo. Che ne pensa dottore?»
Quindi lanciò la falange a Watson che, schifato, la prese al volo, sotto gli occhi miopi e terrorizzati di Wilkes.
«Penso che una volta eliminato l'impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità», rispose parafrasando il suo amico.
«Cosa volete dire?», chiese preoccupato l'ometto.
Watson osservò la falange poi disse: «Vede, Chopin era convinto che la forza delle sue dita fosse distribuita in modo disuguale. Considerava l'indice il perno della mano e dovette sottoporsi a non pochi esercizi per dominare con la sua mano, relativamente piccola, quasi un terzo della tastiera. Chopin, come Schumann, da bambino ha fatto uso di apparecchi, che applicava durante il sonno, per migliorare l'apertura delle dita».
«E quindi?»
«Quindi nulla. Da questo dito non posso capire nulla».
«Errato, Watson», disse Holmes. «Questo dito è un falso. Se lei avesse rilevato le impronte sul pianoforte usato da Chopin a Valldemossa ora lo saprebbe».

F I N E

Effetto collaterale

Horror, 15480 caratteri, versione 2.0


EFFETTO COLLATERALE
di
Leonardo Boselli


Il dottor Jordan lesse con cura la cartella clinica e commentò: «Le sue caratteristiche sono davvero eccellenti. Cerchiamo proprio una persona come lei».
A quelle parole, Michael si sentì rassicurato, perché quel lavoro gli era necessario. Aveva già provato di tutto per mantenersi agli studi, ma il posto da sguattero gli portava via troppo tempo, e le banche del sangue e del seme non erano abbastanza remunerative: c’era troppa concorrenza di studenti squattrinati e bisognosi di pagare affitto e rette universitarie.
«Sì, lei è proprio il nostro candidato ideale», ribadì il dottore dopo aver sollevato lo sguardo dalla cartella. Michael si sentì osservato. Jordan, attraverso i suoi spessi occhiali, lo scrutava con attenzione.
«Ne sono felice», rispose. «Ha detto che il compenso è di mille dollari anticipati, vero?»
«Sì, anticipati. Se la cosa le interessa, firmi questo contratto standard e la liberatoria, indichi il beneficiario dell'assicurazione sulla vita e si presenti domattina alle otto».
Michael lesse i fogli del contratto. Erano riportate le solite clausole che conosceva a memoria e aveva già siglato varie volte: ormai si poteva considerare una cavia da laboratorio professionista.
Il medico si alzò e fece il giro della scrivania. Si tolse gli occhiali, li ripose nel taschino del camice e, mentre stringeva la mano a Michael, disse: «Il suo contributo ci sarà molto utile. Sono felice che sia dei nostri».
In quel momento il dottore gli ricordò suo padre. Sì, proprio il padre, che al termine del liceo voleva imporgli di intraprendere la carriera di ricercatore in medicina, seguendo le sue orme. Michael si era rifiutato. Ricordava con orrore il laboratorio di biologia del liceo dove era costretto a sezionare disgustose rane, e non voleva avere nulla a che fare con le cavie da laboratorio.
Quando scelse la facoltà di giurisprudenza, il padre andò su tutte le furie e non volle finanziare i suoi studi, perché odiava gli avvocati: quegli squali che, aizzati da parenti ingrati, si avventavano su di lui ogni volta che moriva un suo paziente.
Per questo motivo adesso Michael era costretto a fare da cavia, ancora una volta, per chissà quale esperimento.
Mentre se lo domandava, disse: «Di solito non chiedo la finalità della ricerca a cui collaboro, ma questa volta...»
«È un suo diritto», rispose il dottor Jordan interrompendolo. Prese alcune foto da una cartella che aveva sulla scrivania e le mostrò a Michael. «Guardi questa cavia, prima e dopo il trattamento: è stupefacente!»
Osservò con attenzione. Nella prima foto compariva un roditore grasso, anzi decisamente obeso. Nella seconda, scattata tre settimane dopo, come si evinceva dalla data sovrimpressa sull'immagine, la bestiola appariva molto magra, ma comunque in forma.
«È la stessa cavia?», chiese Michael scettico.
«Sicuro! La sostanza che stiamo testando è miracolosa. Non abbiamo ancora capito perché non si ottengono gli stessi effetti sugli esseri umani, ma stiamo facendo progressi. Certo, se le cavie parlassero sarebbe tutto più facile: potremmo effettuare un'analisi precisa di ciò che avviene durante il trattamento, ma per ora siamo costretti a muoverci a tentoni, come sempre d'altronde. Comunque può ben immaginare le implicazioni sulla qualità della vita che potrebbe avere questo medicinale per moltissime persone. Si sente più tranquillo ora?»
«Sì, ma io non sono obeso».
«Non si preoccupi di questi dettagli. Il suo contributo ci sarà utile», disse il dottore con tono rassicurante, mentre gli sventolava davanti al naso, come un trofeo, la foto della grassa cavia da laboratorio. Poi, dopo aver riflettuto, continuò con soddisfazione: «Non sono autorizzato a rivelarle altri particolari, ma ci tengo a farle sapere che il farmaco anti-obesità è solo il primo test: ben altre malattie potranno essere affrontate efficacemente grazie alla tecnica che lei contribuirà a perfezionare. Potrà esserne orgoglioso».

* * *
Michael si sentiva imbarazzato. Era coperto solo da un camice troppo corto e l'infermiera era davvero carina. Senza un filo di trucco, con i capelli biondi raccolti nel copricapo e un seno prorompente chiuso nella camicetta bianca, sorrideva e faceva domande senza importanza per distrarlo, mentre cercava la vena sul braccio destro. Lui non rispondeva, perché tentava di trattenere disperatamente la sua eccitazione per quel contatto così ravvicinato. Gli capitava spesso quando aveva a che fare con una bella donna, ma in quel momento non aveva modo di dissimularlo.
«Ecco. Non c’è voluto molto, vero?» disse l'infermiera estraendo l'ago.
Michael vide che la ragazza si era accorta della sua reazione involontaria e rispose balbettando: «Mi... mi dispiace».
«Non si preoccupi, capita a tutti. Ne sono lusingata». Lo disse con un tono comprensivo, come se ci fosse abituata. Quindi, dopo avergli applicato i sensori di un rilevatore, aggiunse: «Ora si giri sul fianco. Inietterò il principio attivo».
«Non dovrebbe essere presente il dottor Jordan?»
«Il supervisore sta osservando la procedura dal monitor».
Michael si guardò intorno e si accorse solo in quel momento di una telecamera appesa in un angolo della stanza con una spia rossa accesa.
«Ora stia fermo. Si tratta di un'iniezione intramuscolare. Non farà male: ho la mano molto leggera».
Era vero. Michael non sentì quasi nulla.
«Io ho finito. La lascio. Si distenda e si rilassi».
Seguì l'infermiera con lo sguardo mentre usciva dalla stanza portando con sé le siringhe e una fiala del suo sangue. Prima di chiudere la porta, la ragazza gli sorrise.
Michael si sollevò sui gomiti e si mise a osservare il locale. Era spoglio. C'era solo quel lettuccio nel mezzo, il totem con una serie di monitor che rilevavano le tracce delle sue pulsazioni e la telecamera che lo fissava in un angolo. Infine due tubi al neon appesi al soffitto illuminavano intensamente la stanza, tanto che le pareti tinte di bianco risultavano abbacinanti.
La cosa più interessante era una gabbietta in cui erano rinchiuse due cavie, tuttavia non riuscì a osservarle meglio perché ebbe un capogiro. Gli sembrò che quelle mura si allontanassero da lui, ma non fece in tempo a capire che cosa gli stesse succedendo, e ricadde sul lettino privo di conoscenza.
* * *
Michael pensava d’aver dormito per ore. Sentiva una voce molto distante. Qualcuno lo chiamava, ma non riusciva a capire se fosse lontano da lui nello spazio o nel tempo.
Era buio. Aveva cercato ripetutamente di sollevarsi, ma senza successo. Il suo corpo era immobile, inerte. Per quanto si sforzasse, le sue braccia restavano incrociate sul petto, come legate da una camicia di forza. Poteva muovere solo gli occhi. Vedeva nella semioscurità la stanza, i monitor accanto a lui e la telecamera nel suo angolo. Si sorprese nel constatare che fosse tutto spento.
Dopo numerosi tentativi di muoversi, rimasti infruttuosi, si ricordò d’aver già vissuto quella situazione da bambino. Credeva di essere nel suo letto ormai sveglio, ma in realtà dormiva ancora profondamente e stava sognando: sognava d’essere sveglio nella sua camera.
Ora provava la stessa sensazione. Vedeva intorno a sé la stanza, ma era solo un’esatta replica nella sua immaginazione. La volontà non era sufficiente a muovere il suo corpo; era come se la sua mente vi fosse imprigionata. Doveva arrendersi e, forse, si sarebbe svegliato.
La voce riprese a chiamare: «Winston, Michael Winston».
In quell’istante gli sembrò che la luce si riaccendesse e, mentre il suono di quelle parole terminava di rimbombare nella sua testa, con uno sforzo sovrumano cercò di sollevarsi sul lettino.
Ebbe un attimo di smarrimento. «Chi mi chiama?» chiese più volte, ma non ottenne risposta.
L’incubo sembrava finito, ma non si sentiva veramente sveglio. Si chiese che cosa gli avessero iniettato e pensò che la cavia obesa aveva di certo provato quelle stesse sensazioni, ma non gli era stato possibile descriverle ai ricercatori: lo avrebbe fatto lui, non appena fosse riuscito a scuotersi.
Percepì una serie di deboli rumori alla sua sinistra, come se delle minuscole unghie graffiassero delle inferriate metalliche. Quindi fece un ultimo sforzo e riuscì a voltare di poco la testa di lato: vide accanto a lui la gabbia in cui erano imprigionate le due cavie. Una di esse correva avanti e indietro, mentre l'altra era tranquilla, come rassegnata a non poter fuggire da quella piccola prigione.
La cavia immobile lo fissava imperturbabile, nonostante l'agitazione della compagna. Solo gli ispidi baffi, attorno al muso appuntito che fiutava l'aria, vibravano di tanto in tanto. Gli puntava addosso due occhietti neri che spiccavano sul pelo chiazzato. Quello sguardo, se di sguardo si poteva parlare, era enigmatico: Michael non capiva perché, ma gli sembrava di averlo già incrociato. Era assurdo pensare di aver conosciuto quel roditore, però in quello stato di semi-incoscienza gli sembrò familiare, così si mise a parlargli.
«Chi sei? Perché mi hai chiamato?»
La cavia taceva e continuava a scrutarlo con i suoi occhietti.
«Perché mi fissi?»
Le sue domande cadevano nel silenzio più totale.
Quindi cercò di voltarsi verso la telecamera e gridò: «Dottor Jordan, cosa sta succedendo?»
Anche quella frase non ottenne risposta, anzi ebbe l’agghiacciante sensazione di non aver pronunciato alcuna parola e che nulla avesse rotto il silenzio da quando aveva ripreso conoscenza, a parte l'incessante ticchettio delle unghie sul fondo della gabbia.
In quel momento si aprì la porta ed entrò il dottore seguito dall’infermiera. Pensò che fossero venuti perché lui li aveva chiamati, ma lo ignorarono. Si interessarono solo ai valori indicati sui monitor.
«I parametri sono nella norma» disse il dottor Jordan. L’infermiera prese alcuni appunti su una cartella che teneva in mano, poi misurò la pressione ed eseguì altre analisi sommarie.
Michael cercava di richiamare la loro attenzione, gridava, si disperava, ma era tutto inutile: nonostante i suoi sforzi, il suo corpo giaceva inerte sul lettino e la voce gli si strozzava in gola.
Nel frattempo l'infermiera aveva estratto la cavia agitata dalla gabbia.
Il dottor Jordan prese una siringa e aspirò un liquido da una fiala. Senza molti riguardi iniettò il contenuto nel braccio destro di Michael. Attese qualche minuto, aspirò con la stessa siringa del sangue dal braccio e disse: «Signorina, segni sulla cartella: dopo un quarto d’ora dalla prima somministrazione, abbiamo iniziato la seconda fase».
Fu una strana sensazione. A Michael sembrò di fluttuare nello spazio e nel tempo. Aveva consapevolezza di sé, ma fu come se i suoi organi sensoriali non comunicassero più con lui. Non provava dolore, non vedeva né percepiva nulla, se non il fatto di pensare, e perciò di esistere. Finché a un tratto, sentì di nuovo il caldo della pelle, odori pungenti, suoni attutiti e una forte luminosità che lo abbacinava.
Gli ci volle del tempo per riprendersi. Quando recuperò la vista, gli sembrò di vedere il mondo con occhi nuovi. Non riusciva a mettere bene a fuoco e gli sembrava di non vedere più i colori. Appena riuscì a guardarsi intorno, si accorse di essere in una grande gabbia e fu colto dal terrore quando vide accanto a sé un'enorme cavia che lo fissava, mentre del dottore e dell'infermiera non c'era più alcuna traccia.
Credette di vivere un incubo e si lanciò sulle sbarre. L'urto doloroso col metallo gli fece sanguinare il muso. Tentò più volte senza ottenere nulla, se non dolorose ammaccature. Alla fine, sfinito, si lasciò cadere sul fondo della gabbia. Con raccapriccio vide che le sue mani si erano trasformate in mostruose zampe da roditore.
«È tutto inutile».
Michael, sorpreso da quelle parole, focalizzò l'origine della voce che le aveva pronunciate. La cavia continuava a fissarlo. Sembrava che avesse parlato, o almeno gli era parso, così gli chiese: «Cosa mi sta succedendo? Cosa significa tutto questo?»
La cavia, mostrando i dentini come se davvero parlasse, riprese: «Non mi hai riconosciuto? Sono Andrew Nicholson».
Michael si ricordò di quel nome. «Sei lo studente scomparso il mese scorso! Che incubo è mai questo? Cosa ci fai qui ridotto così?»
«La stessa cosa che hai fatto tu. Ho contribuito al progresso della scienza, ma qualcosa non è andato secondo le previsioni e hanno preferito liberarsi del mio cadavere. Presto si sbarazzeranno anche di questo mio nuovo corpo».
Fece una pausa significativa e allargò le zampette, come se volesse presentarsi nella sua miseria, poi aggiunse: «Ti aspettavo perché ho un messaggio da affidarti. A me è stato lasciato da coloro che ci hanno preceduto».
«Ci hanno preceduto? Chi erano? Quanti sono stati?»
«Altri cinque. Ricordati dei nostri nomi. Se riuscirai a tornare, devi raccontare cosa ci è successo. Nessuno ti crederà, è certo, ma per ognuno di noi potrai fornire una serie di solide prove e, forse, i colpevoli pagheranno per ciò che ci hanno fatto».
Quindi raccontò tutto quanto sapeva e ciò che i predecessori gli avevano detto di ricordare, ma a un certo punto Michael si sentì pervadere da un forte calore. Allarmato chiese cosa gli stesse succedendo.
«Sta iniziando la seconda fase. Io ho assolto al mio compito, ora posso affrontare il mio destino in pace».
«Ma come farò a tornare?!»
«Dopo aver effettuato vari esperimenti su di te, ripeteranno il trasferimento. Distaccheranno la tua anima, la sede della coscienza e della consapevolezza di sé, la riscatteranno dalla sua attuale, miserabile condizione, per far rivivere il tuo vero corpo e avere da te un rapporto dettagliato. Ma dimmi: ti hanno istruito su questo punto?»
«No, non ne sapevo assolutamente nulla!»
«Allora è probabile che anche tu sia un esperimento a perdere, affinché i futuri trasmigratori possano effettuare i trasferimenti senza incidenti. Purtroppo finora si è sempre verificato un tragico effetto collaterale: l'esperimento separa l’anima dal corpo, e il corpo senz’anima non sopravvive».
Michael avrebbe voluto svegliarsi da quell'incubo, avrebbe voluto gridare tutta la sua incredulità, ma il calore divenne presto intollerabile. Gli sembrò di avere benzina incendiata al posto del sangue e perse conoscenza.

* * *
I monitor erano impazziti. Il dottor Jordan cercò disperatamente di rianimare il corpo.
«Credevo davvero di aver trovato il giusto dosaggio».
L’infermiera gli rispose con un tono comprensivo, come se ci fosse abituata: «Non deve abbattersi. La prossima volta andrà meglio».
Il dottore applicò il defibrillatore sul petto di Michael e ordinò la scarica, il corpo s’inarcò, ma il cuore non riprese a battere. Provarono e riprovarono, aumentando a ogni tentativo il voltaggio, finché non desistettero.
Michael non aveva di che lamentarsi: ce l’avevano messa tutta per salvarlo.
«Non c’è nulla da fare. Indichi sulla cartella l’ora della morte».
«Devo richiedere al servizio di sicurezza la solita procedura?», domandò l’infermiera.
«Sì», rispose il dottore sconsolato. «Ah, sopprima la vecchia cavia e la prepari per l'autopsia. Voglio confrontare i suoi parametri fisiologici con quelli delle altre».
Presero Andrew, che non offrì alcuna resistenza, e lasciarono Michael solo nella gabbia. Adesso era il suo turno d’aspettare. Era sicuro che non avrebbe dovuto attendere a lungo: di studenti squattrinati era pieno il Campus. Se ci fosse riuscito, avrebbe affidato il messaggio al suo successore. Poi avrebbe atteso. Prima o poi anche lui sarebbe stato soppresso e solo allora la sua anima sarebbe riuscita a evadere dalla sua prigione. Doveva soltanto avere pazienza.
F I N E

Il disastro del dirigibile USS Akron

Il disastro aereo del dirigibile USS Akron

USS-Akron
Un saggio su "La Tela Nera"

Fegato alla veneziana

Gastrozen, 16688 caratteri, versione 1.0


FEGATO ALLA VENEZIANA
di
Leonardo Boselli


«Maestro, perché non ci racconta di come fu sconfitto da Jean Luc Van Damme?»
Quella domanda era stata formulata da una voce alle mie spalle. L'aveva posta una ragazza al primo anno d'apprendistato. All'udirla gli altri allievi ammutolirono e nella sala calò il silenzio.
Posai con delicatezza la mannaia che stavo impugnando. Mi voltai e fissai la giovane negli occhi. Il suo sguardo di sfida mi sorprese. L'avevo appena strapazzata per uno sbaglio che aveva commesso, ed ero stato duro, troppo forse, ma duro come lo ero sempre, con tutti.
Risposi: «Jean Luc Van Damme... sì, sono passati tanti anni, ma ricordo bene quel giorno. Persi, è vero, però non fui davvero sconfitto».
«In ogni caso non ce ne ha mai parlato. Lei evidenzia sempre i nostri errori. Dice che dobbiamo imparare da essi, anche da quelli degli altri, che è necessario studiarli per non ripeterli e per migliorarsi. Ci racconti ciò che ha sbagliato in quell'occasione, ci dica qual è stato il suo errore».
Il silenzio che aleggiava si fece di ghiaccio. Gli allievi si sarebbero scambiati occhiate di terrore se non fossero stati troppo spaventati per farlo: tenevano lo sguardo fisso a terra, e se avessero potuto, avrebbero scavato una buca per ficcarci dentro la testa. Avrebbero voluto essere ovunque, anche all'Inferno, tranne che in quella sala e in quel momento.
Mi pulii le mani insanguinate con lo straccio che portavo alla cintola, impugnai nuovamente la mannaia e mi avvicinai alla ragazza continuando a fissarla. Lei sostenne il mio sguardo finché non le fui a un passo. Non aveva alcun timore di me anche se io ero il maestro e lei l'allieva, non la spaventavano i miei decenni d'esperienza. Lessi nei suoi occhi che era lì per imparare e lo avrebbe fatto anche calpestando il mio orgoglio. D'altra parte aveva scelto il mio corso perché ero il migliore e non si era lasciata intimorire dal fatto che i migliori fossero uomini: anche se lei era una donna, sarebbe riuscita nel suo intento, o almeno ci avrebbe provato con tutte le sue forze.
Tutto questo le lessi negli occhi. Ma quando le fui di fronte abbassò lo sguardo. Dopotutto era soltanto un'allieva e, con quel gesto, sembrò riconoscerlo.
Spezzai la crosta del silenzio che riempiva la sala dicendo: «Lei, signorina, ha parlato di errore, ma dal punto di vista tecnico non lo fu».
A quell'accenno di disponibilità, gli allievi estrassero la testa dalle loro buche figurate e tirarono un sospiro di sollievo. Qualcuno, con entusiasmo, osò pure bisbigliare al vicino: «Adesso racconta».
Con pacatezza dissi: «Fate silenzio». Subito i presenti tacquero e tornarono a fissare il pavimento.
Posai la mannaia e presi un disossatore. Mi sembrava un attrezzo più consono alla situazione. Quindi girai intorno alla ragazza, ignorandola.
«Vedete, voi tutti siete qui per imparare. Avete dimostrato di voler eccellere proprio per aver scelto questa scuola. Non sareste venuti a Firenze da ogni parte d'Italia, o addirittura dall'estero», infatti notai tra gli allievi un giovane cinese, «se non foste stati spinti dalla volontà d'imparare. E per farlo vi siete iscritti alla scuola di cucina di Gabriele Vizzini, il più grande chef d'Europa e, di certo, uno dei migliori al mondo».
Avevo pronunciato quella frase come se stessi parlando di qualcun altro e non di me stesso. Non mi stavo vantando: tutti sapevano che era vero.
La ragazza che avevo strapazzato tentò di obbiettare: «Eppure...», ma lasciò la frase in sospeso, dopo aver posato lo sguardo sul disossatore con cui giocherellavo.
«Come dicevo, siete qui per imparare, e si apprende dagli errori. Ma giunti a livelli eccelsi, gli errori sono indistinguibili dai colpi di genio».
Quella frase suscitò un sommesso mormorio nell'uditorio.
Mi aggiustai il cappello da cuoco sulla testa e ripresi: «Avete mai osservato con attenzione un dipinto di Piero della Francesca? La prospettiva dell'architettura è perfetta, o meglio lo sembra. Appare in quel modo perché sono stati introdotti piccoli errori: se fosse stata davvero perfetta, gli occhi sarebbero stati ingannati mostrando deformazioni inesistenti. Allo stesso modo, avete mai notato le proporzioni dei templi greci? Le colonne si susseguono lungo allineamenti perfetti, ma non è davvero così: è stato inserito ad arte un errore, calcolato con estrema precisione, che suscita quel senso di bellezza che altrimenti sarebbe mancato».
Gli allievi più temerari cominciavano a sollevare lo sguardo da terra, poco persuasi da ciò che stavo dicendo.
«Ma», aggiunsi, «quegli errori non sono gli sbagli che commettete voi!»
Quindi passai, annusando e assaggiando, a una a una le pentole e le padelle sui fornelli lungo il banco da lavoro. Gli allievi, nelle loro livree bianche, sembravano sull'attenti nell'attesa di un'ispezione militare.
«Nel sugo c'è poco peperoncino... il brodo è salato... l'arrosto è crudo... la peperonata è insipida».
A ogni mia sentenza, l'allievo chiamato in causa si muniva di cucchiaio o forchetta, assaggiava a sua volta e sbiancava: perlopiù erano solo sfumature, ma rovinavano il delicato equilibrio d'aromi e sapori.
In fondo alla fila, mi fermai di fronte ai fornelli sui quali cucinava il giovane cinese e assaggiai il suo arrosto d'anatra in salsa tartara e curry.
«Qui c'è un pizzico di zucchero!»
L'allievo diede un'occhiata preoccupata al disossatore.
Continuai: «Quelli che ho elencato finora erano sbagli, ma questo si potrebbe quasi considerare un colpo di genio: è solo un pizzico, ma esalta l'aroma della salsa. Complimenti! Come ti chiami ragazzo?»
«Io essele Wang Dong», rispose.
«Bravo, continua così». Poi, rivolto agli altri, chiosai: «Mi stupisco che, tra tanti allievi, l'unico che riesca a interpretare al meglio la cucina italiana provenga dalla Cina».
A quel punto, la ragazza tornò alla carica e disse sarcastica: «Quindi lei ha perso per un colpo di genio?»
La fila di cuochi apprendisti ebbe un lieve sbandamento. Sembrava che si preparassero a schivare un disossatore che sarebbe stato presto lanciato attraverso la sala per colpire l'autrice d'una frase così irriverente. Ma io ignorai quelle parole e ripresi a raccontare.
«Quando incontrai Jean Luc Van Damme, ero sulla cresta dell'onda, al punto in cui basta un passo falso per precipitare ed essere travolti, ma dalla quale si può anche spiccare un piccolo salto per prendere il volo ed assurgere all'Olimpo degli chef. Avevo già aperto il mio terzo locale, quello in Trastevere, e cominciavo a consolidare la mia fama. Alcune comparsate in televisione avevano aiutato a farmi un nome e i libri che scrivevo avevano successo. Ricevevo molta posta dalle mie ammiratrici e non potevo proprio lamentarmi, ma la mia carriera era a una svolta e l'oblio poteva essere dietro l'angolo. Fu allora che decisi di partecipare al "Grande Chef", che veniva annunciato come il più importante reality culinario delle reti satellitari».
«Questo lo sappiamo tutti», mi incalzò la ragazza, «ero una bimba allora, però ricordo quella serie. È proprio grazie ad essa se mi sono appassionata alla gastronomia e ora sono qui a farmi insultare da lei».
«Bene», dissi con un certo fastidio, «allora ricorderà l'ultima puntata della prima stagione: la finale. Come disse Jean Luc, che era l'avversario più temibile, ci sarebbero state altre stagioni, ma noi saremmo sempre stati i concorrenti del primo "Grande Chef".
Vedete, c'era voluto tutto il mio impegno, anni di fatica, di duro lavoro, e sacrifici a non finire per conquistare la mia posizione, ma in quella trasmissione tutto stava per essere messo in discussione, la mia reputazione era legata a quell'ultima serata e a quell'ultimo piatto da preparare.
Ricordo quel giorno come fosse ora. In finale erano rimasti Gabriele Vizzini, il grande cuoco italiano emergente», dissi la frase come se non parlassi di me, «e Jean Luc Van Damme, un raffinato chef belga, esponente di spicco della nouvelle cuisine».
Mi fermai per rendere la presentazione dei contendenti più a effetto. Mentre tutti gli sguardi erano su di me, posai il disossatore sul piano di lavoro e impugnai una frusta, una di quelle per montare a neve la chiara d'uovo.
Quindi ripresi: «Anche i giurati erano d'eccezione, ma per la finale l'unico arbitro sarebbe stato Gordon Russell, uno chef britannico, proprietario d'una catena di ristoranti e, soprattutto, il principale protagonista di varie serie culinarie di successo, noto per il suo carattere scorbutico. Ci si sarebbe confrontati su un'unica ricetta, la stessa per entrambi».
«Gordon Russell me lo ricordo», disse la ragazza sorridendo. «Aveva un viso simpatico, forse perché le rughe sulla fronte e sul mento ricordavano quelle della mia nonna materna. Le sue sfuriate erano mitiche ed esilaranti».
«Proprio lui», confermai. «Non aveva rispetto per nessuno. Per lui insultarti era naturale come darti il buongiorno di prima mattina. Le sue arrabbiature potevano essere divertenti per il pubblico, ma per chi le subiva erano più dolorose d'una flagellazione sulla pubblica piazza... Ehi! Wang, spegni il fornello, o l'anatra finirà carbonizzata!»
Il cinese, che stava ascoltando a bocca aperta, si affrettò a chiudere il gas e il fuoco si estinse.
Sventato l'attentato contro l'incolumità dell'arrosto, ripresi: «Non esiste attività più violenta dello scontro tra due cuochi che vogliono primeggiare uno sull'altro. Era una lotta all'ultimo sangue, contro il tempo, per rispondere, ingrediente dopo ingrediente, alle mosse dell'avversario».
«Qual era il piatto?» chiese la ragazza.
«Venne estratto un "fegato alla veneziana"».
«Nulla di complicato, quindi».
Sospirai. «Niente di più sbagliato: sono proprio i piatti semplici quelli più difficili. Con essi si può misurare l'abilità di un cuoco. Tutti sono capaci di rendere speciali ricette complesse, basta scegliere ingredienti di prim'ordine, rispettare i tempi di cottura ed evitare gli errori più grossolani. Un piatto semplice, invece, può essere reso unico solo dall'abilità di chi lo prepara, dai colpi di genio che, stravolgendo la ricetta originale, rendono quella pietanza un'esperienza unica e indimenticabile per chi l'assaggia».
Mentre gli allievi riflettevano su quanto fosse complicato preparare un piatto semplice, passai accanto al cinese e gli chiesi a bruciapelo: «Wang, quali sono gli ingredienti del fegato alla veneziana?»
Dopo un istante di panico, con lo sguardo fisso nel vuoto, recitò a memoria: «Pel quattlo pelsone: 600 glammi di fegato di vitello, 600 glammi di cipolle bianche, 1 bicchiele di aceto bianco, 1 bicchiele di blodo, olio extlavelgine d’oliva, sale quanto basta e 50 glammi di bullo».
Ad ogni pronuncia della parola "glammi", le risatine degli altri allievi crescevano, per poi scoppiare in un boato fragoroso al "bullo". Li zittii prontamente con un cenno della frusta.
«Molto bene, Wang. E lei, signorina, cosa ci sa riferire sul fegato alla veneziana?»
«C'è poco da dire. Si tratta di un tipico piatto veneto, con proprietà nutritive. La ricetta classica associa il fegato di vitello, alimento dietetico, con le cipolle, un ingrediente immancabile. Qual è stato quindi il suo errore? Oh, mi scusi, maestro...», si corresse sorridendo, «qual è stato il colpo di genio a cui deve la sconfitta?»
Incassai la facile ironia e ignorai la provocazione ancora una volta. Quella era un'occasione da non perdere: gli allievi avrebbero compreso che cosa davvero rende un piatto speciale, un'esperienza indimenticabile per chi lo gusta.
Iniziai a raccontare: «Il conduttore ci diede un limite di tempo e fece partire il cronometro. Io e Jean Luc avevamo a disposizione una cucina completa e ogni tipo d'ingrediente era pronto nella dispensa. In tutta fretta cominciai a preparare le cipolle: le lavai e le tagliai a fettine. Presi poi una padella antiaderente e misi a scaldare il burro con un po' d'olio, quindi versai le cipolle, che avevo ben scolate, dopodiché aggiunsi il bicchiere d'aceto bianco e un pizzico di sale. Mescolai bene, versai anche il bicchiere di brodo e coprii la padella con un coperchio lasciando cuocere le cipolle a fuoco lento. Dovevo stare attento a non farle friggere, perché devono rimanere morbide. Restava mezz'ora di tempo ed era giunto il turno del fegato. Lo presi e lo tagliai in cubetti di circa tre centimetri.
Di tanto in tanto, mentre la trasmissione continuava tra i commenti della giuria e l'esibizione canora di qualche ospite, lanciavo rapide occhiate a Jean Luc: era al mio stesso punto. Procedevamo di pari passo, sembrava quasi di vedersi allo specchio.
Quando le cipolle furono cotte, versai il fegato nella padella, mescolai e coprii. Attesi una decina di minuti girando di tanto in tanto. Quasi allo scadere del tempo, versai il fegato in un piatto, guarnii con cipolle e servii la portata ben calda di fronte a Gordon Russell».
Presi fiato. Gli allievi pendevano dalle mie labbra. Si stavano chiedendo che cosa avessi sbagliato. Tutto era stato eseguito a regola d'arte, come insegnano i manuali di cucina.
Continuai: «Dopo aver servito la portata, con la coda dell'occhio, feci in tempo a vedere Jean Luc che, nei pochi secondi che rimanevano, versava un'ultima goccia d'aceto sul fegato.
Il giudice assaggiò con scrupolo entrambi i piatti. Li assaporò con calma, ma sembrava indeciso. Il pubblico in sala era in attesa del responso, pregustando gli insulti che ci sarebbero stati riservati.
Alla fine fui chiamato e, con un forte accento inglese, Gordon disse: "Gabriele, il tuo fegato alla veneziana è perfetto. Lo hai cotto al punto giusto, senza rischiare che potesse diventare duro e amaro. Well done! Anche le cipolle sono delicatissime. Hai seguito la ricetta alla perfezione".
Poi si rivolse al mio avversario: "Jean Luc, tu non sei stato fedele alla ricetta quanto Gabriele. Hai usato dell'aceto balsamico?"
Il belga, con la voce resa tremante dall'emozione e dalle erre alla francese, ammise: "Oltre al bicchiere d'aceto bianco ho aggiunto due cucchiai d'aceto balsamico durante la cottura, con un'ultima goccia prima di servire".
Gordon concluse: "La tua variante mi ha emozionato. Quei due cucchiai hanno reso il tuo piatto meno perfetto, ma più coinvolgente, e l'ultima goccia non ha fatto traboccare il vaso. Il vincitore sei tu".
Quella proclamazione fece esplodere il pubblico che assisteva in studio in un boato d'acclamazione. La regia fece suonare le trombe e, nel tripudio generale, furono sparati coriandoli e stelle filanti. Il "Grande Chef" aveva il suo vincitore, ma non riuscivo a capacitarmi: non ero io.
Mi feci largo tra la folla degli ospiti festanti e, mentre Jean Luc lanciava in alto il suo cappello da chef, m'avvicinai a Gordon. Era l'unico che ancora mi prestasse attenzione. Fissò su di me il suo sguardo incorniciato da rughe: aveva l'aspetto d'un vecchio sapiente che teneva ancora in serbo una preziosa perla di saggezza.
Nella confusione generale gli chiesi spiegazioni, pronto a controbattere alle sue critiche, e dissi: "Ma il mio fegato non era perfetto?"
Lo sguardo di Gordon s'illuminò e con le sue parole mi mostrò un nuovo mondo, un intero universo di possibilità, che fino ad allora avevo ignorato. Si accostò con le labbra al mio orecchio per farsi udire nella confusione e disse: "Dici bene. La tua debolezza non è nella tecnica. Ma pensi che siano solo aromi di cucina quelli che respiri ora? No, non solo. Sono fasci di sensazioni che s'intrecciano e si richiamano l'un l'altra. La vista, l'olfatto, il gusto congiurano insieme e ingannano il cervello per fargli credere che ciò che mangiamo non sia solo un informe impasto di molecole, ma sembri una sinfonia di sapori, profumi e colori.
Ogni piatto deve avere un'anima. Il tuo, per quanto perfetto, non ce l'ha. Il tuo fegato cammina, ma non possiede un'anima: è uno zombi"».
Interruppi la narrazione a quel punto, dopo aver sottolineato con il tono della voce la parola "zombi".
Quindi mi rivolsi alla ragazza: «Lei, signorina, mi ha chiesto quale fu il mio errore. Allora ero giovane. Già affermato, certo, ma non ancora il migliore. Quella sera, di fronte al fegato morto-vivente, mi crollò il mondo addosso. Ci volle del tempo per riprendermi, ma alla fine capii che dovevo imparare ancora molto, come voi. Il mio errore fu quello d'aver cucinato un perfetto fegato alla veneziana, ma ciò che rende un piatto sublime è quel colpo di genio che lo rende imperfetto e sorprendente».
Gli allievi, che avevano ascoltato a bocca aperta il mio racconto, erano rimasti inebetiti. Posai la frusta e ripresi la mannaia, quindi gridai: «E ora, pessime controfigure d'un lavapiatti, gettate nella pattumiera quello zombi volatile che avete cucinato e ricominciate. Uscirete da qui solo quando la vostra anatra in salsa tartara e curry volerà!»

F I N E

Il vicolo dei fabbri

Il vicolo dei fabbri

di
Leonardo Boselli


Il sole stava calando dietro le colline a occidente di Gerusalemme. Ponzio Pilato, il governatore della Giudea, stava dettando una lettera al suo segretario sulla terrazza della sua residenza, quando s’interruppe per osservare il tramonto. In lontananza si scorgevano le mura del tempio illuminate dalle ultime luci del giorno.
La città sembrava tranquilla, ma dietro quelle pareti bianche covava un odio viscerale. Quel popolo mite avrebbe sopportato ancora una volta la dominazione di genti straniere, ma non si sarebbe mai fatto assimilare; non c’erano riusciti gli egiziani e neppure i babilonesi: avrebbero fallito anche i romani.
Il governatore si lasciò trasportare dai suoi pensieri. Le rivolte degli Zeloti non destavano la sua preoccupazione – erano sempre state soffocate nel sangue – e concluse che era sufficiente che i Giudei pagassero le tasse: nessuno lo aveva mai fatto senza lamentarsi e, in fondo, quel popolo si lagnava in modo meno fastidioso di altre genti.
Pilato sorrise di quel pensiero, ma fu subito colto da un fastidioso prurito alle mani e provò il desiderio irrefrenabile di grattarsi. Quindi si voltò verso il suo segretario, che era in paziente attesa accanto a Gaio Cassio Longino, un centurione della guarnigione di Gerusalemme.
«Cosa stavo dicendo?» chiese.
Il segretario, dopo aver finto d’ignorare il gesto compulsivo del governatore, prese la tavoletta che stava scrivendo e lesse: «Ponzio Pilato, governatore eccetera, all’imperatore Claudio eccetera, Ave!»
«Ah, ecco». Pilato tornò a osservare il sole. Quando si spense anche l’ultimo raggio, si volse, guardò il centurione in piedi sull’attenti e disse: «Allora continuiamo».
Il segretario riprese a scrivere mentre Pilato dettava. Dopo altri convenevoli, il governatore cominciò il rapporto vero e proprio e raccontò il fatto che gli stava a cuore.
«Ho recentemente indagato su una credenza che si sta diffondendo in alcuni ambienti di Gerusalemme. Infatti molti sono convinti che i Giudei, per invidia, abbiano condannato loro stessi e la loro posterità per essersi macchiati di una terribile colpa. I loro profeti avevano decretato che il Dio degli Ebrei avrebbe inviato al popolo l’Eletto, colui che per diritto sarebbe stato chiamato loro re. Costui sarebbe giunto sulla Terra per mezzo di una vergine. Molti credono che un uomo che corrisponde alla descrizione sia stato davvero inviato, proprio durante il mio governatorato. Egli è stato visto guarire lebbrosi e paralitici, cacciare demoni, ridare la vista ai ciechi, resuscitare i morti, quietare i venti, camminare sulle acque, e compiere altre meraviglie, tanto che il popolo dei Giudei era giunto a chiamarlo Figlio di Dio. Ma i sommi sacerdoti, accecati dall’invidia, lo fecero catturare e me lo condussero in giudizio, incolpandolo di false accuse, dicendo che si trattava di un bestemmiatore che agiva contro la legge ebraica e che si era proclamato Re dei Giudei. Lo interrogai ed egli non si difese. Per accontentarli lo feci flagellare, ma non fu sufficiente. Per quietare i tumulti fomentati dalle loro fazioni, lasciai che fosse fatto quanto loro chiedevano e fu crocifisso. In quei giorni, sembrava che questa decisione avesse calmato gli animi e che i seguaci di quell’uomo si fossero dispersi. Per maggior sicurezza, quando fu sepolto, i sommi sacerdoti fecero mettere delle guardie al suo sepolcro, perché si ricordarono che quell’uomo aveva detto che sarebbe risuscitato dai morti. Ma, nonostante quell’accorgimento, il corpo è comunque scomparso. I soldati sostengono di essersi addormentati e che i discepoli di quell’uomo ne devono aver trafugato il cadavere. In ogni caso, i soldati che hanno sostenuto di dormire durante il loro turno non sono state puniti e questo è sospetto. Ci sono anche voci che le guardie siano state pagate per testimoniare il falso. In ogni caso, il numero di coloro che credono nella risurrezione del Figlio di Dio cresce di giorno in giorno».
Pilato continuò la sua relazione e in conclusione aggiunse: «Il centurione che vi reca questa mia, o divino Claudio, è stato testimone oculare della crocefissione e morte dell’uomo che molti Giudei hanno riconosciuto come il re che li avrebbe liberati da ogni schiavitù. Egli può integrare le parti del rapporto che vi sembreranno lacunose».
Proseguì con ulteriori notizie e concluse con i saluti.
«Ho terminato. Il testo sia ricopiato su pergamena».
Il segretario si ritirò per obbedire all’ordine. Quindi Pilato si rivolse a Gaio Longino: «Centurione, consegnerete voi stesso questa missiva a Roma. Partirete domattina. Se l’imperatore dovesse convocarvi per chiedere ragguagli, lo informerete a mio nome. Ave».
Longino non disse nulla. Tese il braccio in segno di saluto, poi si voltò e uscì dalla stanza.
Le ombre della sera calavano come un velo funebre su Gerusalemme. Longino stava scendendo le ampie scale del palazzo del governatore, quando fu colpito da un crampo alla mano destra. Si fermò e nell’osservarla la rivide coperta di sangue: dopo aver brandito una lancia, aveva trafitto il costato del “Re dei Giudei” ed era stato investito da un getto di sangue e acqua che gli aveva intriso le mani. Aveva ucciso a sangue freddo molti uomini nella sua carriera, ma il colpo che aveva inferto in quel corpo già morto appeso a una croce lo aveva segnato indelebilmente. Non ne capiva il motivo, ma un senso di colpa, che un tempo gli era sconosciuto, l’accompagnava in ogni ora della giornata.

* * *

«Vedo che la lancia le interessa molto».
Adolf si scosse e si voltò. Vide un custode della sala. Gli si era avvicinato e ora era fermo accanto a lui. Anch’esso si era messo a osservare la teca dove era conservata la Heilige Lance, la “Lancia Sacra”. Si trovavano nella Weltliche Schatzkammer, la sala del tesoro degli Asburgo nel palazzo di Hofburg. I visitatori potevano deliziarsi nell’ammirare i manufatti inestimabili là conservati.
«Un uomo così giovane», continuò il custode, «non può restare che affascinato di fronte ai millenni di storia che accompagnano quest’arma».
«Ho letto che il chiodo inserito all’interno della punta è uno di quelli che trafissero il Cristo. È stupefacente!» disse Adolf estasiato.
«Sì, sembra davvero incredibile che addirittura... quanti sono... siamo nel 1909... sì, addirittura quasi due millenni ci separino dagli avvenimenti dei quali questi strumenti di morte sono stati protagonisti. Eppure sono qui di fronte a noi, come monito».
Il giovane ventenne tornò a osservare, rapito, la punta di lancia e il chiodo incastonato. Gli sembrava di vedere il metallo ancora grondare del sangue del Cristo crocifisso e si sorprese nel vedere, riflessa sul cristallo della teca, la sua immagine, sovrapposta alla sagoma della lancia.
Il custode riprese: «Di quest’arma sono state documentate le peripezie nel corso dei secoli, tra storia e leggenda. Utilizzata da Gaio Cassio Longino per trafiggere il costato di Gesù morto sulla croce, giunse nelle mani di Maurizio, comandante di un distaccamento dell’esercito romano, la Legione Tebana, i cui soldati furono sterminati perché si rifiutarono di prendere parte a una cerimonia pagana. La lancia quindi passò di mano in mano portando con sé un grande potere...»
Il custode continuava a raccontare con dovizia di particolari le guerre in cui si pensava che l’arma avesse avuto qualche influenza positiva per chi la possedeva, e mentre parlava al giovane Adolf sembrava che la propria immagine riflessa si contornasse di fiamme e vedeva eserciti immensi calpestare la terra lasciando dietro di sé solo morte e devastazione.
«Sì, un potere immenso», ricominciò solennemente il custode. «Appartenne a Costantino il Grande, il quale la brandì nella battaglia di Ponte Milvio e riportò una schiacciante vittoria contro Massenzio, che annegò nel Tevere. L’imperatore Teodosio ne era in possesso quando sconfisse i Goti, il generale Flavio Ezio grazie a essa respinse Attila, Carlo Martello la usò per sconfiggere gli arabi a Poitiers. Quindi passò a Carlo Magno, a Ottone I il Grande, a Federico Barbarossa fino agli Asburgo. E ora eccola qui. Chissà chi raccoglierà il testimone di così tanti condottieri!»
Il custode aveva continuato a parlare con trasporto, sull’onda degli avvenimenti della storia, ma il giovane Adolf era ormai lontano con i suoi pensieri. L’eco di quelle parole l’aveva solo sfiorato. La “Lancia del Destino” era di fronte a lui ed ebbe una visione di stendardi e folle inneggianti: non si accorse che, mentre raccontava, le mani del custode si erano serrate, prese da un crampo, come se impugnassero l’asta di una lancia.

* * *

Il locale era piccolo e basso. Si percorreva nella sua intera lunghezza con pochi passi e alzando un braccio si poteva quasi toccare il soffitto. Doveva essere uno scantinato. Un luogo sotterraneo, spoglio, silenzioso, dove non si poteva capire quale ora del giorno o della notte fosse. Quella cantina era diventata una stanza per gli interrogatori improvvisata, ma che assolveva allo scopo in modo adeguato.
Una lampadina appesa al soffitto illuminava dall’alto una sedia inchiodata al pavimento, mentre lasciava il resto della stanza al buio.
Su quella sedia era legato un uomo nudo, inerme. Per quanto fosse robusto, le cinghie di cuoio attorno agli avambracci, alle gambe e alla testa, gli impedivano qualsiasi movimento; poteva solo fissare con odio l’aguzzino che lo tormentava da ore.
Nella stanza, oltre al torturatore, c’era un ufficiale, che si teneva nell’oscurità dietro la spalliera della sedia: si era presentato come colonnello, il colonnello Norman Stiller, e il prigioniero ne udiva solo le domande assillanti.
«Perché vuoi soffrire ancora, Wilfred?» disse la voce nell’ombra.
Parlava in tedesco con un forte accento americano. Lo aveva chiamato per nome sin dall’inizio, ostentando una confidenza fuori luogo.
L’uomo continuò: «Tu sai perché ti tormento. Dimmi dove si trova e sarà tutto sarà finito».
Il prigioniero non rispose, allora la voce abbandonò quel tono dall’apparenza gentile e, rivolta all’aguzzino, abbaiò un ordine in inglese: «Continua, Tyron!»
Risuonarono alcuni passi, l’uomo uscì dalla stanza e una pesante porta metallica si richiuse con violenza. Poi calò il silenzio.
Il torturatore si tolse la giacca della divisa, si rimboccò le maniche della camicia d’ordinanza e strinse saldamente nella mano destra un tirapugni di ferro. Quindi si mise lentamente a girare intorno alla sedia. Il prigioniero continuava a fissare il proprio aguzzino con uno sguardo di sfida.

* * *

La cella del carcere era stretta e lunga, occupata per la maggior parte da una branda coperta da uno scomodo materasso e dal bugliolo per orina ed escrementi. In alto, tre solide sbarre chiudevano un piccolo lucernario da cui filtrava la luce del giorno.
Karl Vogel, un ufficiale della Gestapo che si era arreso pochi giorni prima alle truppe americane, era seduto sul materasso e leggeva una Bibbia che gli aveva procurato il cappellano militare della prigione. Il libro di Giobbe era una delle sue letture preferite.
In quei giorni, mentre infuriavano feroci battaglie all’ultimo sangue, le truppe americane stavano avanzando da occidente sul territorio tedesco e i russi martellavano Berlino da est. Stretto tra due fuochi, il kriminalkommissar Karl Vogel aveva deciso a quale dei due nemici del Reich convenisse arrendersi, e ora, chiuso in cella, separato dal resto dei soldati tedeschi prigionieri, era in attesa che la sua sorte venisse decisa. Aveva trattato la sua resa, ma sapeva che gli accordi ottenuti in tempo di disfatta valevano quanto l’onore delle persone che li avevano stipulati, e di onore, dopo cinque anni di guerra, ne era rimasto poco, da una parte e dall’altra. Leggendo le vicende di Giobbe meditava sul da farsi: al peggio non c’era mai fine, pensava, ma spesso il cielo, per quanto minaccioso sembrasse, poteva rasserenarsi in modo miracoloso e il sole tornare a splendere.
Prima di arrendersi a una colonna di soldati americani in marcia, Vogel aveva avuto l’accortezza di indossare la giacca di un soldato morto della Wehrmacht, in modo da non essere fucilato sul posto come spia; presto, però, si era liberato di quella divisa infangata. Ora, seduto sul pagliericcio, vestiva i suoi abiti eleganti che lo rendevano riconoscibile per quello che era, un membro della Gestapo, la polizia segreta del Reich. Infatti indossava un impermeabile in pelle nera a doppio petto e una cravatta scura, mentre un paio di occhiali di tartaruga e dei baffi sottili rendevano il suo aspetto piacevole e rassicurante. Le sue scarpe, sopravvissute a tante traversie, erano di nuovo lucide e facevano bella mostra di sé in fondo a un’impeccabile riga dei pantaloni. Completava il quadro un borsalino, appoggiato su un angolo del letto. L’unico accessorio di cui aveva ritenuto opportuno liberarsi era la spilla del partito nazista, che aveva sempre portato appuntata sulla cravatta.
Vogel sentì aprire di scatto lo spioncino della porta. Poi, dopo due mandate, l’uscio si spalancò ed entrò John Longman, il responsabile del carcere per l’esercito statunitense, in compagnia di un altro ufficiale.
«Commissario, c’è una visita per lei», disse Longman nel suo pessimo tedesco.
Vogel si alzò e rispose nel suo inglese perfetto: «Mi dispiace accogliervi in questa misera cella, ma di questi tempi bisogna accontentarsi».
Aveva pronunciato quella frase ironica con il suo solito tono affabile: spesso si affidava a questa sua ambiguità per mettere a disagio i propri interlocutori. Si presentava come un uomo raffinato ed elegante, aperto e disponibile, ma subito dopo poteva sfoderare un’insospettata crudeltà, che pure era già evidente nella fredda eleganza che ostentava.
«Lei ha sempre voglia di scherzare», replicò Longman. «Le presento il maggiore Rourke, dei rangers».
«Conosco di fama il maggiore», disse Vogel stringendo la mano che l’ufficiale gli aveva teso.
«Bene, allora vi lascio soli», disse Longman congedandosi. «Dovrete discutere di molte cose». Uscì dalla cella richiudendo la porta con la doppia mandata e ordinò a una guardia di presidiare l’ingresso affinché nessuno li disturbasse.
«E così mi conosce», esordì il maggiore.
Si tolse il berretto da ranger e si sistemò la divisa. Sembrava appena tornato da una missione in prima linea, per gli stivali infangati e la divisa coperta di polvere, e forse era proprio così.
«Di recente mi sono occupato di controspionaggio», rispose il commissario, «e conosco bene la gerarchia del’OSS».
«Allora potrà sicuramente essermi d’aiuto, visto che io la ignoro quasi del tutto», disse il maggiore ridendo.
Negli ultimi tempi, Vogel era stato impiegato negli interrogatori degli ufficiali alleati catturati sul fronte francese. I superiori avevano intenzione di scoprire i piani degli alleati nel continente, in modo da anticiparne le mosse, ma nel frattempo il commissario ne aveva approfittato per tessere una sua rete di conoscenze, da sfruttare durante le ultime fasi della guerra. Tutti erano consapevoli che ormai fosse persa: l’obiettivo era uscirne nel migliore dei modi possibili, e i contatti che aveva ottenuto costituivano un’assicurazione sul futuro.
«Sarei felice di poterle esserle utile, ma ormai la mia posizione...»
«Lei si schernisce. L’ho letto nel suo profilo: “Consapevole delle proprie capacità, le nasconde per ottenere da esse il massimo risultato possibile. Freddo calcolatore, serve di norma la propria causa, non quella del Reich, ed è un soggetto che sarebbe opportuno reclutare...”»
Rourke aveva ripetuto le ultime parole come se le leggesse un rapporto, e probabilmente lo stava facendo, nella sua mente.
«Non è un profilo molto lusinghiero», disse Vogel con un tono che però non dimostrava alcuna contrarietà.
«Mi sono permesso perché so di poterlo fare, in modo che non ci siano malintesi. Lei non è un fanatico, lei vuole sopravvivere al Reich. Altri hanno deciso di affondare assieme alla nave, ma lei non è uno di quelli».
«Lo farei, se ne valesse la pena».
«Ne sono certo, come so che lei è di parola».
«Beh, avevo giurato di essere fedele a Hitler e alla nazione...»
«È di parola con chi merita la sua fiducia. Io sono qui per dimostrarle che può avere fiducia in me».
Rourke pronunciò le ultime parole con solennità. Quasi sembrava che avesse alzato la mano nel segno del giuramento dei boy-scout, e Vogel capì che da quell’uomo non aveva nulla da temere.
Il maggiore proseguì: «Prima però devo risolvere un problema. Mi hanno ordinato di portare a termine una missione. Nelle alte sfere c’è qualcuno che crede che possa far terminare la guerra in poche ore, invece di lasciarla trascinare in scontri sanguinosi per altre lunghe settimane. Si tratta di sacrificare alcuni uomini per salvarne decine di migliaia. È l’occasione per dimostrare la sua buona volontà. Dopodiché la farò rientrare in una operazione che stiamo organizzando in vista della fine della guerra: lei non è propriamente uno scienziato, ma sono certo che le sue conoscenze in psicologia potranno essere utili a noi, più di quanto potrebbero esserlo ai russi».
Quell’ultima frase rimbombò nella mente di Vogel come una minaccia, più di quanto le labbra di un boy-scout avessero voluto far sembrare.
Vogel sospirò e chiese: «Di che si tratta?»
«Vede, quando l’Austria entrò a far parte del Reich, molti oggetti preziosi che appartenevano agli Asburgo furono, diciamo così, “trafugati”».
Rourke pronunciò l’ultima parola alzando l’indice e il medio delle due mani e muovendoli come se stesse grattando l’aria, dopodiché continuò: «Noi siamo interessati a un manufatto in particolare, come a suo tempo lo fu il suo cancelliere, Adolf Hitler. L’oggetto che ci preme recuperare fu trasferito a Norimberga nella chiesa di S. Caterina, ma successivamente è stato nascosto in un luogo più sicuro. Alcuni dicono addirittura che sia in viaggio su un U-boot alla volta dell’Antartide».
«È possibile, abbiamo delle basi laggiù», disse Vogel ironico.
«Anch’io penso che la verità sia meno fantasiosa e ho scommesso sulla fortezza di Norimberga, in un sotterraneo blindato».
«Se la sua ipotesi fosse corretta», aggiunse il commissario, «ora avreste un bel problema, visto che l’anno scorso la città è stata bombardata e la fortezza è stata rasa al suolo. Si dovrà scavare, e in profondità».
«Sì, si tratta di un lavoro lungo e non c’è tempo. Se almeno sapessimo dove cercare. C’è però un cosa che mi consola, caro Vogel: fino a pochi minuti fa, era un problema solo mio, ma ora è anche suo. E ha ragione: dovrà scavare, e molto in profondità».

* * *

Il colonnello Norman Stiller entrò nel suo ufficio, si tolse la giacca, si sbottonò il colletto e i polsini della camicia, poi prese una brocca e versò dell’acqua in una bacinella sostenuta da un treppiede. Quel giorno non faceva caldo, ma il colonnello soffriva di sbalzi di pressione, e cercò di rinfrescarsi bagnandosi il collo e i polsi.
Infine si passò la mano bagnata sulla testa completamente rasata, come se volesse pettinare all’indietro i capelli che non aveva.
“Quel tedesco è un osso duro”, pensò mentre prendeva l’asciugamano, “ma Tyron riuscirà a piegarlo, prima o poi”.
In quel momento qualcuno bussò alla porta dell’ufficio. Dopo qualche istante entrò l’attendente.
«Colonnello, il maggiore Rourke è arrivato. Conduce con sé un prigioniero tedesco».
Stiller finì di asciugarsi le mani e rispose: «Molto bene, li faccia entrare».
L’attendente si fece da parte e lasciò passare due uomini.
Rourke indossava ancora la divisa d’ordinanza impolverata e gli anfibi infangati. Nonostante l’aspetto trasandato, era un uomo che ispirava fiducia. I corti capelli biondi erano quasi del tutto nascosti dal berretto, mentre una cicatrice gli attraversava la guancia proprio sotto l’occhio destro e rendeva ancor più evidente uno sguardo onesto e sincero. Come si diceva allora: era un uomo dal quale avresti comprato con fiducia un’auto usata. Fece due passi avanti e salutò il colonnello battendo i tacchi.
Il secondo uomo invece era Karl Vogel. Indossava ancora i suoi abiti eleganti e la detenzione non aveva cancellato la riga dai suoi pantaloni.
«Colonnello, le presento il kriminalcommisar Vogel» disse il maggiore dopo aver abbassato la mano che aveva portato alla testa nel saluto.
Stiller indossò la giacca e si avvicinò agli ospiti.
«E così finalmente faccio la sua conoscenza», esordì rivolto al commissario. «Ho letto note sorprendenti su di lei in numerosi rapporti». Poi ne osservò l’abbigliamento ricercato e aggiunse: «Di certo quei rapporti non mentivano».
«Spero che parlassero bene di me».
«In un certo senso sì», rispose il colonnello. «Il maggiore l’avrà ragguagliata. Di norma non siamo soliti a ricorrere a collaborazioni di questo tipo, ma il tempo stringe ed è necessario fare ogni tentativo possibile, per quanto fantasioso possa sembrare».
«Sì, il maggiore mi ha spiegato».
Il colonnello proseguì: «Tra le altre cose, ho saputo che lei adotta una tecnica d’interrogatorio innovativa e poco ortodossa: l’ipnosi! Crede veramente nella sua efficacia? Io penso che sia roba da ciarlatani, da illusionisti di provincia».
«Io invece ritengo che sia un utile strumento d’indagine. La mente umana è complessa: occorre trovare con pazienza la chiave che ne dischiude i segreti. La conduzione d’un interrogatorio è un’arte. Di solito ci si affida alla tortura, ma sono convinto che chi usi la violenza come unica risorsa non sia altro che un macellaio».
«Lo penso anch’io. Siamo venuti a conoscenza di molte tecniche adottate dai suoi colleghi, che lei ora definisce macellai. Purtroppo il tempo stringe e sono costretto ad adottare metodi che mi disgustano».
Quindi si abbottonò anche l’ultimo polsino e ordinò: «Seguitemi entrambi».

* * *

La stanza degli interrogatori era ancora avvolta nell’oscurità, tranne per quella fastidiosa luce centrale: illuminava l’uomo nudo legato alla sedia. Il suo volto presentava numerose tumefazioni.
«Salve, Wilfred. Hai visite. Sono venuti da lontano per conoscerti» disse il colonnello nel suo pessimo tedesco. Il prigioniero rimase immobile, come se non avesse sentito; un occhio era chiuso per i pugni ricevuti, mentre l’altro fissava il vuoto. Lo sguardo di sfida era stato cancellato a furia di colpi.
Stiller continuò sottovoce rivolto a Vogel: «Sono tre giorni che lo interroghiamo. Conosce l’ubicazione del manufatto che stiamo cercando, ma non riusciamo a farlo parlare. Può darsi che lei abbia più successo: se davvero vuole dimostrare la sua volontà di collaborare, questa è la sua occasione».
Vogel si tolse cappello e impermeabile. Sotto indossava un elegante completo scuro, interrotto solo dall’angolo bianco d’un fazzoletto che sporgeva dal taschino.
L’uomo legato alla sedia sembrava provato, ma non intimorito; dalla sua bocca non era ancora uscito un lamento. Il commissario l’osservò con attenzione, gli rivolse qualche parola senza smuoverlo dal suo mutismo. Ne ottenne solo uno sguardo d’odio: aveva capito d’aver di fronte un collaborazionista, un traditore della causa nazista.
Vogel terminò quella sua analisi, apparentemente infruttuosa, e spiegò: «Quest’uomo odia voi e me più di quanto non ami la sua vita. È convinto che in ogni caso non uscirà da qui sulle sue gambe. Ogni insulto, ogni colpo, ogni amputazione non farà che accrescere la sua determinazione. Sopravvive solo perché è alimentato dal disprezzo. Dovete trovare un altro modo per piegarlo».
«Lei pensa di poter fare di meglio?». Il tono del colonnello oscillava tra sfida e speranza. «Crede davvero che dei trucchi da illusionista funzionino veramente, o che possano servire in questo caso?»
Karl Vogel si tolse gli occhiali, prese il fazzoletto che sporgeva dal taschino della giacca e si mise a pulire le lenti appannate, quindi rispose: «Per ottenere delle risposte bisogna conoscere il soggetto. Saggiarne la resistenza è importante, certo; ma la tortura, come le dicevo, è un’arte che l’uomo sta perfezionando sin da quando è scoccata la prima scintilla d’intelligenza. Ha una tradizione di millenni: non ci si improvvisa e posso dire, senza timore d’essere smentito, che i membri della Gestapo sono maestri in questo campo. Ma neppure un interrogatorio professionale avrebbe effetto. L’esperienza di sofferenze insopportabili ha presa solo sui deboli. Quest’uomo non è un debole».
Il colonnello Stiller interruppe le spiegazioni del commissario e disse: «Bene, tocca a lei. Mi stupisca».
«Ho solo bisogno di una cosa», disse Vogel. E parlò all’orecchio del maggiore Rourke che subito uscì dalla stanza.
Wilfred fissava con odio il commissario. Era allo stremo delle forze, ma se dopo tanti giorni di torture era ancora vivo, nulla avrebbe potuto più potuto piegarlo consapevolmente, nulla.
Vogel si avvicinò al prigioniero e si mise a parlargli sottovoce all’orecchio: «Questi uomini sono degli animali, sono uomini di una razza inferiore, io non sono come loro. Io disprezzo tutto quello che le sta accadendo. So che mi odia, ma volevo che sapesse che io sono diverso. Per lei non farà differenza, ma per me sì». Infine aggiunse: «Desidera qualcosa? Le posso farle portare da bere, se vuole».
Per tutta risposta Wilfred cercò di girare la testa immobilizzata quanto più poté e sputò un grosso grumo di saliva e catarro verso il commissario, senza però riuscire a colpirlo. Infatti Vogel era rimasto defilato. Si era accostato al prigioniero, ma era rimasto sulla difensiva. Era una delle regole che seguiva: “Non fare mai una domanda se non conosci in anticipo le possibili risposte”. Lo sputo era una di quelle.
Il commissario continuò a parlare, con un tono dolce e rassicurante, mentre sfiorava Wilfred con le dita ed esercitava lievi pressioni sulla sua pelle nuda.
Il prigioniero all’inizio cercò di divincolarsi, chiese con forza che smettesse di toccarlo con quelle mani da finocchio traditore, ma dopo qualche minuto si arrese. Sembrò quasi che quelle pressioni, non dolorose e, in fondo, neppure ambigue, lo confortassero. Era il primo contatto umano che provava dopo giorni di torture, e con un uomo che, per quanto stesse tradendo, apparteneva comunque alla razza superiore.
«Wilfred, sappiamo che è inutile ricorrere alla violenza con lei. Ha deciso di sacrificarsi per la nazione, per la causa, per la razza».
Il prigioniero fissò Vogel. Per la prima volta, da giorni, guardava un uomo senza vedere un animale da odiare con tutto se stesso. Gli occhi del commissario, cerchiati dagli occhiali e così miti, sembravano possedere quel briciolo d’umanità che si spera sempre di trovare in un proprio fratello, anche se fosse il più spietato dei criminali.
Vogel intuì ciò che passava per la mente di Wilfred. Era giunto il momento di accompagnarlo in un altro passo avanti lungo quel cammino senza sbocchi.
Continuò a parlargli con ferma dolcezza, lo fece sentire al sicuro, come se si trovasse con un amico. Aveva stabilito un rapporto, per quanto il prigioniero rimanesse ancora a labbra serrate e fingesse di non ascoltare.
Passò un tempo interminabile, durante il quale Vogel parlò di tutto: della guerra, del tempo di pace, di figli, di mogli, di donne, di partite di calcio, della famiglia di Wilfred e della sua casa. Durante quel fiume di parole, il commissario aveva vinto la resistenza del prigioniero: gli reggeva una mano, come per confortarlo, e gli teneva con discrezione il polso.
Nel frattempo Rourke era rientrato e aveva passato una carta geografica piegata al commissario. Vogel l’aprì su un tavolo che aveva accostato alla sedia. Era la pianta di Norimberga. La distese con cura e indicò la casa del prigioniero.
«Ecco casa tua», gli disse.
Il polso del prigioniero ebbe un sussulto. Vogel lo fece calmare e riprese a parlare con dolcezza e nel frattempo muoveva il dito sulla carta, indicava luoghi familiari a Wilfred e ne leggeva i nomi, le intestazioni delle vie e delle strade. Poi passò sul luogo dove era collocata la fortezza di Norimberga, distrutta dai bombardamenti. Vogel indugiò a lungo con movimenti circolari su quel punto e i suoi dintorni, poi lasciò la mano del prigioniero.
Si avvicinò ai due ufficiali che attendevano in un angolo della stanza, prese il fazzoletto candido che spuntava dal taschino della giacca, si asciugò il sudore della fronte e disse: «Vicolo superiore dei fabbri».

* * *

Di fronte alla teca della Heilige Lance, la “Lancia Sacra”, il custode continuò la sua spiegazione di fronte a un piccolo gruppo di turisti: «Quest’arma appartenne a Costantino il Grande, all’imperatore Teodosio, al generale Flavio Ezio, a Carlo Martello, quindi a Carlo Magno, a Ottone I il Grande, a Federico Barbarossa, agli Asburgo. Adolf Hitler ne entrò in possesso e la conservò fino al 30 aprile del 1945. Quel giorno, una squadra dell’OSS rintracciò tra le macerie dell’antica fortezza di Norimberga l’ingresso della sala in cui era stata occultata e recuperò questa reliquia. L’arma aveva di nuovo cambiato mani. Poche ore dopo Hitler si suicidò nel suo bunker a Berlino, assediato dalle truppe russe. Quindi la lancia fu restituita agli austriaci e riportata qui, dove ora potete ammirarla».
Il racconto era avvincente e i turisti fissavano quella reliquia con curiosità. Nessuno di loro si accorse che le mani del custode si erano serrate, prese da un crampo doloroso, come se impugnassero l’asta di una lancia.

F I N E

La bolgia degli scrittori

La Bolgia degli Scrittori

di
Leonardo Boselli

L’Inferno è un pozzo immenso, oscuro, scavato nelle profondità della terra. È un luogo ricolmo di sofferenza e di noia, e allo stesso tempo vuoto d’amore e di fantasia. Le urla dei dannati lo riempiono in ogni sua parte: gridano la loro disperazione, la perdita di ogni speranza.
Malagianna, una delle scimmiette di mare cornuta addette alla "Bolgia degli Scrittori", col jet-pack sulle spalle a potenza massima, ammirava librata nell’aria cupa quello spettacolo terrificante ed, esaltata da quella visione, affondava compiaciuta il gancio da macellaio nell’anima sventurata che stava trascinando con sé sempre più in basso. Un sottile gemito usciva da quel dannato, un pessimo scrittore di romanzi fantasy: il tormento dell'uncino non era nulla rispetto all’angoscia d'aver sciupato la propria esistenza nell'ideare vicende immaginarie che raccontava per denaro ai creduloni. Malagianna poteva percepire tutte le sensazioni, i rimorsi, i rimpianti che lo attanagliavano: avrebbe avuto l’intera eternità per disperarsi inutilmente, un giorno dopo l’altro, per sempre.
La scimmietta cornuta sorvolò i primi cerchi dell’Inferno. Passò nel turbine dei lussuriosi accompagnandoli per un breve tratto nelle loro evoluzioni, poi giunse sulla città di Dite, e l’orda dei diavoli guardiani dalle mura infuocate la salutò cantando sguaiatamente una volgare canzonaccia. Poi osservò dall’alto la necropoli di tombe degli eretici, roventi come formaci; infine attraversò la pioggia di fuoco che flagella il deserto di sabbia dei bestemmiatori.
Malagianna, che aveva descritto nei minimi particolari quel terrificante paesaggio all’anima dannata che portava arpionata sulle spalle, già sentiva aria di casa. Ammirò ancora una volta l’ordine spietato che regnava negli enormi fossati del cerchio ottavo, attraversati a raggiera da lunghi ponti. In quell’ultimo tratto volò su un canale ricolmo di fetido sterco, poi planò sulle sponde della quinta Bolgia, nella cui pece bollivano senza pace i barattieri, e proseguì fino a giungere alla Bolgia degli Scrittori.
Alte sponde circondavano un fiume di carta in continua agitazione e tormentato da un forte vento. Si trattava di pagine di libri, di pergamene, di tomi voluminosi e di piccoli opuscoli. Ogni genere d'opera di narrativa fantastica costituiva il fluido che permeava i meandri di quel luogo disperato. Il puzzo degli inchiostri, la ruvidità della carta, i suoi bordi affilati, gli spigoli delle copertine e i dorsi rigidi dei volumi rendevano quel luogo aspro e inospitale, ma le orribili scimmiette cornute la consideravano dopo tanti secoli come la loro casa.
Malagianna conduceva quel suo ufficio a contatto con i dannati con solerzia e una compiaciuta abnegazione, tanto che era tenuta in considerazione tra le scimmiette come un capo, e quando si trovava a portata d'uncino di una di quelle anime sventurate, provava un malsano piacere a saggiarne la consistenza.
Giunta sul ponte che attraversava tutta la Bolgia degli Scrittori, Malagianna si posò leggera e trattenne davanti a sé il dannato, proprio di fronte al baratro. Nonostante fosse una esemplare piuttosto minuto, come tutte le scimmiette di mare cornute, possedeva una notevole forza e riusciva a gestire, grazie agli strumenti di tortura di cui era dotata, anche i dannati più corpulenti, e poi le anime di per sé non sono pesanti.
Gli spiegò compiaciuta: «Osserva il tuo nuovo mondo. Abiterai qui per sempre. Questo fiume di carta maleodorante ti inghiottirà per l’eternità. Solo una cosa cambierà un giorno: alla fine dei tempi il tuo corpo, ora disfatto, risorgerà e tu soffrirai ancora di più. Guarda tutto con attenzione, perché tra poco non vedrai che pagine e pagine di storie senza senso».
Il dannato, di fronte a quella visione, si rivolse alla scimmietta piagnucolando e dibattendosi: «Abbi pietà, ti prego! Non merito tutto questo! Cosa ho fatto di male nella mia vita? Niente più di quello che tanti romanzieri hanno fatto e continueranno a fare!»
Malagianna ascoltando quelle parole non provava alcuna pietà, ma solo disprezzo per quel pusillanime. Gli rinfacciò: «Dovevi pentirti prima. Ora è troppo tardi», e così dicendo lo sollevò in punta di gancio oltre il bordo del ponte.
«No! Aspetta! Almeno una cosa concedimela. Avverti i miei colleghi, fai sapere ai miei amici dove ha portato la mia condotta, non devono finire così, seguendo il mio esempio. Ti scongiuro! Io sono l'autore di...», ma Malagianna lo scaraventò dal ponte giù nel fiume di carta; lo guardò girare su se stesso mentre agitava le braccia e precipitava. L’impatto fu rovinoso: la superficie fatta di libri e pagine sciolte fagocitò il dannato in un attimo e si sollevò una nuvola di risme dov'era stato tuffato. Intorno a quel punto si radunarono subito in volo alcune scimmiette cornute coi loro jet-pack sulle spalle.
Dall’alto del ponte Malagianna, che in quei momenti si concedeva di essere didascalica, pensava tra sé e sé: “Caro dannato senza nome, questo amore per i tuoi colleghi dovevi dimostrarglielo in vita, convincendoli che lo scrivere storie inverosimili propinate a un pubblico di creduloni portasse alla dannazione. È inutile che io mi presenti a loro portandogli i tuoi ammonimenti. Se mi mostrassi, più che spaventati dalle tue parole, ne sarebbero ispirati per le loro opere e finirebbero per scrivere interi e-book sulle scimmiette di mare cornute!”
Passati lunghi momenti d’attesa, lo scrittore innominato riemerse dalla carta e spalancò la bocca e gli occhi come se gli mancasse l’aria. Le scimmiette cornute, che l’aspettavano al varco volando lentamente in cerchio, simili ad avvoltoi sulla carogna di cui vogliono cibarsi, lo colpirono senza pietà con armi da contrappasso: spade laser e sciabole forgiate dagli elfi. Così lo ricacciarono, insultandolo e deridendolo, sotto le pagine. Malagianna compiaciuta osservava dall’alto la scena.
In quel momento gli si avvicinò Barbaspina, anche lei una scimmietta cornuta, la quale disse disgustata: «Eccone un altro. Sembra che non ci sia mai fine a questo scempio. Poco male, per noi, il divertimento è assicurato».
Malagianna rispose: «La razza degli scrittori di horror, fantasy e fantascienza è inesauribile. Sembra che tutti abbiano qualche storia inverosimile da raccontare. Pare che lo facciano apposta: dovrebbero sapere che non si possono dire bugie e raccontare fandonie agli allocchi, ma per loro è come se niente fosse. D’altra parte, quei pochi sventurati che riescono ad avere successo guadagnano barcate di denaro. Purtroppo per loro, alla fine ci siamo noi! A noi non possono raccontare frottole», concluse con un ghigno, rivolta alla compagna.

* * *

Il dannato senza nome, che per comodità d'ora in poi chiameremo convenzionalmente Valerio ***, stava nuotando con fatica sotto il cumulo di carte. Sentiva sopra di sé il sibilo dei jet-pack e non si azzardava a riemergere: le bruciature delle spade laser e le ferite delle sciabole elfiche ancora gli dolevano.
Nonostante fosse immerso nella più cupa oscurità, riusciva a leggere le parole impresse sui fogli di carta. Sembrava che l'inchiostro con cui erano stampate fosse luminescente. In questo modo, riconobbe alcuni dei testi che aveva letto e che avevano ispirato la sua attività di scrittore. Ce n'erano poi molti vergati in lingue sconosciute, altri ancora mai visti né sentiti.
In ogni caso, ogni volta che gli capitava di scorrere qualche testo provava un grande rimorso, oltre a una grande noia per ritrovare riscritte più e più volte da autori diversi sempre le stesse storie, come se la maggior parte di quelle opere non fosse altro che una scopiazzatura di pochi testi originali. Perché non si era messo a scrivere storie vere ed edificanti che potessero contribuire al progresso dell'umanità? No, la sua inclinazione malvagia lo aveva spinto a scrivere ciò che gli dettava la fantasia, ed erano vicende malsane di orchi e di maghi, di elfi e mezz'uomini.
Nel suo peregrinare sommerso, incontrava talvolta altri dannati. I più si allontanavano dal lui, come se volessero fuggire la notorietà che un tempo avevano fortemente voluto. Ma quelli che si trovavano lì da più tempo, non erano per niente agili a eseguire manovre evasive e lui riusciva a raggiungerli. Infatti, dopo giorni di caccia sub-cartacea, era riuscito ad agguantare la caviglia di un'anima che gli era incautamente passata accanto.
«Vi prego», piagnucolò quel dannato. «Lassatemi».
«Italiano anche tu? Finalmente un po' di fortuna!» disse Valerio a cui non pareva vero d’aver trovato un’anima con cui parlare. «Non ci penso neppure a lasciarti: qualcuno mi deve delle spiegazioni!»
«Italiano fui, d'origine fiorentina: quella patria che tanto soffrir mi fece», iniziò a dire il vecchio. Poi aggiunse sdegnato: «Ma di quali spieghe andate cianciando? Non vi basta esser già qui a soffrirne? Volete pur conoscerne i motivi?»
Valerio iniziò a essere influenzato dalla prosa lievemente arcaica del suo interlocutore e, visto che si rivolgeva a lui con un rispettosissimo voi, cominciò a dire: «O illustre fiorentino, io son qui da poco, e ancor non ho capito che genere di luogo questo sia e chi a scontar la pena ci sia rinchiuso».
«Ormai avrete capito chi son gli sventurati che con fatica in questa olente carta devon nuotare: son gli autori d'opere di fantasia. Essi pensaron che'l mondo non bastasse all'omo, ma ch'altri universi ei legger dovesse. Ahi, qual sommo abbaglio, qual nociva idea fu 'l sostituirsi al Creatore. Ora noi siam tutti qui, pel nostro ardire a un'etterna pena condannati».
«Beh, la pena io sopporto, m'è sempre piaciuto legger d'horror, fantastico e giallo».
«Meschin illuso, io son qui da settecento e più anni ormai, e tutto questo librame m'è venuto a noia: ormai passolli tutti, uno per uno, e da tempo perduto ebbi il conto delle fiate che lessi ognun dei testi. Neppur i novi libri che qui giuso son gettati mi dan sollievo, son spacciate come storie nove, ma il conoscitor sa ch'ormai s'è scritto tutto, e non c'è novità che non sia letta».
«Tutto ciò è terribile! Ma tu dimmi, chi sei novellator d'italica favella?»
«Io Dante fui nomato, degli Alighieri di Firenze. Io m'inventai un viaggio per l'Ade, che ogni uom nelle terre d'Italia a legger è costretto quand'è ragazzo. Alla maledizion d'esser letto, s'aggiungono le invettive di color che sprezzano la mia novella. Così ogne die la mia pena quaggiù s'accresce ed io soffro e mia condizion peggiora».
«Tu s'è Dante? O mio vate! Quanto al liceo apprezzai 'l tuo scritto. D'essere divina si fregiò la tua opera!»
«Ma qual divina? Fu 'l demonio che l'ispirò! Cento canti di versi sublimi sul nulla fondai, se non sul greve disio di riveder Beatrice e porla tra gl'angeli, quando in terra di ben altra fama era nomata».
«Ma tu raccontasti di spiriti magni, dell'ingegno umano premiato nell'altra vita. E invece qui a soffrir ci ritroviamo. Io son Valerio *** e l'opere mie avrai di certo letto, in questo mare magnum».
«Sarebbe onor per me ‘l conoscerti, se non fosse a disonor ciò che lassù ci fece onorati. Lessi un tuo romanzo un dì, ma gettollo dopo pochi righi: illegibile il trovai e indigesto mi fu il libro e chi lo scrisse».
«Triste mi fai, sommo poeta, sed de gustibis non est disputandum. Ma piuttosto dimmi, vate della divina, altri autori noti v'è nei paraggi? Curioso son di conoscer elli».
«Poco lontano c'è Mary Shelley, che di Frankenstein narrò la vicenda; un po' più in là Arthur C. Clarke, l'autor che l'oscuro monolito immaginò; poi Bram Stoker esangue, ch'el conte Dracul azzanna notte e dì. Ma se cognosco gusti tuoi, ho un dono che oro per te vale: all'indirizzo di Tolkien inviarti posso, se di lasciarmi in pace prometti. Presto, però, che non è sano restar lungo tempo in identico luogo: i primati cornuti sempre pronti son ad azzanar chi troppo a legger s'attarda. E stai attento a sortir in suso per rifiatare, spesse volte quei demoni s'appostano e della sortita pentir ti fanno».
«Grazie, mio vate! Piacer m'ha fatto il trovarvi, quanto spiacevol è il luogo dove l'incontro avvenne».
Dopo aver ottenuto altre indicazioni, Valerio liberò Dante. I due si lasciarono, nuotando tra fogli di carta, libri e opuscoli. In quel fiume sarebbe di certo occorsa un'intera vita per ritrovarsi, ma loro avevano a disposizione l'eternità.

* * *

Malagianna ammirava dal ponte l'aria cupa dell'Inferno.
Barbaspina le si avvicinò e disse sconsolata: «Devo andare da Caronte a recuperare un altro scrittore».
«Non sei contenta? Star qui è una noia».
«Vorresti andare tu?»
«E me lo chiedi? Certo!»
«Allora vai, capo, ti cedo il posto. È arrivato un certo Danilo e non so più che altro. M'han detto che è facile riconoscerlo: è calvo, ha uno sguardo intenso e il mento volitivo.
Malagianna non se lo fece ripetere e volò subito verso le rive d’Acheronte. Non vedeva l’ora d’arpionare un altro dannato.
Barbaspina rimase sola sul ponte. Si guardò intorno con circospezione, poi accese il jet-pack e decollò in direzione di un anfratto appartato, verso il ponte diroccato, lungo la riva del fiume di carta. Si appoggiò al bordo e attese con pazienza.
Dopo pochi minuti emerse il volto d'un uomo. Aveva gli occhi leggermente incrociati e l'aspetto era inquietante di per sé, anche senza sapere che aveva scritto gli horror più spaventosi nella storia della narrativa fantastica.
I due si scambiarono un saluto in inglese.
«Ben trovata, Barbaspina. Come hai trascorso la giornata?»
«La solita noia, Stephen».
«Cerchiamo di rimediare allora! Dov'eravamo rimasti?»
La scimmietta riassunse il cliffhanger del giorno prima, dopodiché il dannato cominciò a raccontare da quel punto. Ne approfittava per rifiatare. Ne aveva bisogno dopo essere stato ammorbato per tutto il giorno dall'odore dei libri, dai miasmi dell'inchiostro e dalla pessima prosa di autori dozzinali.
Barbaspina adorava le storie di Stephen, e lo scrittore amava raccontarle. Quell'anfratto era il loro angolo di Paradiso, ritagliato nel più buio spicchio dell'Inferno. La scimmietta avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per farsi raccontare un episodio dopo l'altro, ma ogni volta che aveva un attimo di tempo non resisteva, doveva sapere sempre cosa succedeva dopo e, nonostante si dicesse che tutto era già stato scritto, ogni storia che Stephen iniziava era diversa dalle altre: non sarebbe bastata l'eternità per farsele raccontare tutte.
Nel frattempo, poco lontano, altre scimmiette volavano sulla superficie dei fogli di carta. Seguivano le tracce degli scrittori che, come talpe, si spostavano da una sponda all'altra del fiume, alla vana ricerca di storie originali.
Non appena una di quelle talpe tentava di metter fuori il capo, quelle aguzzine menavano botte da orbi: era davvero un peccato per quegli sventurati che solo poche scimmiette si lasciassero avvincere da vicende fantastiche ben raccontate.

F I N E

La lancia di Longino

La lancia di Longino

lancia-longino-destino
Un saggio su "La Tela Nera"

L'isola dell'impiccato

Horror, 36900 caratteri, versione 2.1


L’ISOLA DELL’IMPICCATO
di
Leonardo Boselli


Il capitano Eastman camminava a passi lenti sul ponte del "Saint Andrew", un tre alberi della marina da guerra inglese. Osservava le attività dell’equipaggio fissando assorto l’esecuzione dei lavori, ma senza riuscire a concentrarsi. Intabarrato nella sua divisa, col tricorno calcato sul capo e la sciabola al fianco sinistro, si spostava con agilità tra i marinai affaccendati, nonostante la gamba di legno, e il suo passo, che riecheggiava sulla tolda, ricordava il battito di un cuore, come se quei colpi cadenzati dessero vita all'intero veliero.
Dopo aver percorso la nave da prua a poppa, salì la scaletta che portava sul castello e si mise a guardare, appoggiato al parapetto, l'isola poco distante, sui cui bassi fondali la nave era ormeggiata. Il sole già alto risplendeva sull'oceano e illuminava la costa. Poche nubi sottili si profilavano a settentrione: anch'esse sembravano attendere quel soffio di vento che le avrebbe spostate verso lidi meno afosi.
Eastman aveva già navigato in quelle acque quand'era un allievo ufficiale sedicenne. Ora, dopo quasi un quarto di secolo, osservava con attenzione il profilo dell'isola e si stupiva di ricordare ancora ogni particolare: la spiaggia, gli alberi che la delimitavano e, sopra di essi, la ripida cima vulcanica. Non era cambiato nulla, come se il tempo non fosse trascorso. E non era passato neppure il senso d'angoscia che quelle rive ancora gli trasmettevano: la reminiscenza di un'antica colpa gli tormentava l'anima, come in certe notti lo perseguitava un fastidioso prurito alla gamba destra che non riusciva a placare, perché quella gamba ormai non l'aveva più.
John Hill, il nostromo, gli si accostò. Come molti membri dell'equipaggio era preoccupato e, al contrario degli altri, non tentava di nasconderlo.
«Capitano, cosa pensa di fare?»
Ormeggiati da due giorni a un ottavo di miglio dalla costa, avrebbero potuto essere avvistati dalle navi spagnole che davano loro la caccia. La guerra di corsa aveva quella caratteristica: preda e cacciatore si scambiavano spesso i ruoli, e in quel frangente il "Saint Andrew" era la preda.
Eastman si sentiva al sicuro a causa della fama di "mangiatrice di navi" che l'isola s'era conquistata a suon di naufragi negli ultimi anni. I capitani dei galeoni spagnoli si sarebbero tenuti alla larga da quelle secche pericolose, a meno che non fossero stati obbligati dagli eventi. Infatti non si poteva prevedere il comportamento d'un equipaggio in mare da mesi: il desiderio di catturare una ricca preda poteva avere il sopravvento sulla prudenza.
Lo scafo spezzato di una nave francese era ancora ben visibile, come monito, sulle secche al largo dell'isola. Si aveva notizia di altre imbarcazioni naufragate in quel luogo, ma di esse non restava più alcuna traccia, ormai inghiottite da quei fondali insidiosi.
Il capitano, dopo aver riflettuto a lungo, rispose: «Pazienza. Ci vuole pazienza. La spedizione non può tardare: stanno per tornare, ne sono certo».
Attendevano da tempo, tuttavia il dottor Jackson e il secondo ufficiale Kirkland, con i due marinai che li accompagnavano, sembravano spariti nel nulla.

* * *
Il giorno prima, il medico di bordo aveva deciso che era giunto il momento di sgranchirsi le gambe e dare sfogo alla sua passione. Era un entomologo dilettante e si divertiva a raccogliere ogni genere d'insetti tutte le volte che aveva occasione di scendere a terra su qualche costa poco esplorata.
Quando giunsero in prossimità dell'isola, il dottor Jackson cominciò a pregustare il piacere d'infilzare centinaia d'invertebrati d'ogni specie sulle sue bacheche. A lui non interessavano le superstizioni dei marinai: mormoravano di una misteriosa maledizione che aveva reso quella piccola isola un luogo insidioso per la navigazione.
Il veliero aveva appena gettato l'ancora e il medico già scalpitava. Quindi il capitano Eastman concesse a una parte dell'equipaggio di sbarcare, poiché la nave, per poter ripartire, avrebbe dovuto attendere l'alta marea e un rinforzo di vento. Il dottore ne avrebbe approfittato per le sue ricerche, accompagnato del secondo ufficiale e da un paio di marinai, mentre altre squadre avrebbero provveduto a raccogliere frutta fresca e a fare rifornimento d'acqua dolce.
Erano le dieci del mattino quando le scialuppe si staccarono dal veliero per dirigersi verso l'isola. Avrebbero dovuto far ritorno un'ora prima del tramonto. Tutte lo fecero tranne una: la barca del medico di bordo.
* * *
«Dottore, cosa sono tutti quegli strumenti che si sta portando appresso?»
Bob, un marinaio esperto già alla sua quarta crociera intorno al mondo, osservava incuriosito l'armamentario del medico con l'unico occhio che gli restava, mentre remava con foga.
«Mi servono per raccogliere gli esemplari», disse il dottor Jackson. «A questo proposito, mi dovrete dare una mano».
Jeff, l'altro marinaio, che cercava di seguire il ritmo di voga del compagno, ma era impacciato dall'uncino che portava al braccio sinistro, chiese sospettoso: «Una mano... per cosa?»
«Per catturare gli esemplari!»
Il secondo ufficiale Kirkland, che completava il pittoresco quartetto di quella spedizione, spiegò ironico: «Mentre le altre scialuppe riforniranno la nave d'acqua, noi dobbiamo fare incetta d'insetti».
Kirkland si divertiva a canzonare il dottore per le sue manie e Jackson da parte sua ricambiava volentieri le battute di spirito e i suoi frequenti sfottò. I due avevano navigato assieme per molto tempo, ma non avevano mai fatto amicizia a causa dei loro caratteri così differenti. Infatti il medico aveva un aspetto trasandato e non badava mai alla forma, mentre l'ufficiale aveva estrema cura del proprio aspetto, come dimostrava la sua uniforme, impeccabile anche sotto il sole dei tropici.
«Signor Kirkland», replicò il dottore, «su quest'isola l'uomo mette piede raramente. Su di essa potrebbero vivere specie ignorate dal mondo civilizzato. Chissà quali scoperte ci riserverà questa giornata!»
Bob si intromise e chiese, tra un colpo di remo e l'altro: «Esemplari? Specie? Ma di cosa?»
«Insetti!», ripeté Kirkland. «Il dottore è un collezionista d'insetti». Alla vista dello sguardo dubbioso del marinaio, che si intravedeva anche sotto la benda che gli copriva l'occhio destro, aggiunse: «Insetti! Come formiche, zanzare, mosche, tafani, ragni...»
«Mi spiace contraddirla, signor Kirkland», puntualizzò il dottor Jackson, «ma i ragni non sono insetti».
«No? E cosa sono?»
«Aracnidi!»
Nel frattempo la scialuppa era giunta in prossimità della riva. Il secondo ufficiale, sorpreso dalla rivelazione del dottore, non replicò e ordinò ai marinai di ritirare i remi, di scendere in acqua e di trascinare la barca in secca. Dopo che furono saltati, li seguì a sua volta.
Il gruppo si trovò su una lunga spiaggia sabbiosa di fronte alla giungla. Le prime piante erano alte palme da cocco, poi le specie vegetali si sovrapponevano in un groviglio inestricabile. Alle loro spalle, il veliero alla fonda attendeva l'alta marea e l'agognato rinforzo di vento. Poco più lontano gli equipaggi delle altre scialuppe stavano sbarcando, pronti a ormeggiare le loro imbarcazioni.
* * *
Il capitano Eastman si svegliò nel cuore della notte dopo un terribile incubo. La sua cuccetta era ridotta a un lago di sudore.
Il mattino seguente avrebbe dovuto formare una squadra di soccorso per mandarla alla ricerca dei dispersi. Operazione che l'oscurità aveva reso impossibile la sera prima.
L'incubo gli aveva lasciato un senso d'angoscia e oppressione. Prese un taccuino per fissare il sogno sulla carta ed evitare di scordarlo.
"Dunque", pensò, "com'era iniziato? Ha cominciato in un modo e poi è andato a parare in tutt'altra direzione... Ah, sì!"
Scrisse quasi di getto per un paio di minuti, poi rilesse.
"Mi trovavo sul ponte del mio primo imbarco. Accanto a me c'era il vecchio capitano Abrams, più irrequieto del solito. Guardavamo la spiaggia dell'isola. Io notai un'unica scialuppa in secca e chiesi chi mancasse ancora all'appello. Il capitano mi rispose brusco che il giovane ufficiale Eastman non era ancora tornato e che l'avrebbe messo ai ferri, dopo averlo frustato, non appena fosse ricomparso
Allora tornai a osservare la spiaggia e vidi un gruppo di uomini che correvano. Davanti a loro c'era un giovane che procedeva zoppicando: ero io a sedici anni. Cercavo disperatamente di raggiungere la scialuppa assieme agli altri, perché qualcosa ci stava inseguendo. Non capivo cosa fosse, ma era orribile ed enorme. Ogni uomo che veniva raggiunto spariva inghiottito, e la cosa aumentava a dismisura le sue dimensioni. Alla fine raggiunse anche il me stesso che correva, a pochi passi dalla scialuppa.
Quindi mi voltai verso il vecchio capitano, ma era scomparso. Mi accorsi di non trovarmi più sulla nave, bensì sull'isola, proprio in cima. Potevo dominare dall'alto la foresta e osservare il mare tutt'intorno, a perdita d'occhio. Vidi anche un vascello che si allontanava e che era ormai giunto all'orizzonte. Pensai che non avrebbero dovuto lasciarmi lì.
In quel momento sentii qualcosa alle mie spalle, mi voltai e mi trovai ai piedi di una forca in una radura nel cuore della giungla. A quella forca era appeso un corpo. Era di spalle e dondolava. A ogni oscillazione si girava un poco. A un tratto lo riconobbi: era Abrams. Il vecchio capitano aprì gli occhi, deformò la bocca in un ghigno, come se volesse parlare, ma non fece in tempo: in quel momento mi sono svegliato".
Quell'incubo aveva rimescolato nella mente di Eastman ricordi e premonizioni. Aveva tentato di annotare più particolari possibili ed era solito parlare dei suoi sogni col medico di bordo il mattino dopo, perché entrambi ritenevano che l'attività onirica nascondesse significati importanti. Si ricordò, però, che quel giorno non avrebbe incontrato il dottor Jackson nel quadrato ufficiali. Invece, avrebbe dovuto andare alla sua ricerca su quell'isola maledetta.
* * *
«Questa foresta è particolarmente intricata, signor Kirkland».
I quattro uomini stavano avanzando nel sottobosco a furia di colpi di machete.
«Non lo dica a me. Io amo gli spazi aperti, l'oceano, e queste piante così fitte mi tolgono il respiro».
Bob e Jeff, i due marinai, stavano aprendo un passaggio tra le liane e i rami bassi degli alberi. Tacevano perché erano davvero senza fiato per la fatica, e non in senso metaforico.
L'ufficiale si diede una sonora manata sul collo. S'era accorto d'un grosso tafano che gli stava succhiando il sangue.
«Non abbiamo già incontrato abbastanza insetti, dottore?»
«Tutte queste specie sono molto comuni. Quelle interessanti devono essere all'interno».
Procedettero lentamente per alcune centinaia di metri nella semioscurità della giungla, finché giunsero in un'ampia radura. Il cielo si aprì sopra di loro, azzurro come non mai, e il sole illuminò uno spiazzo circondato dagli alberi della foresta.
«È strano che questo prato non sia stato invaso dagli alberi», disse l'ufficiale.
Dal terreno spuntavano fiori d'ogni colore, visitati da minuscole forme di vita che raccoglievano il nettare e operavano inconsapevoli l'impollinazione. C'erano fiori rossi dai petali carnosi, piante a foglia larga con corolle viola, orchidee multicolori, e vistose piante dai grossi petali gialli e fusti spinosi molto robusti.
«Questo è il luogo ideale per la raccolta», constatò il dottore.
Sistemò il suo leggero tavolino da campo con annesso un treppiede per sedersi presso un albero secco al centro della radura, l'unico che spuntasse in quell'area.
Kirkland fu incuriosito dalla strana forma di quella pianta disseccata. «Sembra quasi una forca», disse.
«Che fantasia, signor Kirkland», lo rintuzzò il medico. «È solo un albero morto da decenni. L'acidità di questo terreno non dev'essere favorevole alle piante d'alto fusto».
Dopo aver sciorinato le sue conoscenze botaniche, Jackson consegnò due retine ai marinai.
«Ecco, raccogliete quanti più insetti potete. Se alcuni di essi dovessero sembrare ai vostri occhi particolarmente stravaganti, portatemeli subito».
Bob e Jeff, che speravano di riposarsi dopo la faticosa traversata, si ritrovarono invece in mezzo al campo con le retine in mano. Cominciarono a muoversi un po' goffamente da un fiore all'altro agitando il loro attrezzo senza molto successo, ma già dopo una mezz'oretta avevano preso confidenza e, con leggiadria, riuscirono a catturare numerosi coleotteri dalle sgargianti livree.
Il lavoro di cattura riusciva piuttosto bene a Jeff, aiutato dalla precisione con cui riusciva a manovrare il suo uncino. Si stava appassionando e si stupiva nel vedere quanti diversi tipi di esseri microscopici esistessero in quel fazzoletto di terra. In navigazione si accorgeva solo dei topi e dei fastidiosi mosconi dal dorso verde cangiante che infestavano la stiva, ma adesso stava scoprendo un intero universo in una piccola radura.
Bob invece era decisamente penalizzato. Il suo essere guercio gli impediva una corretta valutazione delle distanze e i tentativi di cattura si riducevano spesso a fendenti infruttuosi.
Il secondo ufficiale osservava divertito le evoluzioni dei marinai. «Chi l'avrebbe mai detto... degli uomini così grandi e grossi, eppure...»
«Lei sottovaluta le persone, signor Kirkland. Quando un'occupazione è interessante e meritoria come questa, gli uomini dimostrano di possedere notevoli qualità. Ma ora mi dia una mano: devo inscatolare tutti questi insetti. Molti coleotteri non li avevo mai visti; neppure sui volumi del Buffon ce ne sono di così belli».
Kirkland si sedette sul secondo treppiede a prese a rovistare nei contenitori che i marinai continuavano ad approvvigionare. Superò un primo moto di ribrezzo nel vedere un enorme millepiedi che si contorceva senza posa sul tavolino e lo stipò in una delle scatolette che il dottore gli aveva fornito. Non era un'occupazione degna di lui, pensava, ma quel pomeriggio doveva pur trascorrerlo in qualche modo.
«Molto bene, signor Kirkland. Anche lei dimostra di essere portato per l'entomologia», disse Jackson con un sorriso ironico.
«Se apre ancora bocca, dottore, la lascio qui da solo coi suoi leggiadri aiutanti a inscatolare mostriciattoli».
* * *
Il capitano Eastman, con la gamba di legno puntata sulla prua della scialuppa, regolava il ritmo di voga. La riva ormai distava poche decine di metri.
Aveva lasciato il veliero al comando del terzo ufficiale, perché voleva guidare personalmente le operazioni di ricerca. Era stato su quell'isola un quarto di secolo prima e non ci teneva a calpestarne di nuovo la sabbia, soprattutto dopo l'incubo che aveva reso vividi alcuni brutti ricordi ormai sopiti, tuttavia il suo secondo ufficiale e il dottore di bordo erano laggiù, da qualche parte. Doveva ritrovarli: gli servivano per continuare la navigazione; non si sfugge a una flotta di veloci navi da guerra senza l'equipaggio al completo e in piena efficienza.
Sbarcata sulla riva, la squadra di soccorso, composta da una decina di uomini con alla testa il capitano e Hill, il nostromo, iniziò ad addentrarsi nella giungla.
Le tracce dei dispersi erano evidenti. Non fu difficile procedere nell'intrico di tronchi e liane attraverso il varco aperto dai machete. In breve tempo giunsero alla radura dov'era iniziata la raccolta degli insetti.
Eastman riconobbe immediatamente il tronco contorto al centro del prato e la gamba di legno riprese a dolergli. Dopo tanti anni, era rimasto solo uno scheletro legnoso, ma con gli occhi della mente rivide l'intera forca e l'impiccato col volto contratto dagli ultimi spasmi. Scacciò quell'immagine e diede ordine agli uomini di perlustrare la zona.
Il gruppo esplorò il perimetro di quel campo, così insolitamente sgombro dalle piante d'alto fusto, ma non furono trovate altre tracce lungo il limitare degli alberi. C'era solo un'area, al centro della radura, nei pressi della forca, dove la terra era smossa, un tavolino era rovesciato e una grande quantità di contenitori era stata sparsa tutt'intorno.
John Hill, come suo solito, non manifestava molto ottimismo: «Capitano, siamo in un vicolo cieco. Qui è successo qualcosa di terribile».
Eastman stava meditando sul da farsi. Aveva attraversato la boscaglia e perlustrato la radura manovrando la sua gamba di legno con sorprendente agilità, ma nonostante i suoi sforzi non aveva concluso nulla. E i marinai mugugnavano, avevano paura che capitasse anche a loro la sorte misteriosa che era toccata ai quattro dispersi. Temevano di essere i prossimi a provare sulla loro pelle la potenza della maledizione che aleggiava sull'isola.
Il nostromo sconfortato si tolse il tricorno e si asciugò il sudore della fronte, quindi osservò con attenzione il tronco al centro del prato e si accorse di una scritta dove il fusto era stato scorticato: "Qui fu giustiziato il Capt. Jeremy Abrams. Che Dio abbia pietà della sua anima". In calce alla scritta seguiva la data.
«Capitano», disse ad alta voce John Hill, «abbiamo trovato la forca sulla quale è stato impiccato il capitano maledetto!»
* * *
Il lavoro di catalogazione e stoccaggio continuava alacremente. Da qualche tempo Bob e Jeff non riuscivano più a trovare specie d'insetti che non avessero già catturato. Sembrava che quell'impresa interminabile avesse in realtà una fine.
Kirkland si terse il sudore con un fazzoletto, che ripose in una tasca della giubba, e osservò il sole scendere dietro le cime degli alberi più alti. Il tramonto non era imminente, ma la radura era circondata dalla giungla e le sue propaggini si trovavano già in ombra.
«Tra poco avremo un po' di refrigerio», disse il secondo ufficiale, che ormai aveva a noia la sua divisa elegante.
«Così pare», constatò il dottore indaffarato a inseguire con una pinzetta un grosso scarafaggio marrone.
Bob e Jeff si stavano riposando al riparo dei primi alberi, appoggiati alle aste delle retine, e si accorsero che uno strano fenomeno stava avendo luogo nella radura.
L'ombra degli alberi vicini avanzava sull'erba e, al suo passaggio, gli insetti fuggivano come se qualcosa li stesse terrorizzando. Allo stesso tempo, le piante dotate di fiori richiudevano i petali in robuste capsule e le foglie si accartocciavano su se stesse.
L'azione era quasi immediata: sopraggiungeva l'ombra e le forme di vita animale, che prima brulicavano, sparivano dalla vista e i vegetali si rattrappivano. Solo le piante dai robusti fusti spinosi e gli appariscenti fiori gialli continuavano a fare bella mostra di sé.
«Che succede, Jeff?»
«Non lo so», rispose Bob preoccupato.
Anche il dottore si accorse di quella calma mortale calata sulla radura. «È un evento molto strano», commentò.
«È come se quelle bestie fossero consapevoli di un pericolo imminente», disse Kirkland.
A un tratto le piante dai fusti spinosi che erano state raggiunte dall'ombra aprirono le capsule alla base dei loro fiori. Dopo pochi istanti spruzzarono in ogni direzione un liquido biancastro, e le piante della stessa specie, raggiunte dagli schizzi, fecero altrettanto.
Sembrava di assistere a una sequenza di scoppi a raffica, una combinazione di fuochi artificiali.
I piccoli animali che incautamente si erano attardati sul prato, bagnati dal liquido, si contorcevano e i loro carapaci si corrodevano. Lo stesso capitò al primo sottobosco e ai teneri germogli che, timidamente, erano spuntati in giornata nella radura: si bruciarono all'istante. Tutte le superfici ustionate si disfacevano e rilasciavano fumi. Invece i vegetali che avevano reagito con prontezza all'arrivo dell'ombra, e posto le parti più delicate al riparo di scorze coriacee, sembravano immuni all'azione di quell'acido.
In un attimo anche le piante spinose che circondavano i quattro "naturalisti" reagirono ed essi furono investiti dagli spruzzi: i vestiti e la pelle iniziarono immediatamente a corrodersi. Tentarono di ripararsi, ma gli schizzi provenivano da ogni parte. Si misero a correre, ma presto caddero contorcendosi per il dolore. Era vano ogni tentativo di ripulirsi. In poco tempo la loro agonia terminò e anche le loro urla cessarono.
Quando quello strano fenomeno si concluse, tornò il silenzio nella radura. I fiori delle piante dal fusto spinoso rilasciarono lentamente una nuvola di spore che, sostenute dall'aria, si sparsero tutt'intorno e si depositarono anche sui corpi dei quattro malcapitati. In poco tempo diventarono un tutt'uno con la carne corrosa.
Nel frattempo, ombre misteriose si muovevano nell'oscurità della giungla. Avevano osservato la squadra al lavoro e atteso con pazienza che il sole calasse dietro le cime degli alberi. Ora che tutto era finito, stavano per uscire all'aperto.
* * *
Dopo la scoperta della forca del capitano Abrams, la paura si diffuse tra i marinai. John Hill era il più convinto: dovevano abbandonare al più presto l'isola, perché dei dispersi non c'era alcuna traccia e, qualunque fine gli fosse toccata, non si poteva fare più nulla per loro.
Eastman cercò di stemperare la tensione. «Cosa temete, uomini? Il capitano Abrams è morto da più di vent'anni. L'ho visto con i miei occhi pendere da questo albero. Lo abbiamo lasciato qui, in pasto agli uccelli rapaci, perché del suo corpo non restasse nulla, se non poche ossa spolpate».
Il nostromo fu stupito da quella affermazione. «Lei era presente quando Jeremy Abrams fu impiccato?». Non sapeva di quel trascorso del suo capitano e la rivelazione l'inquietò non poco.
«Sì, io c'ero!»
«Lei quindi è uno degli ammutinati del "Santa Caterina"?»
Eastman, con un po' di titubanza, annuì. Non era mai una buona idea far sapere al proprio equipaggio che in gioventù un capitano poteva aver fatto cose deprecabili, ma ora il nostromo l'aveva messo alle strette.
I marinai si radunarono attorno a Eastman per ascoltare meglio e Hill, invece di scandalizzarsi, si fece ancora più attento. Iniziò ad accavallare domanda su domanda, finché il capitano non decise di raccontare tutto ciò che era successo sull'isola tanti anni prima: la vera storia, non i resoconti romanzati che i marinai ubriachi si tramandavano nelle bettole dei porti.
Allora Jeremy Abrams era già un vecchio capitano. Era noto per la sua crudeltà nei confronti degli equipaggi. Li comandava con pugno di ferro e le punizioni corporali erano all'ordine del giorno. Con l'età era peggiorato sempre più. Quando impazzì completamente, Eastman era un allievo ufficiale sedicenne ai suoi comandi.
Il capitano continuò il suo racconto. «È così. Lo abbiamo impiccato proprio a questo albero morto», e ne indicò i pochi rami rimasti, scorticati dalle intemperie. «Volevamo che tutti i velieri di passaggio vedessero i resti di Jeremy Abrams pendere dalla forca, a futura memoria. Per questo s'era deciso d'impiccarlo sulla cima più alta dell'isola. Era nostra intenzione vendicare tutti i marinai che aveva fatto fustigare, tutti i giri di chiglia che avevano subito, tutti gli uomini morti per la sua follia. Nessuno avrebbe più avuto il coraggio di governare un equipaggio a quel modo».
«Com'è possibile che si fosse giunti a tanto?»
«Fu colpa degli ufficiali in seconda. Erano legati ad Abrams da decenni di navigazione: alcuni si erano assuefatti alla sua follia, mentre altri ne erano stati contagiati. Durante l'ammutinamento furono uccisi uno dopo l'altro, finché il vecchio capitano non rimase solo. Fatto prigioniero, lo conducemmo sull'isola, ma non fu possibile portarlo sulla vetta per giustiziarlo. Nonostante l'età era ancora molto agile. Si liberò e, grazie alla sua esperienza nel combattimento, s'impossessò della mia sciabola. Persi la gamba per la cancrena causata dalla ferita che m'inferse. Ma la reazione di Abrams ebbe vita breve: presto fu sopraffatto e giustiziato».
Gli uomini, che stavano fissando la cima dell'albero, guardarono l'arto di legno del capitano.
«Io ero il più giovane degli ufficiali. Non ero ancora caduto sotto l'influenza diabolica di Abrams e non fu difficile per gli ammutinati convincermi della necessità di fare qualcosa. Ero un ragazzo, ma il mio sostegno permise al resto dell'equipaggio di trovare il coraggio di ribellarsi».
I marinai tacevano e Hill si era messo a riflettere. L'impiccagione del capitano di una nave era un evento più unico che raro, ed era noto il processo che aveva portato alla condanna dei capi degli ammutinati, una volta tornati in patria e catturati.
Eastman concluse il racconto spiegando che era sfuggito alla cattura cambiando nome e imbarcandosi come mozzo. Da allora aveva risalito la gerarchia e si era distinto per capacità e coraggio fino a diventare capitano.
Nessuno poteva immaginare quale tremenda maledizione avesse potuto formulare Jeremy Abrams prima della sua esecuzione, perciò Hill propose di abbandonare la spedizione di soccorso. C'erano troppi misteri su quell'isola, ed era certo che, uno o l'altro, sarebbero stati fatali per loro.
Mentre discutevano, un marinaio notò per terra una piccola scatola ancora chiusa; la raccolse, l'aprì e scoprì un orribile millepiedi. A quella vista lanciò un urlo. L'invertebrato traboccò dal contenitore, cadde e fuggì sparendo tra la sterpaglia. Gli uomini che erano intorno, nonostante la tensione, risero alla vista di quella scena.
Il nostromo ripeté: «Andiamocene, capitano. Il dottor Jackson e il secondo ufficiale sono stati inghiottiti dalla giungla. Non c'è più nulla da fare per loro. A quest'ora, se fossero ancora vivi, li avremmo trovati».
«Ma non possono essersi volatilizzati».
«Neanche il corpo del vecchio capitano può essere scomparso, tuttavia alle radici della sua forca non abbiamo rinvenuto neppure un dente».
Nel frattempo, nella semioscurità della giungla, si stavano muovendo delle ombre inquietanti. Il primo ad accorgersene fu Tom Williams, un giovane mozzo. «Ci sono degli uomini tra gli alberi!», urlò.
Subito il gruppo si mise sulla difensiva. Alcuni marinai sguainarono le spade, altri spianarono i loro fucili, mentre il capitano estrasse la sua pistola e ne alzò il cane dopo averla puntata alla cieca.
Tra i tronchi, quasi più numerosi degli alberi stessi, c'erano figure d'uomo ancora al riparo dell'oscurità. Erano così tanti che, se fossero stati ostili, avrebbero potuto sopraffare senza difficoltà lo sparuto manipolo dei soccorritori.
* * *
Il medico Jackson e i suoi tre compagni giacevano a terra. Il silenzio era calato sulla radura e le ombre della sera si erano ormai allungate.
I quattro corpi senza vita erano immobili, mentre sulla superficie corrosa della loro pelle le spore che si erano depositate sembravano fermentare.
A un tratto, il braccio destro di Kirkland ebbe un fremito che si trasferì subito al resto del corpo. Dopo un istante il busto si sollevò e l'uomo si mise seduto. Il suo sguardo fissava il vuoto.
Subito dopo, quello stesso fremito che aveva apparentemente risvegliato l'ufficiale percorse anche i suoi tre compagni.
Prima si alzò il dottor Jackson e poi anche i due marinai. I loro movimenti erano goffi, i loro sguardi senza vita.
Non appena avevano cominciato a muoversi, altre figure umane, o almeno ciò che ne restava, cominciarono a entrare nella radura provenendo dalla giungla. Erano rimaste nascoste tra le frasche del sottobosco a osservare. Ora si avvicinavano ai quattro in silenzio, camminando lentamente e senza lasciare alcuna traccia, come se fossero un tutt'uno con la vegetazione. Quei corpi si muovevano spinti da una volontà che gli era estranea: lo testimoniava uno sguardo privo di consapevolezza.
La cosa che li rendeva disgustosi alla vista in modo particolare erano le orribili escrescenze che li ricoprivano. Sembrava che funghi e piccoli germogli fossero cresciuti sulla loro pelle corrosa. Da alcuni spuntavano addirittura corti rami carichi di fiori gialli simili a quelli dei fusti spinosi che avevano spruzzato la linfa acida e poi le spore.
Tra quegli uomini, sotto lo strato vegetale che li rivestiva come una seconda pelle, si potevano riconoscere marinai d'ogni razza e colore: europei, neri, asiatici. E le divise di cui c'era ancora qualche traccia erano di varie nazionalità: spagnole, inglesi, francesi.
Il quartetto che si era appena rialzato si aggregò al gruppo e si perse tra i ranghi di quel minuto esercito d'uomini senza vita.
Quando la radura fu piena, il sole tramontò e un uomo imponente, che portava con sé le protuberanze vegetali più vistose, attraversò quella folla di dannati e si collocò al centro sotto l'albero dell'impiccato. Tutti si volsero verso di lui e attesero immobili come se dovesse arringarli, ma su quel silenzio calò la notte.
* * *
Il capitano Eastman aveva ordinato ai suoi marinai di formare un quadrato al centro della radura. Quella sparuta dozzina era terrorizzata. Ognuno di loro imbracciava un fucile caricato a palla. Avevano alzato il cane e puntavano le ombre nella boscaglia. Dopo aver sparato avrebbero tentato di ricaricare, ma se la corsa degli assalitori fosse stata troppo veloce, avrebbero dovuto mettere mano alle sciabole.
Le figure nell'ombra si muovevano lente. In apparenza non avevano alcuna fretta. I minuti passavano inesorabili e ormai era trascorso molto tempo da quando i misteriosi abitanti dell'isola erano stati scorti.
Eastman fece un tentativo. Dopo aver mosso un passo avanti fuori dal quadrato di dodici uomini chiese a gran voce: «Chi siete? Cosa volete? Veniamo in pace!»
Quella domanda non sortì alcun effetto. Le figure nell'ombra non mostrarono d'aver inteso.
Avanzò il nostromo, che conosceva i dialetti del Pacifico parlati negli arcipelaghi a centinaia di miglia di distanza, e formulò la stessa domanda in quelle lingue primitive, ma a sua volta non ottenne risposta.
I due rientrarono nei ranghi e confabularono sul da farsi. Intanto il sole era già alto sulla radura e cominciò a fare davvero caldo.
«Chi ha il coraggio di avvicinarsi?» chiese il capitano.
«Vado io», disse Tom Williams, il mozzo, e si avviò verso il limite degli alberi.
Mentre camminava, si notò un movimento tra le piante, come se molte ombre confluissero verso il punto a cui Tom era diretto. Quando, con circospezione, giunse al limitare, si udì un suono gutturale provenire dall'interno della giungla e, in risposta, tutt'intorno riecheggiò un gemito che sembrava uscire dalla profondità di mille gole.
Tom si fermò spaventato, e alcuni degli uomini nascosti vennero allo scoperto dimostrando un'insospettata abilità nella corsa.
Quando le figure furono illuminate dalla luce del sole, i dodici assediati poterono rendersi conto di cosa avessero di fronte. Quegli uomini, se così si potevano chiamare, presentavano mostruose escrescenze su tutto il corpo; funghi e rami spinosi facevano un tutt'uno con le loro membra, ma quelle protuberanze non ne impacciavano i movimenti. La pelle poi appariva spaccata e ruvida come la scorza d'un albero, sotto ai cenci da cui erano coperti.
A quella vista il mozzo lanciò un urlo e rimase paralizzato dal terrore. Con pochi balzi quegli uomini deformi gli furono addosso e lo trascinarono scalciante nella giungla dove poco dopo le grida cessarono.
I marinai spaventati si chiedevano cosa fossero quei mostri e da dove venissero.
Il nostromo, che aveva l'abitudine di immaginare sempre il peggio possibile, era rimasto stupito di quanto al peggio non ci fosse limite. Conservando il suo sangue freddo, disse: «Non possiamo lasciare Tom nelle mani di quegli esseri. Ci sono chiaramente ostili. Prendiamoli di sorpresa: tentiamo di spezzare l'accerchiamento».
Quando in lontananza si udì il mozzo lanciare ancora una volta un grido disumano, Eastman si convinse e ordinò: «Forza, uomini! Tentiamo il tutto per tutto. Assalteremo il punto dove Tom è stato catturato. Spareremo una scarica in quella direzione per aprirci un varco e metteremo mano alle sciabole per farci largo. Se ci disperderemo, l'appuntamento è alla spiaggia d'ormeggio».
Dopo l'ultimo urlo lanciato dal mozzo, nella giungla era tornata la quiete e le ombre si erano calmate.
I marinai, raccolto il coraggio residuo di cui disponevano, verificarono l'efficienza delle loro armi e si prepararono all'assalto.
Al segnale del capitano si lanciarono urlando e correndo come un sol uomo attraverso le piante dai fusti spinosi. Esse si spezzavano calpestate dagli stivali e si strappavano, impigliate nelle giubbe e nei pantaloni da lavoro. A ogni fusto lacerato si udivano gemiti nella foresta e l'agitazione delle ombre cresceva.
Quando il gruppo giunse a pochi passi dai primi alberi, alcuni uomini dalle escrescenze mostruose cercarono di fronteggiarli, ma furono falciati da una scarica ravvicinata di colpi di fucile e pistola. I marinai quindi si liberarono delle armi da fuoco, e sguainarono le sciabole continuando la corsa.
Si addentrarono nella giungla tirando fendenti a destra e a manca. Ogni volta che uno dei mostri veniva colpito, volavano schegge di corteccia e le protuberanze spinose venivano amputate. Ma la situazione era disperata: ogni nemico che soccombeva veniva sostituito da altri esseri come lui. Molti marinai furono messi fuori combattimento. Catturati, sparivano nell'oscurità della giungla.
Alla fine il capitano Eastman, soverchiato dalle forze nemiche, desistette e, assieme al nostromo e all'ultimo marinaio rimasto al suo fianco, si ritirò nella radura. Quando giunsero al centro, con le divise lacere e feriti dalle spine, la giungla si calmò: gli abitanti dell'isola non li avevano inseguiti.
Quella calma apparente non persuase per nulla il nostromo, ma le ore passavano e non succedeva nulla. Poi verso il tramonto, un gruppo di quegli orribili esseri trasportò i marinai catturati ai margini della radura e li liberò. Gli uomini acciaccati dalla lotta e provati dalla prigionia, sorpresi di essere stati liberati, si aiutarono l'un l'altro e si radunarono attorno al capitano.
«Perché ci hanno liberati, capitano?» chiese il mozzo, coperto da innumerevoli graffi, ma per il resto illeso.
«Non lo so, figliolo».
In quel momento una figura imponente fece il suo ingresso nella radura e si fermò dopo qualche passo. Sembrava attendere qualcosa. Agli occhi dei marinai era evidente che fosse il più vecchio di quegli uomini abominevoli. Le fronde che si staccavano dal suo corpo erano lunghe e spessa la corteccia che lo ricopriva. Dal volto pendeva una lunga barba intricata e i folti capelli, di un grigio sporco, nascondevano uno sguardo privo d'espressione.
Il capitano Eastman, dopo aver fissato a lungo gli occhi vuoti di quella figura, ebbe un sussulto: «Mio Dio! Quell'uomo è Jeremy Abrams».
In quegli istanti il sole stava calando dietro le cime degli alberi più alti e lunghe ombre ricoprivano lentamente la radura.
* * *
A bordo del "Saint Andrew" l'equipaggio era ormai allarmato da tempo. C'era apprensione per la sorte dei dispersi e della spedizione di soccorso, dopo che s'era udita una raffica di spari in lontananza. Erano colpi soffocati dalla giungla, ma tutti avrebbero giurato che si trattasse di armi da fuoco.
Il terzo ufficiale aveva tergiversato per ore mentre gli uomini lo incalzavano, perché prendesse una decisione. Alcuni avrebbero voluto che fosse inviato un altro contingente di uomini in soccorso, ma i più chiedevano a gran voce che l'ancora fosse salpata e che il veliero partisse allontanandosi il più possibile da quei fondali maledetti.
Mentre a bordo la discussione ferveva e il sole era ormai calato dietro l'orizzonte, la vedetta nella coffa dell'albero maestro lanciò un grido e indicò la spiaggia.
Nella semioscurità della sera si vide a malapena un gruppo di quattro uomini che si impossessava di una scialuppa lasciata in secca dagli equipaggi sbarcati. L'imbarcazione fu spinta in acqua e si diresse lenta verso il veliero.
Chi riuscì a osservare le persone nella barca con l'aiuto di un cannocchiale riconobbe i colori dell'abito del dottor Jackson e la divisa del capitano Kirkland, perciò gli altri due uomini dovevano essere Bob e Jeff.
Subito un coro di grida entusiaste si levò dal ponte della nave e l'equipaggio si preparò ad accogliere i quattro dispersi.
* * *
Il capitano Ortega, comandante del "San Cristobal", osservava dall'alto del castello del suo galeone una scena sconfortante: una nave inglese squarciata era scossa dalle onde dell'oceano in burrasca. Era ormai semisommersa e il suo scafo veniva scorticato dal fondale corallino dell'isola.
«È il "Saint Andrew", capitano?» chiese il pilota.
«La sagoma corrisponde», rispose sconsolato Ortega. «Il nostro bottino è in fondo al mare. Reputavo il capitano Eastman un uomo prudente e capace, ma ha chiesto troppo alla sua nave e ha fatto naufragio. È l'unica spiegazione».
«Questa volta l'isola dell'impiccato non ha perdonato», constatò il pilota. «Quali sono i suoi ordini?»
«Veleggiamo al largo attendendo che l'uragano perda forza».
«E poi?»
«Domani manderò una squadra a ispezionare lo scafo. Potrebbe conservare parte del bottino. Poi ci riforniremo d'acqua e frutta sull'isola».
«Agli ordini, capitano!»
F I N E